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Autore: Angeline Farewell    01/09/2013    5 recensioni
Cross-over Thunderfrost-Hiddlesworth
[...]Con Chris dimenticava persino quella parte fosse mai esistita, non aveva mai sentito come un’urgenza imprescindibile quella di mostrare il suo profilo migliore, mai.
Poi si erano baciati sotto un cielo troppo grande ed un sole troppo caldo, e non una volta aveva pensato fosse stato inopportuno, non una aveva pensato avessero qualche rotella fuori posto entrambi, o lui soltanto, perché baciare Chris era stato come ritrovare la coperta azzurra che non sapeva di aver perduto.[...]
[Questa storia va letta come naturale seguito di Såsom i en spegel, rimando quindi alla lettura della storia per la comprensione degli eventi.
La storia tenta di seguire il filo degli avvenimenti realmente accaduti fino al 17 Aprile 2011, data della Premiere australiana di Thor, da quel momento in poi, è tutto da considerare una mia totale invenzione. Nel primo capitolo, ulteriori ragguagli e warning.
]
Genere: Angst, Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Chris Hemsworth, Tom Hiddleston
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Samskeyti '
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Atto II, Scena I.

Quando era ancora solo un ragazzino, sua madre era la sua principale fonte di consolazione. Fossero problemi scolastici (rari) o di cuore (frequenti), era da lei che correva cercando una spalla su cui piangere. E sua madre lo aveva sempre accolto tra le braccia, lo aveva ascoltato e, dopo le coccole e i consigli di rito, lo aveva sempre lasciato dicendogli di non piangere, perché quando lo faceva sembrava anche il cielo volesse imitarlo.

Chris sapeva non fosse vero, eppure quelle parole avevano sempre avuto il potere di farlo sorridere di nuovo.
Ma la pioggia non gli piaceva, non tanto perché i suoi genitori gl’impedivano di fare surf durante gli acquazzoni più intensi, ma soprattutto perché la pioggia sembrava influire – o essere legata? – al suo umore.

Forse era quello il motivo per cui aveva sempre preferito il Nord a Melbourne, pioveva talmente poco che quando poi finalmente il cielo si scuriva non si sentiva in colpa per il suo cattivo umore. E non aveva senso, ma in fondo allo stomaco la sensazione era sempre stata quella.

Mentre stringeva – forse troppo forte, ma non riusciva ad allentare la presa – Tom tra le braccia, avrebbe voluto dirglielo, raccontargli della tempesta senza fine che si sentiva dentro, ma le parole morivano prima di riuscire a raggiungere la lingua e il silenzio, chissà perché, sembrava essere  più importante di tutto. Non poteva fare rumore come l’orso – orso? – che era.

Aveva promesso ad Elsa che l’avrebbe portata con sé alla Premiere di Los Angeles, si sarebbero presentati a tutti, le aveva già comprato un anello enorme che aveva pregato suo padre di custodire per lui. Ma non l’avrebbe fatta sfilare su quel red carpet né su altri, l’anello l’avrebbe sfoggiato sua madre al prossimo anniversario.

La pelle di Tom contro la sua lo terrorizzava, ma come avrebbe fatto a rinunciarvi?

Quel calore, quell’odore, lui, era tutti i problemi che non sapeva di volere, di cui non sapeva di aver bisogno.

Non sapeva quando quella certezza l’aveva colpito, forse quando l’aveva baciato – perché c’era poco da fare e dire, era stato lui a baciarlo, e il fatto fosse stato sicuro Tom l’avrebbe accolto non era un’attenuante – forse persino prima, seduti sul lussuoso divano di Ken. La sua vita ordinata era sempre scivolata tranquilla, piena d’amore e certezze, eppure conoscere Tom gli aveva fatto capire che – in fondo – non era mai stato certo di nulla, perché la chiarezza con la quale lo sentiva suo faceva impallidire ogni altra sensazione avesse mai avuto in vita sua. Amava Elsa, ma Tom era quella fantomatica altra cosa che aveva sempre irriso mentre recitava in una brutta soap opera. Non riusciva neppure a chiedersi cosa, lo sapeva e basta.
Mentre leccava grosse gocce salate che gli scivolavano tra le scapole ossute aveva avuto la netta sensazione che quello era il sapore che aveva inseguito tutta la vita senza saperlo, e riscoprirlo lo aveva fatto sentire allo stesso tempo euforico e sgomento. E non aveva senso, perché era stata la loro prima volta, ma cosa avrebbe fatto se glielo avessero portato via di nuovo?

Era confuso dai suoi stessi pensieri, confuso dalle immagini sfocate come orribili ricordi che lo tormentavano da mesi: la notte stessa dopo quel bacio, qualcuno aveva provato a portarglielo via e non aveva importanza fosse stato un sogno, la sensazione era stata orribile, il sollievo nel rivedere il suo sorriso oltre una tazza fumante di caffè nero, immenso.

Chris non ricordava di aver mai avuto tanta paura in vita sua come dal giorno in cui l’aveva baciato. No, forse anche prima: dal giorno in cui aveva sentito per la prima volta il suo nome ed aveva temuto di non essere all’altezza. Ma di cosa? Leggendo il suo curriculum aveva pensato il suo senso d’inadeguatezza fosse professionale. Poi gli aveva morso la mano che gli stava tendendo con fin troppa fiducia in una casa estranea e si era sentito proprio così, un cane.

Non voleva alzarsi. Il sole cominciava a filtrare tra le nuvole e lui avrebbe preferito piovesse in eterno se gli dava la scusa di rimanere sdraiato lì con l’unica cosa avesse mai sentito davvero sua tra le braccia.
Suo davvero, suo perché solo a lui era concesso guardarlo negli occhi e leggere in quel mare di quiete apparente.

Il cubicolo della doccia era troppo piccolo per due uomini adulti, ma l’avevano usato insieme ugualmente, gli aveva lavato i capelli e si era lasciato lavare la schiena con naturalezza e – per un momento – sembrò ricordare perché quella sensazione di abitudine non fosse strana, ma passò prima che riuscisse ad aprire bocca, come tutto il resto.

Quando avevano finalmente accettato di riallacciare i rapporti con il mondo esterno era già quasi sera. Il sole era spuntato tra le nuvole solo per mostrarsi quasi al tramonto.

Avevano entrambi troppi messaggi al cellulare ai quali non avevano voglia di rispondere e per fortuna non avevano nessun incontro o intervista fissati per quel giorno.

Chris lo guardava rivestirsi e si chiedeva come avrebbero fatto tutti a non capirlo, ma non osava dirlo ad alta voce. Tom aveva piegato la cravatta e l’aveva nascosta in una tasca, aveva preso un grosso golf nell’armadio da indossare al posto della giacca: sembrava aver pensato a tutto, tranne al fatto quel golf lo facesse sembrare un ragazzino tanto gli era largo.

Tutti avrebbero capito, tutti avrebbero saputo. E se non fosse stato abbastanza quel golf, sarebbe stata la sua espressione a rovinare tutto. Avevano bisogno di silenzio, eppure anche gli abiti sembravano urlare.

Non aveva mai piovuto tanto a Sydney come durante la settimana in cui erano stati impegnati con la promozione del film, acquazzoni improvvisi si erano riversati sulla città portando un freddo anomalo per l’autunno australe, solitamente mite. Le nuvole si addensavano soprattutto nelle poche ore che precedevano l’alba, quelle che riuscivano a rosicchiare a genitori, amici, feste, interviste.

Temporali improvvisi come non lo era la loro passione, perché Chris continuava a temere qualcuno finisse per domandare che state combinando dove vi nascondete noi sappiamo.
Forse era davvero un bravo attore, perché nemmeno sua madre lo aveva preso da parte allarmata da silenzi che – quando non erano soli, lui e Tom – si sforzava di riempire con risate e parole e sciocchezze senza senso.
Il suo piccolo appartamento era diventato un nascondiglio scomodo - perché in fondo troppo noto - eppure avevano continuato a scivolare sul letto scansando coperte e lenzuola, senza curarsi del freddo: la pioggia imperversava, il vento soffiava con violenza, e per loro era solo una scusa per stringersi più forte.

Chris si era ritrovato a guardarlo dormire solo una volta, l’unica gli fosse stata concessa, perché Tom sembrava non dormire mai. L’aveva spiato attraverso la penombra del primo mattino e aveva cercato di chiedersi perché senza sentirsi ridicolo.

Perché siamo qui?
Perché non è
strano?
Perché ho tanta paura?

Perché avrebbe voluto nasconderlo per sempre agli occhi di tutti, perché pensava di averne il diritto – o il dovere – perché aveva paura di ferirlo con una parola di troppo, perché avrebbe passato l’eternità  in quel letto insieme a lui. Perché l’eternità non gli sembrava un concetto astratto.

Forse avrebbe fatto bene a lasciarlo dormire.

Le nuvole avevano preso ad addensarsi all’orizzonte, quasi fossero state richiamate dalla sua voglia. Il terrore e il desiderio erano diventate una cosa sola ed aveva preso a baciarlo senza pensarci, conscio del fatto avrebbero dovuto essere in una stazione radio entro poche ore, dove tutto sarebbe ricominciato da capo, dove avrebbe di nuovo passato il tempo a chiedersi come facessero tutti a non capire.
Tom non si era piegato arrendevole alle sue labbra, non lo aveva mai fatto né si era mai aspettato lo facesse. Così come era sempre stato sconsideratamente certo della sua accoglienza, non aveva mai neppure dubitato di doversela guadagnare: facevano l’amore e si facevano la guerra come ragazzini viziati, si avvinghiavano in scontri silenziosi che però non lasciavano mai vincitori, solo vittime felici.

Tom aveva aperto gli occhi di scatto e Chris sapeva cosa avrebbe visto – e quando i suoi occhi erano diventati così intensi? Tom aveva gli occhi cangianti come la superficie dell’acqua, non ti scrutava con quelli di un gatto – e cosa aspettarsi. Aveva soffocato in gola un verso strozzato non sapeva più se di dolore o piacere quando gli aveva affondato i denti nella polpa morbida delle labbra.

Non aveva atteso molto, pochi preamboli, preliminari, preparazione: poco tempo, il sole dietro le nuvole era già quasi alto.
Lo aveva preso con un gesto secco e l’aveva sentito irrigidirsi per il dolore, ma non aveva emesso un suono, né si era ritratto: gli aveva concesso una facile vittoria e un lampo più luminoso degli altri parve siglare la resa.

Il cielo grondava pioggia e rumore che sembrava voler nascondere quello che comunque non avrebbero prodotto e, per la prima volta, Chris si rese conto che non si erano mai guardati negli occhi, che avevano consumato il sesso cercandosi con gli occhi chiusi come chiuse erano rimaste le loro bocche, se non impegnate a divorarsi.

Il corpo di Tom era un tappeto di trofei di guerra, lividi grossi come dita ornavano la sua pelle bianchissima come fiori violacei, una grossa rosa scura fregiava – o sfregiava? – l’incavo tra il collo e la spalla e Chris non riusciva a staccare lo sguardo dalle incisioni rossastre lasciate dai suoi denti, l’esatto punto in cui zittiva la sua passione sempre troppo chiassosa.

Faceva sempre troppo rumore, Tom si mordeva le labbra sottili e tremava sotto di lui, forse non di piacere. Come non si muoveva lui spinto da quel desiderio, non era stata la voglia a costringerlo a svegliarlo, ma la paura, il terrore della solitudine che vedeva riflesso negli occhi troppo scuri di Tom.

“Io so perché siamo qui, ma tu? Tu non mi a-”
“Non fare domande alle quali non puoi avere risposta.”
“Ma è così?”
“Taci, le sciocchezze fanno chiasso e rubano tempo.”

Chris sentiva le orecchie fischiare coprendo persino il rombo dei tuoni ormai tanto forti da far tremare i vetri.
Continuava a muoversi al ritmo del metronomo della tempesta che imperversava su Sydney, su un mondo esterno che non poteva più sentire e di cui non si curava. Sentiva la pelle vibrare per l’elettricità statica nella stanza, l’odore di ozono gli riempiva le narici e gli bruciava gli occhi che pure continuava a tenere spalancati su quelli di Tom, che aveva dischiuso finalmente le labbra e sembrava implorarlo con una muta preghiera.

Zitto zitto zitto non rovinare tutto non di nuovo zitto non parlare fa’ silenzio.

La tempesta era diventata un concerto per sole percussioni, tuonava tanto forte che sembrava la grancassa del cielo stesse per squarciarsi come la pelle di un tamburo troppo usurato. E Tom tremava con gli occhi tanto sgranati che sembrava non sarebbe mai più riuscito a richiuderli, Chris lo fissava a sua volta spiandolo alla debole luce dell’elettricità statica che crepitava nell’aria, fissava i suoi occhi, le sue labbra mute, e sapeva avesse ragione, sapeva il silenzio fosse l’unico loro alleato, ma la sua pelle vibrava, lo guardava e sentiva pungere una voglia diversa, sentiva esplodere una voglia antica, il cielo urlava e il sudore gli ghiacciava la pelle, ed era sempre lui, solo lui, che non era vero fosse suo, perché non poteva dire il suo nome, gli stava esplodendo la testa e i lampi erano troppo luminosi e voleva fosse suo davvero, non voleva avere dubbi, non poteva averne e il cielo cadesse pure, lui era sicuro.

Quando cadde davvero, però, nessuno dei due era stato davvero pronto a contarne i pezzi.

 

Atto II,  Scena II.

Quando Chris aveva dato voce alle sue paure gridando il nome sbagliato, si era preparato al piacere che sarebbe seguito, non al dolore lancinante che gli aveva straziato la schiena rendendolo muto davvero.

Chris era ancora disteso sul letto, prono, nudo. Con la schiena aperta in un’unica ustione che piagava la carne dall’attaccatura delle natiche alla nuca. La camera era completamente distrutta, le pareti sembravano stare in piedi per pura inerzia. Il resto del mondo sembrava essere sparito dietro la cortina di fumo che circondava quello che una volta era il loro letto. Un silenzio irreale si era sostituito al fragore del temporale, era come se non avesse mai cominciato a piovere.

Tom no, lui non era ferito.

Nudo e coperto di sangue non suo era riuscito a mettersi malamente seduto tenendo stretto il corpo di Chris tra le braccia, incurante delle piaghe, del sangue che il calore aveva già rappreso, del lezzo di carne bruciata.

Teneva stretta tra le braccia la testa bionda di Chris che non parlava più e non riusciva a capire se almeno respirasse ancora. Non sapeva neppure se lui stava ancora respirando, nonostante il puzzo che gli bruciava le narici. E il fumo che andava diradandosi per mostrare cose che non voleva vedere.

Un vecchio troppo alto e troppo grosso li stava fissando con il solo occhio che gli rimaneva. Sembrava vestito di stracci, ma era solo una veste antica, da pellegrino, i lunghi capelli e la folta barba bianca completavano il ritratto di un vecchio viandante che non si era mai perso, ma aveva perso innumerevoli vite durante il cammino.

Tom sapeva chi era, ma non ne conosceva il nome. Tom sapeva cosa volesse ma non ne capiva il motivo. Tom sapeva troppe cose che non credeva di dover conoscere, ma non sentiva paura, solo un dolore atroce che gli straziava il petto. Sì, forse respirava ancora, dopo tutto.

Il vecchio aveva alzato il bastone che Tom non gli aveva visto stringere in una mano e solo allora aveva trovato la forza di alzare lo sguardo sul suo viso senza tempo.

Perché?

Non lo aveva detto ad alta voce, ma il vecchio lo aveva fissato con il suo unico occhio, azzurro come era azzurro il cielo di Chris, e il suo bastone aveva tremato quasi impercettibilmente, fermandosi per un momento.

Ma era calato comunque. E Tom aveva chiuso gli occhi.

 

 

 

   
 
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