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Autore: AliceVolevaMorire    03/09/2013    8 recensioni
Non le piaceva il fatto che tutto fosse collegato da fili invisibili, da sequenze numeriche facilmente decifrabili. C’era chi pensava che fosse una sorta di veggenza, ma non era vero. La realtà era un libro tendenzialmente ripetitivo. Causa e conseguenza. Percentuali probabilistiche. Fisica delle particelle. Regole dappertutto.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Tracy. Karma.

 

We gotta…we gotta do something about this

Well you got to do something. 
Yeah. 
Cause if we don't take care of this then... I don't even want to think about it

 

Le medicine non bastavano più. “Va tutto bene, sempre meglio” sbraitava il dottore “meno pastiglie, meno pastiglie! Stai guarendo!”. La visione non era chiara, e la faccia del dottore si allungava e si stringeva, poi si allargava. Sembrava che la guardasse da dietro una boccia per pesci rossi.  Aveva avuto un pesce rosso, una volta. Ma ricordarlo le faceva male, perché era morto da tanti anni. “Tutto bene, tutto bene, sei solo cattiva. Ma quella è indole, non si può curare”.

Tracy andava di corsa. Correva a buttare la spazzatura e a comprare le sigarette, poi si raggomitolava sulla finestra. Potrei fare questo o quest’altro, pensava, fra i dolori di stomaco. Ho fatto questo e quest’altro, d’altronde. Ricordare era anche peggio, e non riusciva a sopportarlo. C’era stato un tempo, un tempo remoto, in cui lo stomaco non urlava in ogni minuto di veglia. Un tempo in cui la notte portava solo luna piena e lenzuola al profumo di lavanda. Ma c’era stato davvero? O era solo un’illusione, un riflesso di vite altrui in cui rispecchiarsi?

Aveva una cucitura nel vestito, da cui ogni tanto tirava via con uncino il cuore e lo analizzava preoccupata. C’è del marcio, si diceva. Dovrei andare in Danimarca. Ma come potrei, dovrei correre per troppo tempo. Il mondo esterno non è positivo. Il mondo esterno è fatto di cose che cadono, di fognature che mandano effluvi quando piove, è un precipizio di suoni e dettagli così struggenti da uccidere chi passa per caso. Non le piaceva il fatto che tutto fosse collegato da fili invisibili, da sequenze numeriche facilmente decifrabili. C’era chi pensava che fosse una sorta di veggenza, ma non era vero. La realtà era un libro tendenzialmente ripetitivo. Causa e conseguenza. Percentuali probabilistiche. Fisica delle particelle. Regole dappertutto.

Lei aveva capelli ricci e non era bella. Era comunque una spanna sopra Tracy. Tracy aveva notato, e aveva preso atto. Lei sarebbe potuta sembrare solo un puntino all’orizzonte, ad un occhio poco allenato. Punto A punto B punto C. La cosa non la sconvolse più di tanto, quando successe. Era logico. Rientrava nella casistica. Forse era quasi una prerogativa, come incontrare la stessa persona il quattro novembre di ogni anno, o andare a laurearsi con la febbre. Alla sua laurea c’era solo la sua famiglia e nessuno aveva portato una macchina fotografica, né coroncine d’alloro, né mazzi di fiori. Tuttavia non era così importante, la sua laurea. Non era mica come suo fratello, che lui sì che aveva studiato una cosa difficile e aveva invitato tanti amici a festeggiare. Che sagoma, tuo fratello. Così solare. Mica con il tuo caratteraccio, Tracy, che sei sempre immusonita. Dopo la discussione, se ne andarono a casa. Non aveva invitato i suoi pochi amici, Tracy. Non voleva rubare loro del tempo per qualcosa di così noioso. I suoi genitori non le regalarono nulla. Dopotutto, Tracy, non era una facoltà molto difficile. Figurati cosa vuoi aver imparato, e ti sei pure laureata in ritardo.

Qualche anno dopo nei suoi sogni comparivano ancora i visi di vecchi compagni dell’università. Pensò dunque che quel periodo, a posteriori, non fosse stato poi così tremendo. Invece le venne da vomitare e fu costretta a smettere di ricordare. Te lo ricordi quel tizio al primo anno,Tracy, diceva una voce nella sua testa, quella volta che eri sola nel cortile, aggrappata a una sigaretta, avvolta dentro te stessa. Avevi una giacchetta in tartan rosa che avevi comprato qualche giorno prima. Pioveva, e tu pensavi a quanto fosse ingiusto essere soli a novembre. C’era un poeta, ma lo avresti scoperto tempo dopo, che diceva che un anno aveva sedici mesi. Dodici normali, e altri quattro novembre in aggiunta, giusto perché l’esistenza non è abbastanza buia di suo. Poi la porta a spinta si era aperta con un tonfo poco aggraziato. Era quel tizio tanto carino che vedevi sempre a lezione. Speravi ti ignorasse. Invece lui si era avvicinato, e aveva cominciato a raccontarti della tua vita da musicista. Di dove sei, Tracy? Ah, sì, ho suonato nella tua città. C’è una bella scena hardcore. Vieni, ti offro un caffè, aveva detto, rovistandosi nelle tasche. Oh, povera Tracy, a quel punto eri entrata in panico. Mi fa schifo il caffè, avevi sibilato. Dovrebbero abolirlo per legge. Sciocca, sciocca Tracy. Proprio tu che bevevi litri di caffè al giorno. Tutto era cominciato da lì. Sognavi di scopartelo sul divano della casa in affitto quando veniva a studiare da te e non c’era nessuno, tantomeno quella coinquilina stupida che non lavava mai i piatti. Te lo ricordi, uh, Tracy? Quando finalmente ti aveva chiesto un appuntamento- un appuntamento vero-  e tu ti eri messa tutta in tiro, con quel maglioncino che aveva un buco sulla schiena, in fondo, ma ti stava troppo bene,e poi era l’unico maglione pulito che avevi al momento. Lui aveva una giacca di pelle che sapeva di canfora, lo sapevi bene, perché ti aveva stretta a sé e tu gli arrivavi al petto. Piccola, bassa Tracy. Avevate bevuto ed eravate sempre più vicini, però poi era arrivata la sua ragazza. L’aveva invitata per farle conoscere la sua cara compagna di corso. Scusate il ritardo, aveva detto lei baciandolo, rischiavo di non poter venire. Te lo ricordi, Tracy? Lei era tanto carina e alla fine della serata tu eri nel cesso a vomitare e lei ti reggeva la testa.  Il giorno dopo avevi un esame. Occhi pesti e un 23 strappato non si sa come. Anni di appunti regalati, riassunti fatti in fretta e furia alle tre di notte per compiacerlo. Per elemosinare un bacio che non era mai arrivato. Ma lui ti abbracciava e ti diceva “Sei così eterea” e tu ti scioglievi in un brodo di giuggiole quando ti stringeva la gamba sotto il banco, a lezione. Ogni volta avevi sperato che la sua mano salisse, e il solo pensiero ti faceva scappare dall’aula in preda al panico. Quante lezioni che hai perso, Tracy, solo perché lui ti si sedeva accanto e tu non riuscivi a sopportare il desiderio di possederlo. Gliel’hai detto, a mamma, che ti sei laureata in ritardo perché avevi gli ormoni in ebollizione?  

Anni dopo  Tracy l’aveva detto a lui. Ma sì, era acqua passata, che importava. Ormai era solo un ricordo sbiadito, vago e lontano. “Mi piacevi, una volta” gli aveva detto. “Ti ricordi che tremavo sempre, e tu mi prendevi in giro perché pensavi soffrissi il freddo. Sai, non era il freddo”. “Non l’avevo notato” le aveva risposto lui gelido, e lei non l’aveva mai più sentito.

Tracy guardava i treni passare, e il medico diceva che tutto andava bene. Ma che voleva saperne, il dottore, di quello che le correva per la testa, attutito dallo schermo benevolo delle medicine. Mi spaccheranno il fegato, un giorno, pensava. Diventerò gialla canarino e allora sarà già troppo tardi, volerò via in un letto di ospedale, io che ho sempre odiato volare. A Tracy non piacevano molto i medici. Aveva avuto a che fare con uno studente di medicina, una volta. Il tizio si impasticcava per benino perché sapeva farlo, diceva. Lui aveva i capelli neri e amava cantare. Anni dopo Tracy incontrò una ragazza sul treno, una che aveva conosciuto in quel periodo, una del gruppo.  “Oh, lui soffriva di schizofrenia paranoide. Ma lo sapevi, giusto, Tracy? D’altronde lo sapevano tutti. ” Ma Tracy non lo sapeva, Tracy non sapeva un bel niente. Eppure c’erano state le regole per capirlo, scritte in bei caratteri in cielo e fra gli abbracci troppo forti, troppo soffocanti. Fra le cose che lui sosteneva di vedere, e lei pensava che scherzasse. Fra le braccia che erano un reticolo di tagli, ma, si sa, succede ad alcuni adolescenti. Quando poi lui si era perso del tutto, aveva iniziato lei. L’aveva infettata, forse? Le aveva attaccato qualcosa, una visione del mondo distorta e malata, fatta di alberi che diventavano mostri e luoghi chiusi che si richiudevano in un vortice su se stessi?  E giù a medicine, anche quando l’adolescenza era passata da un bel po’, e poi via dal dottore che ora diceva che stava guarendo.

Ma durante i cambi di stagione il cuore di Tracy martellava nel petto con troppa forza.  L’aria frizzantina delle prime sere di fine estate le si infilava su per il naso e scatenava il panico. Sta per succedere, pensava Tracy, senza capire bene cosa esattamente dovesse accadere. Il non saperlo era ancora peggio. Respira. Inspira. Ossigena il cervello senza andare in iperventilazione. Prendi le gocce, dove sono le gocce, ah, ecco. Ora mettile sotto la lingua. Stringi le chiappe. Cammina. Pensa ad altro. Cosa dovevi fare, esattamente? Ora passa. Ma non passava. Faceva male, la puzza di settembre. Le ricordava la sua prima volta, schiacciata su un impermeabile steso su un prato sporco. Lui le aveva fatto male, troppo male, e lei aveva pianto e lui si era arrabbiato. La sera Tracy aveva lavato le mutande sporche di sangue di nascosto, mentre si chiedeva se avesse sbagliato a valutare qualcosa, perché la prima volta è sempre speciale, lo dicevano tutti. Ma a lei aveva lasciato solo una gran voglia di farsi la doccia. Durante la notte lei fece un sogno strano, che raccontava  di ciò che sarebbe accaduto l’indomani. Lui lasciò la mattina dopo alle sette, davanti alla scuola. Per Tracy non fu una novità. Si premurò solo di nascondersi prima di scoppiare a piangere.

Ma ancora prima, cosa c’era stato, Tracy? Cos’ha scatenato la tua follia? Avevi quindici anni ed eri in vacanza. Rileggere il diario di quei giorni è come guardare un film che punta verso il delirio a tutta birra. Eri bella, Tracy? Tutti sono belli a quell’età, no? Ma lui non aveva occhi per te. Ti sussurrava canzoni dei Nirvana e poi si scopava una tizia austriaca. Lei era una facile, bastava una moneta per portarsela in tenda. Eppure, Tracy, tu avevi visto qualcosa nel suo sorriso sottile quando ti guardava di sfuggita che ti aveva fatto credere di poterlo tirar via da quel mondo. Tracy, non è divertente ricordare e notare parallelismi fra storie che, dai, si sapeva che sarebbero andate allo stesso modo? Un passo a due. Di coppia in coppia. Tremavi, povera ingenua, quando gli hai chiesto se a lui andava di fare un giretto con te. Voi due soli. Per parlare. Mi piaci, gli avevi detto arrossendo. Mi piaci tanto. Alla fine tu eri a piangere in spiaggia, sotto le stelle, e un tizio che conoscevi poco, quello che beveva sempre latte e menta, era arrivato per caso, o forse ti aveva seguita, perché a mezzanotte, in spiaggia, è difficile trovare qualcuno, se non lo stai cercando. Non piangere, ti sussurrava facendo correre le sue dita sulle guance, sei così bella, Tracy. Lui non ti merita. Hai dei begli occhi, usali. Poi i tuoi begli occhi erano annegati nei suoi, in un bacio che non voleva dire niente, che urlava solo portami via.

Ma il giorno dopo Tracy era sulla bocca di tutti. Sua madre l’aveva presa per i capelli e chiusa a chiave nella sua stanza. Puttana, dicevano tutti lì in paese. La turista ha sedotto il fidanzato della nostra figghia più bella. Maria Rosa, quella che sarebbe andata a Roma, via dal paese, per sposarsi con quel bravo ragazzo, adesso era piena di vergogna . Proprio quel giorno era il compleanno di Mister Latte e Menta. Maria Rosa andò alla festa di compleanno del suo fidanzato. Loro lo sapevano. Gli invitati lo sapevano. Ma Maria Rosa e Latte e Menta si baciarono lo stesso, perché bisognava fare finta di niente. Mancava una persona, alla festa, e la sua assenza pesava come il piombo. Vagava fra gli invitati e i sussurri a mezza bocca.

Tracy passò la giornata a piangere nel letto aspettando che lui la chiamasse e la invitasse a mangiare un pezzo di torta. Il terzo giorno, finite le lacrime, uscì dalla sua reclusione coatta. Camminava per strada, e lui le si affiancò “Hai ottenuto quello che volevi, eh?” le sussurrò a mezza bocca, poi la superò. Tracy si chiese se Latte e Menta scherzasse, ma non disse nulla.

Una settimana dopo camminava da sola sulla spiaggia. Era una giornata particolarmente fredda e ventosa, per essere luglio,e lei si stringeva nella felpa nera. Lo vide arrivare da lontano, e quando le fu davanti notò che i suoi occhi erano pieni di lacrime  “Hai incasinato tutto” disse Latte e Menta “Il mio futuro era già scritto e poi sei arrivata tu, con quei cazzo di occhi verdi.” Tracy lo fissò da sotto in su. Cominciò a cadere qualche goccia di pioggia. “Dimmi solo una parola, Tracy, e io mollo tutto, te lo giuro. Dimmi una parola e ti porto via, ce ne andiamo, io e te. Per sempre.”  Tracy lo guardò per un attimo, poi scoppiò a ridere.

“Avresti dovuto invitarmi alla tua festa” disse. Poi se ne andò, lasciandolo sotto la pioggia.

“Va tutto bene, va tutto bene” diceva il dottore “Sei solo cattiva, ma quello non si può curare. E’ solo Karma, figliola. Ad un certo punto passerà. Credo”

Note dell’autrice

Allora, ragazzi, anche se di solito non lo faccio, vorrei spiegarvi il senso di questa storia. In primo luogo perché ci tengo molto, in seconda battuta perché non è giusto buttar sempre sassi nello stagno senza mai spiegare perché. Non so se è comprensibile a una prima lettura, ma la storia va a ritroso a cercare la radice di un malessere che, sorpresa! E’ nient’altro che la conseguenza di una brutta azione commessa in un tempo remoto. A volte basta una parola per condizionare il corso delle cose, e in questo racconto ho voluto portare la cosa alle sue “estreme” conseguenze. Qui si parla di attacchi di panico, è la patologia di cui soffre Tracy e di cui ho sofferto anch’io per un certo periodo. Se qualcuno di voi ne soffre vi mando un caldo abbraccio e vi assicuro che non siete soli e che prima o poi se ne esce. Se avete voglia di scrivermi per condividere il vostro disagio, sappiate che ci sono.

Poi, è ora di buttar giù la maschera con chi mi segue da sempre. Penso di fare un regalo gradito a chi ha letto le mie storie in questi anni se svelo una cosa che ho taciuto fino ad adesso (ma che molti hanno già colto): la maggior parte delle mie storie sono una il seguito dell’altra, o sono comunque collegate da fili sottili.  Questa, per dire, contiene parecchie spiegazioni a domande che eventualmente vi siete posti. Per esempio (coff coff) che senso aveva Paludi e quel CAFFE’ rifiutato? Voilat la storia completa in un pezzo di questa. Sono malata, giusto? Ma questo me l’avete sempre detto! A voi l’arduo compito di collegare il resto, se ne avete voglia. Prima di salutarvi: le parole in corsivo all’inizio sono prese da Tracy dei Mogwai, canzone che ho ascoltato allo sfinimento mentre scrivevo questa storia. Grazie a tutti per le recensioni che mi avete lasciato alle ultime storie, piano piano risponderò a tutti.

Un abbraccio

Alice

   
 
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