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Autore: ZKaoru69    02/09/2013    7 recensioni
Baviera, 1794.
La giovane nobile Isolde l'indomani dovrà sposarsi con suo cugino, Jean-Pierre-Emilien, che non ha mai incontrato.
{Ha partecipato al contest "Incubi Notturni" indetto da ContessaDeWinter: Premio Migliore Incubo}
{Ha partecipato al contest "Recensioniamocela!" indetto da Aleyiah}
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore
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Baviera, 1794



«Ricordatevi di essere gentile e ospitale con nostro cugino, Isolde. Ha perso tutto dopo la Rivoluzione. È stato davvero fortunato a riuscire a lasciare la Francia prima del Terrore...» Hannerose strinse la mano piccola e fredda della sorellina tra le sue, incoraggiandola. «Cercate di essere accogliente, per favore. Sapete che nostro padre conta su di voi».

Isolde non rispose. Sfilò dolcemente la sua mano da quelle della sorella e scostò la tendina del finestrino. La carrozza procedeva a velocità sostenuta: per pranzo sarebbero giunti a Linderhof, dove avrebbe conosciuto Jean-Pierre-Emilien, suo cugino nonché promesso sposo. Aguzzò la vista, tentando di distinguere meglio la sagoma del castello che già si intravvedeva nella foschia mattutina. Erano passati anni dall'ultima volta che vi aveva soggiornato, ma era rimasto imponente e scuro come nei suoi ricordi di bambina. Un raggio di sole che si era fatto strada tra le nubi illuminò la torre Est, dove si trovava la sua stanza. Le piaceva svegliarsi con la luce dell'alba, perciò aveva chiesto a suo padre di assegnarle quella, nonostante la vicinanza agli alloggi della servitù. Isolde, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare altre concessioni a capricci infantili da parte di suo padre. Inoltre, la finestra dava proprio sul precipizio scosceso sul quale cresceva un boschetto che le regalava un profumo inebriante ogni volta che si affacciava. Profumo di libertà, una libertà che non aveva mai avuto. Corrugò la fronte, chiedendosi in quale stanza avrebbe dormito la notte seguente, quando sarebbe stata la moglie di Jean-Pierre-Emilien.

Hannerose le passò dolcemente una mano sul viso in una carezza affettuosa.

«Vedrete che sarà meno tragico di quanto non pensiate».

Isolde la guardò negli occhi, ma abbassò lo sguardo subito dopo. Per lei era facile parlare. Era la più bella e la più intelligente delle due; era di carattere deciso ma giusto. Un paio di anni prima era stata presentata a uno dei nipoti del Principe di Sassonia a un ricevimento e lui, folgorato, l'aveva chiesta in moglie poco dopo. A Isolde, invece, era stata preclusa la scelta di un marito: altri avevano deciso al suo posto, come se lei non fosse altro che una marionetta di cui suo padre e suo cugino potevano disporre a proprio piacimento in caso di necessità.

La ragazza guardò un'altra volta il castello di Linderhof. Conservava tanti ricordi felici della sua infanzia tra quelle mura solide e antiche. Sperava solo che il futuro le riservasse poco dolore a fianco di suo marito.


***


Erano stati presentati, ma durante tutto il pranzo si erano a stento scambiati una parola. Isolde del resto evitava sempre di parlare, se non vi era costretta.

Nel pomeriggio si rifugiò in biblioteca per scegliere una lettura serale. Le piaceva l'odore dei libri misto a quello del legno. Prese distrattamente un libro e lo sfogliò, assaporandone il profumo. Era il Götz von Berlichingen di Goethe. Aveva acquistato lei stessa quel libro, d'impulso, dopo aver letto I dolori del giovane Werther nella biblioteca di sua zia, a Monaco. Ammirava lui e il gruppo di cui faceva parte, Tempesta e impeto.

«Je ne savais pas que vous aimiez lire*».

Per la sorpresa Isolde lasciò cadere il volume a terra. La mano di Jean-Pierre-Emilien lo raccolse.

«Quel dommage!, je suis désolé», si scusò.

«Il n'y a pas des problèmes», si limitò a rispodere lei nel suo francese scarso.

«“Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera”» recitò lui, aprendo una pagina a caso. «Conosco questo autore. Illeggibile», lo liquidò.

La ragazza si sentì come se le avesse dato un pugno nello stomaco.

«Herr Goethe parla di grandi imprese e di forti passioni», lo giustificò flebilmente.

«Mais oui, bien sur. Tempête et Passion, non? Comment est-ce que vous l'appelez? Sturm und Drang?»

Isolde chinò leggermente il capo per confermare. La tempesta delle passioni e l'impeto della battaglia. Werther e Götz.

«Grandi imprese... Uccidersi per una donna? Non, merci. Ribellarsi al proprio signore per dei contadini?...» L'uomo lasciò la frase in sospeso, ma dal volto cupo si capiva benissimo la sua opinione in merito.

«Ma gli ideali di onestà e lealtà...»

«... Liberté, égalité, fraternité aussi. Guardate in Francia, come Madame la Guillotine rispetta gli ideali».

«Eppure...» cercò di replicare lei con l'ultima goccia di coraggio che le rimaneva, senza sapere come esprimersi. Perché suo cugino non riusciva a comprendere la grandezza di quelle parole? «Götz incarna le virtù cavalleresche che soccombono in un mondo vile e gretto, Werther l'Amore totale che annulla tutto il resto, e se...»

«Götz morì ottuagenario e Wether era uno sciocco, chérie. Come se il matrimonio rendesse inarrivabile una donna!» Gettò la testa all'indetro, ridendo di gusto.

Isolde abbassò gli occhi pieni di lacrime, si inchinò mormorando un saluto e se ne andò in fretta.


***


Dopo cena, Isolde prese una bugia e tornò in biblioteca. Quel pomeriggio era talmente sconvolta che alla fine si era dimenticata di predere un libro da leggere prima di addormentarsi.

Sulla strada del ritorno sentì degli strani rumori provenienti dagli alloggi della servitù.

Incuriosita, buttò l'occhio in quella direzione e ciò che vide, illuminato dalla fioca luce di un candelabro, la raggelò: Jean-Pierre-Emilien stava spingendo contro il muro una servetta, Inga, mentre le sollevava la gonna e le lasciava una scia di baci lascivi sul collo. Lei gemeva, ma non come a una cui stessero facendo del male.

La ragazza corse via, senza che nessuno si accorgesse di lei. Non capiva quello che aveva visto, ma in qualche modo sapeva che il suo promesso non si era comportato in modo corretto.

Richiuse la porta della sua stanza dietro di sé con il fiatone. Cercò di calmarsi, sprofondando nella lettura, ma non riuscì a concentrarsi: le tornava in mente quella scena, la vedeva continuamente mentre girava le pagine. Inoltre, se prima l'idea di sposare uno sconosciuto non le piaceva, ora paventava di unirsi in matrimonio a suo cugino. Non aveva mai osato sperare di essere felice a fianco di suo marito, ma la vita che le si presentava davanti era davvero senza speranza. Attizzò la legna nel camino e decise di coricarsi. Dopo un sonno ristoratore, sicuramente non sarebbe stata così pessimista alla luce del mattino.

Ma al momento lasciò che calde lacrime scorressero liberamente sul cuscino.


***


Isolde lasciò che le serve la vestissero. L'abito da sposa bianco era adorno di pizzi e veli, ma tutta questa ricchezza non la rendeva felice. Si allontanò di qualche passo dalle donne per controllare nella specchiera della toeletta se sul viso fossero rimase tracce del pianto della notte passata. Si scostò il velo finemente ricamato con la mano candida. Rimase di ghiaccio quando vide il suo riflesso: il suo viso era liscio e levigato come quello di una bambola. E come una bambola, occhi e labbra erano stati disegnati da un pennello. Isolde voleva gridare, ma non poteva: le sue labbra erano eternamente contratte in un sorriso falso.

La sua mano destra si mosse contro la sua volontà e le tirò giù il velo sul viso. Terrorizzata, si accorse che dai suoi polsi partivano dei fili sottilissimi, quasi invisibili, come quelli di una marionetta. Si sforzò di alzare la testa per vedere chi la stesse manovrando, ma non ci riuscì.

Osservò la stanza intorno a lei, febbricitante, mentre la sua camera da letto si trasformava mano a mano nella cappella nobiliare del castello di Linderhof. Il grande cassettone era diventato una panca per gli invitati, la toeletta un organo medievale dal suono squillante, e infine il suo letto a baldacchino l'altare. Le tende che lasciavano la stanza in penombra svanirono, e alla finestra comparvero vetrate che sembravano risprendere di luce propria, tanto abbagliavano chi le guardava.

La cassapanca ai piedi del letto era diventata un inginocchiatoio per gli sposi davanti all'altare. Isolde fece come per avviarsi verso di esso, reputandolo il posto dove doveva stare, ma d'un tratto il burattinaio mollò la presa e i fili non la sorressero più. Non cadde a terra, però: un braccio forte la avvinghiava alla vita, mentre una mano posata sul collo le reggeva la testa. Isolde non aveva la forza di sottrarsi a quel tocco invadente; vi si abbandonò, il corpo ormai un guscio vuoto che non poteva comandare. L'uomo la girò verso di sé: era Jean-Pierre-Emilien. Alla sua vista, la ragazza cercò di divincolarsi in un ultimo anelito di libertà, ma il suo corpo si rifiutò di collaborare, e per suo cugino non fu complicato vincere questa ultima, disperata resistenza. Fece cadere il velo a terra e la baciò sulla bocca, famelico. Isolde si irrigidì; ma anche se avesse voluto – e non voleva – non sarebbe stata in grado di ricambiarlo. Le sue labbra rimasero sorridenti e ferme, insensibili alle avances dell'uomo. Lui emise uno sbuffo, come se la cosa non lo riguardasse, e le sollevò il mento con due dita, rovesciandole la testa all'indietro. La sua gola esposta divenne facile preda dei suoi baci indesiderati. Con orrore, Isolde si accorse che la mano destra di Jean-Pierre-Emilien si stava intrufolando sotto le gonne, proprio come stava facendo la sera prima con Inga. Voleva gridare e chiamare aiuto, ma dalle sue labbra non usciva alcun suono. Rimase a guardare il soffitto a volta, cercando senza successo di ignorare il tocco lussurioso e disgustoso di suo cugino. Quel corpo da marionetta non le concedeva nemmeno il sollievo delle lacrime.

Improvvisamente Jean-Pierre-Emilien mollò la presa e corse via. Isolde cadde a terra con un tonfo, instupidita dalla sorpresa e dal dolore. Con la coda dell'occhio vide cosa aveva tanto spaventato il suo promesso sposo: un'armatura medievale avanzava con passi meccanici verso di lei. Solo allora si accorse del sonoro clang che produceva mentre camminava. Con pochi gesti, il braccio alzò la visiera dell'elmo, rivelando due orbite vuote e nere come il carbone. La ragazza tremò, riconoscendo intuitivamente chi fosse: era Götz von Berlichingen. Il cavaliere le si avvicinò, senza chinarsi; poi, con una voce tanto profonda che sembrava uscire dagli Inferi stessi declamò:

«“Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera”».

Dopo che ebbe pronunciato queste parole solenni, divenne polvere e venne spazzato via da una brezza leggera.

Isolde riuscì con fatica a sollevare la testa, e si trovò davanti la vetrata immensa. Accecata da quella luce intensa, provò a chiudere gli occhi, ma le sue palpebre non glielo permettevano. Pose allora lo sguardo sull'altare e trovò refrigerio nelle ombre proiettate sul pavimento di marmo. Terrorizzata vide che le ombre aumentavano poco a poco la loro superficie e inghiottivano ogni cosa. Isolde tentò di fuggire, ma non poteva muoversi. Attese in una lenta agonia, paventando quel nero che si ingrandiva sempre di più, una voragine senza fine che attirava tutto dentro di sé. Sentiva il suo cuore battere forte e la fronte imperlata di sudore freddo. Infine l'ombra inghiottì anche la lastra di marmo sulla quale Jean-Pierre-Emilien l'aveva lasciata giacere.

Si sentì sprofondare nel vuoto, nel nulla, nel buio. Continuava a cadere e sotto di sé non vedeva nulla. La caduta era infinita, sembrava non dover finire mai...


***


Isolde si svegliò di soprassalto in un bagno di sudore, nel suo letto. Mosse le mani e si toccò il viso, sbattendo le palpebre. Si alzò velocemente e si diresse verso la finestra, ancora sconvolta dall'incubo. Scostò le tende e il famigliare odore di bosco le investì le narici. Profumo di libertà. Sì, poteva muoversi, ma non era libera: prima suo padre, poi suo marito. Che differenza ci sarebbe stata? Sarebbe rimasta la loro marionetta da rigirare tra le dita. Non voleva.

Guardò giù nel precipizio, verso la foresta. Le vennero le vertigini ripensando all'ombra del suo incubo. Quanti metri erano? Cinquanta? Non avrebbe saputo dirlo con certezza; ma se si fosse buttata giù sarebbe sicuramente morta. Non avrebbe sposato Jean-Pierre-Emilien e non sarebbe stata la sua bambolina per tutta la vita. Il davanzale le arrivava solo all'inguine: poteva farcela, occorreva solo una piccola spinta. La ragazza chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. Tre, due, uno...

Gridò e sbarrò gli occhi, stringendo i pugni. Non ce la faceva. Sentiva le lacrime di sconfitta che le bruciavano le guance. Sarebbe rimasta una marionetta per tutta la vita. Gemette, accasciandosi a terra, le spalle scosse dai singhiozzi.

Quando Inga e un'altra serva entrarono nella stanza con l'abito bianco, Isolde era ancora nella stessa posizione.




* Traduzione dal francese:

«Non sapevo che vi piacesse leggere (…) Che peccato!, mi dispiace».

«Non c'è problema».

(…)

«Ma sì, certamente. Tempête et Passion, no? Come lo chiamate voi? Sturm und Drang? (…) No, grazie. (…) Libertà, uguaglianza e fratellanza, anche. (…) Madame la Ghigliottina (…) »



Nota:

Linderhof è il nome un castello che esiste realmente in Baviera, ma ne ho solo preso il nome.

   
 
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