Ricordo
ancora
come
ebbe
inizio,
adesso
mi
pare
solo
un
sogno
confuso
di
quando
ero
bambino.
Eppure,
eppure
io
so
che
sono
passati
pochi
giorni,
ma
quella
voce
è
già
un
eco
perso
nella
nebbia
delle
mattine
d’autunno.
Se
potessi
darle
un
nome
la
chiamerei…
Stavo
uscendo
di
casa,
avevo
preso
la
giacca
e
le
chiavi
della
macchina,
come
sempre.
Scesi
i
tre
gradini
di
fretta.
Era
freddo,
l’umidità
lasciata
dalla
notte
di
pioggia
penetrava
nelle
ossa
come
una
morsa
lenta
e
letale.
Mi
scivolarono
le
chiavi,
mi
chinai
per
raccoglierle
con
un
lamento
dovuto
alle
articolazioni
che
non
sono
più
quelle
di
una
volta.
Afferrai
le
chiavi,
ma
nel
momento
in
cui
rialzai
lo
sguardo
intorno
a
me
era
sparito
il
vialetto,
la
staccionata,
la
macchina.
Anche
casa
mia
era
scomparsa,
al
suo
posto
si
alzava
un
grande
albero,
una
quercia
probabilmente.
Chiusi
gli
occhi
lamentandomi
del
poco
sonno,
ma
una
vocina
mi
spinse
a
riaprirli.
Veniva
dalla
mia
mano
e
ora
che
la
guardavo
non
stringevo
le
chiavi,
ma
qualcosa
di
vivo.
Immediatamente
gettai
quell’essere
minuto
in
terra
muovendo
qualche
passo
frettoloso,
ma
verso
dove?
Ovunque
guardassi
la
mia
realtà
era
sparita.
Il
respiro
era
affannato,
l’aria
umida
mi
riempiva
i
polmoni
gelandomi
la
gola.
Mi
aggrappai
ad
un
albero
desideroso
di
percepire
la
realtà
delle
cose.
Era
solido,
era
ruvida
corteccia
fredda
che
profumava
di
terra.
Un
ronzio
vibrò
accanto
al
mio
orecchio
“Scusa,
ma
mi
facevi
male”
disse
una
vocina
delicata
che
pareva
come
quella
di
un
bambino,
impossibile
capire
se
fosse
quella
di
un
maschio
o
di
una
femmina.
Il
ronzio
era
provocato
dallo
sbattere
frenetico
delle
ali
dell’essere
che
avevo
stretto
poco
prima.
Se
non
fossi
stato
troppo
grande
per
sognare,
avrei
giurato
fosse
una
fata
o
un
folletto.
Aveva
un
corpicino
esile
che
sembrava
fatto
di
legno,
ma
era
morbido
e
flessuoso
nei
movimenti
come
fosse
carne.
I
capelli
non
erano
altro
che
foglie,
e
foglie
erano
le
stesse
ali
che
vibravano
incessantemente.
Due
corna
come
quelle
dei
cervi
si
diramavano
sulla
sua
testa,
ma
più
che
corna
mi
sembravano
rami.
Aveva
i
canoni
di
qualunque
creatura
delle
fiabe,
orecchie
appuntite,
sguardo
vispo,
sorriso
amichevole.
Che
sogno
bizzarro.
Stavo
dormendo,
ne
ero
convinto,
tanto
valeva
lasciarsi
andare,
non
mi
sarebbe
successo
nulla
nella
realtà.
Osservai
quella
creatura
che
si
muoveva
intorno
a
me:
non
aveva
vestiti,
né
pudore
e
vista
così
pareva
asessuata.
“Non
volevo
spaventarti”
continuava
a
dire
osservandomi.
Alla
fine
decisi
di
rispondere,
forse
con
fin
troppo
orgoglio
“Non
mi
hai
spaventato”.
Rise
appena
e
cominciò
a
camminare
nell’aria
con
fare
disinvolto
“Sai
chi
sono?
Io
sono
una
persona
importante
è!”
sospirai
rassegnato
a
vedere
quel
sogno
tanto
infantile.
“Chi
sei?”
domandai
come
si
fa
con
un
bambino,
giusto
per
dargli
modo
di
esaltarsi
anche
se
la
risposta
la
si
conosce
già.
La
piccola
creatura
si
impettì,
con
un’aria
fiera
e
nobile
“Sono
l’albero
del
tuo
giardino!”
rispose.
Senza
neanche
pensarci,
scoppiai
a
ridere,
ora
penso
sia
stata
un’azione
piuttosto
stupida.
Indispettito,
puntò
le
piccole
mani
sui
fianchi
“Smettila
di
ridere,
o
giuro
che
al
prossimo
vento
forte
che
arriva
ti
faccio
portare
tutte
le
foglie
in
casa!”
quella
minaccia
mi
fece
solo
aumentare
il
riso.
Infuriata
la
creaturina
si
aggrappò
ai
miei
capelli
tirandoli.
Iniziai
a
menar
l’aria
nel
tentativo
di
farla
allontanare,
ma
non
c’era
nulla
da
fare
“Smettila
subito!”
la
rimproverai
“Non
la
smetto
finché
tu
non
giuri
di
non
ridere!”
acconsentii,
assecondai
quel
capriccio
infantile
pur
di
essere
lasciato
in
pace.
”Bene”
disse
la
creatura
“Ancora
un
po’
di
tempo”
a
quelle
parole
sospettai
che
fossi
nel
mezzo
a
qualche
strano
piano,
mi
sentii
minacciato
anche
se
stavo
sognando
“Tempo
per
cosa?”
ma
quella
creatura
non
mi
rispose
“Mi
chiamo
Imhera!
Quell’albero
là
è
mia
nonna!”
mi
indicò
la
quercia
che
sorgeva
dove
c’era
adesso
la
mia
casa
“Ma
lì
adesso
c’è
casa
mia”
risposi
stranamente
tranquillizzato,
dimenticandomi
di
quanto
sentito
prima.
Imhera
annuì
con
aria
grave
“L’hanno
abbattuta
per
costruirla,
a
me
invece
mi
hanno
lasciato
come
albero
ornamentale”
mi
sentii
colpevole,
mi
sentii
dispiaciuto
da
quella
notizia,
come
se
avessi
ucciso
qualcuno
nel
momento
in
cui
avevo
deciso
di
acquistare
quella
casa
ancora
in
costruzione.
“Mi
dispiace”
mormorai.
Sentii
fluire
quelle
parole
non
da
un
ragionamento,
ma
dal
cuore,
una
cosa
difficile
per
un
uomo
d’affari
come
me.
”Ancora
un
po’”
mormorò
quello
che
doveva
essere
il
mio
albero.
Savolta
non
chiesi
nulla,
non
mi
avrebbe
comunque
risposto
“Sai,
ti
volevo
ringraziare
di
aver
chiamato
il
Giardiniere,
quel
concime
era
ottimo!”
sorrisi,
era
come
se
mi
ringraziasse
di
una
cena,
ma
sentivo
il
profumo
della
pura
sincerità
priva
di
malizia
in
quell’esserino
“Oh,
è
un
Giardiniere
di
fiducia”
confidai
amichevolmente
“Lo
pago
il
giusto!
Piuttosto,
sei
riuscito
a
sbarazzarti
di
quei
parassiti
che
ti
sciupavano
le
foglie?”
non
so
come,
ma
mi
sentivo
rilassato,
libero
dallo
stress
e
dall’ansie
della
vita
di
tutti
i
giorni.
Mi
misi
a
sedere
sul
prato
osservando
quella
creatura,
parlandoci
come
fosse
stato
il
migliore
degli
amici.
Si
mise
seduto
anche
lui
a
gambe
incrociate
poggiando
le
mani
sulle
ginocchia
assumendo
uno
sguardo
serio
“E’
stato
un
vero
problema!
Noi
non
abbiamo
mica
l’aspirina
o
l’aulin
sai?
Quel
Giardiniere
ci
ha
messo
una
vita
a
trovare
la
medicina
giusta,
e
puzzava
da
morire!
Quando
me
la
spruzzava
sulle
foglie
non
riuscivo
più
a
respirare
e
pregavo
che
l’acqua
cadesse
dal
cielo.
Però
in
fondo
mi
ha
fatto
bene!”
sembrava
di
parlare
con
un
bambino
che
non
ama
le
medicine,
eppure
a
vederlo
dalla
finestra
dello
studio
quell’albero
sembrava
adulto
quanto
me,
forse
di
più.
”Ma
come
mai
questo
mondo
è
diverso?”
chiesi
infine,
non
per
timore,
ma
per
infantile
curiosità
“Non
è
il
tuo
mondo,
è
il
mio,
mi
pare
ovvio”
eppure
quell’ovvietà
non
mi
apparteneva,
forse
perché
avevo
dimenticato
cosa
significasse
sognare.
Mi
distesi
su
quell’erba
fresca
che
tutti
i
giorni
calpestavo
e
curavo
solo
per
l’estetica,
ma
in
quel
momento
ne
percepii
la
vita,
la
freschezza,
la
bellezza
insita
dentro
ogni
stelo,
ogni
foglia,
ogni
fiore.
Osservai
il
cielo
terso
attraverso
le
fronde
di
quella
quercia
e
mi
sentii
disteso
e
rilassato,
ascoltavo
il
cinguettare
degli
uccelli
e
mi
pareva
la
più
bella
melodia
mai
incisa
su
un
cd.
”Ancora
un
po’”
mormorò
la
creaturina
osservando
il
sole
“Cosa
aspetti?”
gli
chiesi
infine
“Che
passi”
mi
rispose,
ma
non
aggiunse
altro,
sembrava
concentrato.
Ad
un
certo
punto
mi
venne
sonno,
strano
addormentarsi
nel
sogno
in
cui
si
è
protagonista,
ma
sentii
il
bisogno
di
riposare.
Appena
socchiusi
gli
occhi
Imhera
mi
fu
addosso
riempiendomi
di
pizzicotti
e
strattoni
“Non
ancora,
non
ancora!”
urlava
tenendomi
sveglio
“Sai,
volevo
dirti
anche
che
faresti
bene
a
mettere
il
ciclamino
dello
studio
un
po’
fuori,
sennò
piano
piano
appassirà
e
sarà
bruttissimo!”
lo
guardai
“Ah
si?
A
me
sembra
in
ottima
salute”
quello
continuava
a
strattonarmi
negando
col
capo
“No
no
fidati
di
me!
Io
le
capisco
le
piante!”
sospirai,
a
stento
riuscivo
a
tenere
gli
occhi
aperti
“Domani
lo
metto
sul
davanzale,
ora
lasciami
riposare”
mi
girai
su
un
fianco
tirandomi
dietro
la
creaturina
che
non
poteva
nulla
col
mio
peso
“No,
non
farlo!
Non
ancora,
aspetta!”
Mi
tirai
a
sedere
innervosito
“Ma
insomma,
basta!”
ma
quello
mi
guardò
supplicante,
solo
in
quel
momento
mi
accorsi
che
quelli
che
erano
i
suoi
capelli,
foglie
viste
semplicemente
da
sole,
era
bagnate
di
qualcosa
di
vischioso
“Che
hai
tra
le
fo…tra
i
capelli?”
l’esserino
si
passò
una
mano
cercando
di
pulirle
“Nulla
nulla,
sarà
un
po’
di
raffreddore”
ignorante
in
materia
di
folletti,
non
potevo
sapere
se
il
raffreddore
venisse
loro
con
quei
sintomi,
ma
non
volevo
darlo
a
vedere,
così
annuii
appena.
”Va
bene,
ci
siamo”
sospirò
come
sollevato
e
mi
sorrise.
Non
ricordo
altro
di
lui,
mi
distesi
e
finalmente
fui
lasciato
in
pace
a
dormire.
I
suoni
rimasero,
scomparve
solo
la
sua
voce
e
la
sua
figura.
Quando
riaprii
gli
occhi
ero
disteso
nel
mio
giardino,
intorno
a
me
alcuni
vicini
che
mi
chiamavano
insistentemente.
”Si
è
ripreso
grazie
al
cielo”
alzai
la
testa.U
forte
dolore
alla
nuca,
di
fianco
a
me
un
ramo
spezzato
dell’albero.
Mi
misi
in
ginocchio
massaggiandomi
il
capo
osservando
l’albero
dall’alto
in
basso
“Dovrebbe
tagliarlo,
è
così
vecchio
che
gli
si
spezzano
i
rami”
brontolò
una
donna
del
vicinato
sempre
pronta
a
polemizzare
“Ma
è
poco
più
di
un
bambino”
risposi
ancora
assorto
nei
miei
pensieri.
Quella
scosse
la
testa
accennando
a
qualcosa
riguardo
la
botta
e
le
rotelle
del
mio
cervello,
ma
non
vi
feci
caso.
”Sto
bene
grazie”
mi
alzai
sorridendo
appena
ai
vicini
per
poi
avvicinarmi
all’albero
con
fare
dubbioso.
Mentre
i
vicini
se
ne
tornavano
a
casa
mormorando,
il
ragazzo
che
abitava
di
fronte
a
me
e
che
lavorava
nel
bar
dove
andavo
durante
la
pausa
pranzo
mi
si
avvicinò
“Sa,
è
stato
fortunato
in
fondo”
“Perché
mai?”
gli
chiesi
stranito
“Sulla
strada
che
fa
per
andare
a
lavoro
c’è
stato
un
terribile
incidente,
come
minimo
sarebbe
stato
coinvolto
se
non
fosse
svenuto
qui
sul
vialetto”
“Ah”
non
sapevo
che
altro
dire,
per
un
attimo
tutto
mi
parve
chiaro,
ovvio
seppur
irreale.
Guardai
quel
ramo
spezzato,
compresi
che
quella
sostanza
vischiosa,
linfa
vitale,
era
come
il
sangue
che
fuoriusciva
dal
sacrificio
di
quell’albero
per
fermarmi.
Il
suo
trattenermi…calcolava
il
tempo
e
non
sapevo
come
fosse
possibile
che
sapesse
dell’incidente
che
sarebbe
avvenuto.
So
solo
che
mi
aveva
salvato,
ammiravo
quell’albero
così
giovane,
lo
amavo
come
creatura
e
non
più
come
portatore
di
ombra
nel
mio
giardino.
Compresi
solo
allora
il
legame
che
ci
unisce
alla
natura,
capii
che
il
rispettarla
giovava
anche
a
me
stesso
e
che
un
giardino
non
è
un
semplice
decoro,
ma
un
mondo
da
rispettare,
vivere
e
capire.
Mi
stupii
di
quanto
tempo
avessi
sprecato
nel
cercare
cd
di
musica
che
mi
rilassassero
durante
il
tempo
passato
nello
studio
quando
avrei
potuto
aprire
la
finestra
e
ascoltare
il
canto
degli
uccelli.
Avevo
speso
tanto
in
letti
che
potessero
donarmi
un
riposo
tranquillo
quando
se
mi
fossi
disteso
all’ombra
di
un
albero
sull’erba
avrei
trovato
il
più
comodo
e
rilassante
dei
giacigli.
Diedi
un
pacca
a
quell’albero,
poi
rientrai
in
casa
a
concedermi
un
giorno
di
riposo.
Sono
passati
pochi
giorni.
Ogni
mattina
esco
di
casa
e
mi
avvicino
alla
mia
quercia
dandole
una
pacca
“Ci
si
vede
stasera
Imhera!”
le
sussurro,
e
vado
a
lavoro.
Quando
torno
la
saluto
con
una
pacca
“Sono
tornato”
e
quando
fa
caldo
le
do
un
po’
d’acqua.
A
volte,
quando
torno
tardi,
mi
faccio
perdonare
con
qualche
pasticca
di
quel
fertilizzante
che
le
piace
tanto.
Quel
ramo
lo
custodisco
nel
mio
studio,
gli
ho
dato
una
mano
di
coppale
e
l’ho
infilato
in
un
vaso
di
pietre
colorate,
fa
un
bell’effetto,
originale.
Ci
ho
inciso
una
data,
credo
che
sia
il
compleanno
della
mia
quercia.
Manca
ancora
un
anno,
magari
in
tutto
questo
tempo
mi
dirà
cosa
vuole
avere
come
regalo,
sperando
che
non
me
lo
faccia
capire
con
un
altro
ramo
sulla
testa!
Se
potessi
darle
un
nome
la
chiamerei…ma
in
fondo,
un
nome
ce
l’ha
già,
la
mia
Imhera