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Autore: UncleObli    01/09/2013    1 recensioni
Un lungo viaggio in treno per fuggire dagli orrori del passato e iniziare una nuova vita. Un ragazzo solitario e un giornalista fuori dal comune. Un tavolo per due.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Da cosa stai scappando?

- Allora, perché sei qui? -
Mi accendo una sigaretta, e ignoro tranquillamente la domanda. Se avessi avuto la benché minima intenzione di fare conversazione con chicchessia non sarei certo in questa situazione. Guardo fuori dal finestrino il ripetersi costante delle dune e degli arbusti secchi del deserto del Mojave, e sospiro. Per sottolineare il concetto, soffio con malagrazia il fumo in faccia al mio interlocutore. A questo punto, lo ammetto, rimango sorpreso. Mi aspettavo un commento acido o un imprecazione a contornare la fine di quello sciatto dialogo a senso unico. Invece, mio malgrado, quello stupido giornalista non demorde. Anzi, si accende anche lui una sigaretta, una “Lucky Strike”, per la precisione, e aspetta con calma che io mi decida ad interrompere quel pesante silenzio. La situazione inizia ad irritarmi. Sfortunatamente, restano ancora circa dodici ore all'arrivo, e sarebbe piuttosto desolante dover sopportare quello sguardo penetrante per tutto il resto del viaggio. Finita la sigaretta, la spengo con un movimento deciso del polso sul posacenere del tavolino.
- Senta, non ho niente da dirle. Capisco che è il suo lavoro, che l'hanno mandata ad intervistare tutte le persone di questo dannato treno a lunga percorrenza, ma non vedo perché non può semplicemente passare alla prossima carrozza e rispettare la mia decisione di non rivolgerle la parola. -
Era da parecchio che non mettevo così tante parole in fila senza interrompermi. Potremmo definirlo un record, in un certo qual modo. Il giornalista sorride, conscio di aver segnato il primo punto, costringendomi a parlare. Decisamente quel tipo sarebbe stato una bella gatta da pelare.
- Semplice, ho più di dieci ore da passare qui, e il tempo non mi manca. Cambiamo argomento. Sai perché mi hanno spedito qui, ad intervistare tutti i passeggeri? -
Io sbuffo, sempre più irritato. Per questo la mia risposta è più sgarbata di quello che le buone norme di convivenza civile suggerirebbero.
- Non ne ho idea, forse perché il suo direttore ha un fetish per le storie banali? O forse si annoiava, e dovendo tenerti sul libro paga ti ha sbattuto qui, per avere un po' di tregua... -
Il giornalista inizia a ridere a crepapelle, come se avessi detto qualcosa di particolarmente divertente o arguto. Poi si accende un altra sigaretta. Alla mia espressione di disappunto risponde con un occhiolino malizioso. D'istinto, arrossisco, e questo non fa che aumentare la sua ilarità. Abbassando la voce, rivela:
- E' proprio il contrario. Questo tipo di corse sono il terreno ideale per un giornalista in cerca di una storia. E' incredibilmente scomodo, visto che un aereo impiegherebbe meno della metà del tempo a percorrere lo stesso tragitto. Però è discretamente economico. Per questo la maggior parte delle persone che vogliono cambiare aria rapidamente o stanno scappando da qualcosa scelgono questo mezzo. Sorprendente, no? E io sono interessato a quello che potreste raccontarmi. Credo ne possa venire fuori un buon pezzo. -
Io digrigno i denti, frustrato. Il bastardo ci ha azzeccato con una precisione a dir poco chirurgica. Senza darmi il tempo di replicare, continua,
- E sapessi che storie ho raccolto in queste tre ore di viaggio! Niente di eccezionale, chi lo nega, ma comunque tutte piuttosto affascinanti. Pensa che la signora due carrozze più indietro...ah, forse non dovrei parlarne... -
- E io dovrei confidarmi con uno dalla lingua lunga come te? Che scherzo di pessimo gusto. -
L'uomo si zittisce, accorgendosi di essere incappato in una gaffe non da poco. Per qualche secondo non parla, squadrandomi con sincera curiosità. Di rimando, lo osservo anche io. L'uomo è sulla trentina, di origine ispanica, con un viso aperto e gioviale incorniciato da una discreta massa di capelli neri e arruffati. Sembra un uomo piuttosto onesto e tranquillo, non certo il tipo che aspetta solo di fregarti.
- Stiamo solo chiacchierando , non voglio una confessione. A volte persone come te non aspettano altro che una spalla su cui piangere o qualcuno con cui parlare. Sei strano, sai. Come mai un ragazzo come te, di bell'aspetto e dai modi controllati, è finito in un posto come questo? Non sei il tipico viaggiatore che si incontra qui. -
Dal modo con cui parla, capisco che non è la prima volta per lui in questo treno. Improvvisamente, il mio stomaco borbotta, affamato. Di fronte al suo sorrisetto sarcastico non posso fare a meno di ringhiare, sulla difensiva. L'uomo alza le braccia, in segno di conciliazione.
- Sembri piuttosto affamato, amico. Che ne dici di un bel pranzetto? Offro io. Dalla tua faccia credo tu abbia le tasche vuote quasi quanto la pancia. Tranquillo, i soldi non mi mancano, e mi stai simpatico. -
Io alzo un sopracciglio, sospettoso. L'uomo mi tende la mano, con un sorriso.
- Non mi sono ancora presentato, che maleducato. Mi chiamo Ricardo. Americano di origine messicana, per rispondere alla tua prossima domanda, amigo. Allora, ci stai? Che male può farti un pranzo gratis? Mica te lo offro in cambio di una confessione completa. -
- Sembri sincero. -
- Lo sono. -
Ricambio la stretta di mano, non del tutto convinto. L'uomo la stringe con calore.
- Mi chiamo Jake. -
- Che non è il tuo vero nome. -
- Infatti. -
- Me lo farò bastare, per il momento. -
Ci dirigiamo alla carrozza di testa, adibita a vagone ristorante. Com'era prevedibile, ci sono ben pochi tavoli liberi, ma con non poca fortuna riusciamo ad ottenere un tavolo per due. Lui ordina delle lasagne ai funghi, una braciola di maiale cotta a fuoco medio e un calice di vino rosso. Io invece mi limito a prendere delle omelette al formaggio e una bottiglia d'acqua minerale naturale.
- Non hai fame? -
- Non mi piace sentirmi in debito, tutto qui. -
Ricardo beve un sorso di vino, centellinando il bicchiere. Mangiamo in silenzio, ognuno assorto nei suoi pensieri. Ricardo mangia voracemente, senza risparmiarsi. Finito il pasto, ordina un caffè espresso e un sorbetto al limone. Il caffè non sembra affatto buono, a giudicare dall'espressione della sua faccia. In ogni caso non commenta. Finite le mie omelette, aspetto che termini di pranzare mangiucchiando del pane alle noci. Poi torna alla carica. Forse crede io sia più malleabile con lo stomaco pieno. Che è vero, peraltro.
- Mi piacerebbe sapere qualcosa su di te. Che so, dove sei cresciuto, perché sei qui...se ti secca, eviterò di inserirti nell'articolo. Sono solo curioso, tutto qui. -
Cerco di prenderlo in contropiede.
- Prima dimmi tu qualcosa. Così saremo pari. Se mi dirai qualcosa di te io ti racconterò la mia storia. Hai ragione, sai. Ho parecchie cose da raccontare, e tutto il tempo per farlo. Però non voglio essere inserito nel tuo articolo, e desidero che quello che ti racconterò resti fra noi. Se così ti sembra accettabile... -
Nemmeno stavolta riesco a spiazzare Ricardo. Annuisce solennemente, come se avessimo firmato un patto col sangue. Sembra riflettere, grattandosi un lato della testa con l'indice della mano sinistra.
- Come vuoi. Su di me non c'è molto da dire, in realtà. Sono nato in Messico trentadue anni fa, precisamente il diciassette Giugno. A due anni la mia famiglia si è trasferita a Las Vegas, dove mia madre si prostituiva per mantenere me e quell'ubriacone del mio vecchio. A cinque mio padre è morto di overdose; nell'ultimo periodo aveva scoperto le magie dell'eroina, sai. Ma per noi è stata una liberazione. Con tanti sacrifici sono riuscito a diplomarmi e a frequentare un college discreto...di storie come la mia ce ne sono molte, là fuori. Tocca a te, muchacho. -
Mi decido a vuotare il sacco. Sollevo la manica destra della felpa che indosso, rivelando una fasciatura che copre quasi tutto l'avambraccio e il polso. Ricardo mi guarda interrogativo. Con lentezza, tolgo le bende, rivelando una lunga cicatrice frastagliata e rossastra. In alcuni punti i muscoli non si sono ricongiunti bene, formando delle specie di creste di pelle alte qualche millimetro. Ricardo fischia piano, sorpreso.
- E' da questa che sto scappando. Tua madre era una prostituta e tuo padre un ubriacone? Ti è andata anche bene. Sono originario della California, precisamente a qualche decina di miglia da San Francisco. Vivevo con mio padre e mia madre, e tutto filava liscio come l'olio. A quattro anni, però, successero diverse cose. La ditta di mio padre lo licenziò, e mia madre si improvvisò cameriera per uno squallido ristorante indiano. Purtroppo i soldi non bastavano, e per questo abbiamo dovuto trasferirci a San Francisco, in periferia. La situazione era insostenibile, e credo che quell'improvviso cambiamento nella nostra vita abbia fatto saltare qualche rotella a quel bastardo di mio padre. Per fartela breve, qualche mese dopo ha ammazzato mia madre con un coltello da cucina, e con lo stesso coltello ha cercato di far fuori anche me. Fortunatamente, i vicini, allarmati dal rumore, hanno fatto in tempo a fermare mio padre prima che terminasse il lavoro lasciato a metà. Me la sono cavata con questa cicatrice e parecchi anni di terapia. Naturalmente mio padre finì in prigione, e ci rimase. Forse ti ricordi anche di questa storia, Ricardo...in fin dei conti sei un giornalista. -
Ricardo annuisce. Lo ricorda eccome, e probabilmente ricorda anche il secondo atto.
- Bene. Sono stato adottato da una famiglia di Washington. Cambiare aria è stato l'ideale, lasciamelo dire. Tutto andava bene, era perfetto. Ero persino riuscito a dimenticare quel giorno, cicatrice a parte. Tanti amici, una ragazza...niente di speciale, ma comunque quella vita mi stava a pennello. E i miei genitori adottivi mi adoravano come io adoravo loro. Poi, due settimane fa, accadde di nuovo. Mio padre riuscì in qualche modo assurdo ad evadere di galera. I servizi sociali ci avvertirono, naturalmente, ma non ci allarmammo troppo. Eravamo lontanissimi dal carcere, e mio padre non poteva sapere l'identità di chi mi aveva adottato. Me lo ripetevo ogni giorno. Pie illusioni. Quattro giorni fa sono tornato a casa e ho trovato i miei genitori adottivi in un lago di sangue. E mio padre era seduto in soggiorno, a gustarsi la cheescake che era stata preparata per la cena. Non riuscivo a muovermi, ero impietrito dall'orrore. Il mio vecchio viene da me, mi abbraccia come se fosse la cosa più naturale del mondo, e mi invita a sedermi. Capisci? A casa mia. Avrei rifiutato volentieri, se non fosse stato per il tono men che gentile e il coltello ancora sporco di sangue. Mi ha detto che non avrei dovuto cercare di scappare, che era colpa mia se quei due erano morti. E naturalmente era colpa mia anche per la morte di mia madre. Io lo ascoltavo con un orecchio solo: sapevo che in soggiorno era nascosta una calibro nove, nella credenza. Quando mio padre era evaso, ne avevamo prese tre, e le avevamo nascoste in giro per la casa. Purtroppo i miei non avevano fatto in tempo a prenderle per salvarsi la vita. Approfittando di un suo attimo di distrazione sono riuscito a prenderla e a puntargliela contro. Lui mi ha guardato. E ha sorriso, beffardo. Ha detto che non avrei avuto le palle per ammazzarlo e che in fin dei conti ero sangue del suo sangue. Si sbagliava. Un solo colpo alla testa. Poi, per gradire, ho dato fuoco alla casa. Tutte queste cose le avrai lette sul giornale, no? Scommetto che se ne parla anche in televisione. -
-Ho scritto io l'articolo sulla morte dei tuoi genitori adottivi, infatti. Non hanno ancora fatto l'autopsia, e i cadaveri sono irriconoscibili. Si credeva che quel terzo corpo fossi tu...
-Lo so, ma non ci metteranno molto a scoprire la verità. Mi sono nascosto a casa della mia ragazza, e le ho raccontato tutto. Mi ha aiutato molto. Ho cambiato colore dei capelli con un comune prodotto di cosmesi e lei mi ha fatto un nuovo taglio. Studia per diventare parrucchiera. Mi ha prestato i soldi per il treno e ha convenuto fosse meglio cambiare aria per qualche tempo. Quando è venuta la polizia ad informarla della mia presunta morte ha retto il gioco. Voglio solo iniziare una nuova vita, Ricardo. -
Lui finisce il sorbetto, riflettendo sulle mie parole. Sembra combattuto. Per prendere tempo, dice:
- Sai che dovrei informare la polizia di tutta questa storia? -
- Si, lo so. Ma non lo farai. -
- Hai ragione. Non lo farò. Hai qualche progetto per il futuro? -
Io scuoto la testa, abbattuto. Non ho mai seriamente pensato a cosa fare dopo essere arrivato a destinazione. Non mi interessa il futuro, la mia vita è nel passato. Però non voglio rimanere ancorato all'ineffabile mondo delle possibilità, di ciò che era e di ciò che sarebbe potuto essere. Io sono vivo, e non sprecherò quest'opportunità. Se sono ancora qui è grazie al sacrificio di altre tre persone che hanno perso la vita a causa mia. E poi ho ancora dei sogni, e delle speranze. Un flebile vento fresco carico di sottintesi nascosti ha iniziato a soffiare nella mia vita, da quando lo spettro di mio padre ha perso ogni potere su di me.
- No, non ne ho. Però non ho paura. I morti restano morti, ma noi dobbiamo vivere. -
- L'ho già sentita questa. Hai ottimi gusti, in fatto di libri. -
- Grazie. -
- Pregherò per te. -
- Ah, questo si che mi sarà d'aiuto. - dico, sarcastico.

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Questo racconto parte da un articolo di Nathaniel Rich. Ha scritto un lungo reportage per il New York Times sul treno Sunset Limited e le storie fuori dal comune dei suoi passeggeri. Naturalmente, la storia contenuta in questo racconto è invece di pura fantasia e non ha alcun legame con quanto scritto dal signor Rich.
  
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