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Autore: TheHeartIsALonelyHunter    04/09/2013    1 recensioni
Questa storia è su Cosette.
E già qui credo di aver perso tutti i possibili lettori.
Ma non è sulla Cosette che conosciamo tutti.
E' sulla Cosette bambina che sfacchina dai Thenardier e che guarda le bambole dalle vetrine, aspettando la sua mamma.
Spero di avervi incuriositi...
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Dal testo:
Quando se ne era andata, sua madre le aveva fatto due promesse. Le aveva promesso, con un gran sorriso sul volto, che un giorno sarebbe tornata a prendersela e, ora con una smorfia di tristezza impressa sul viso, aveva sussurrato:
“Sono sicura che passerai molte giornate felici in questo posto, principessa”.
Nessuna delle due previsioni si erano avverate: Fantine non era più venuta a prenderla, e, per il resto della sua permanenza lì, i Thenardier l’avrebbero chiamata, sprezzanti e con disprezzo, “principessa”.
Questa storia partecipa al "Contest Pas a Pas" indetto da Fanny Rimes sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Cosette, Fantine, Jean Valjean
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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2-Look down
 
Il suo secondo anno alla locanda si aprì con un bel calcio nel sedere e un’imprecazione di Monsieur non ignorabile dovuta a un cliente che nella notte era riuscito a svignarsela senza pagare.
Fu con grande sorpresa che Cosette notò che era ormai iniziata la primavera, e che la neve cominciava a sciogliersi dolcemente e a lasciare spazio a piccoli sprazzi di verde e morbida erba.
Per la bambina questo era certo un vantaggio, considerato che ormai non doveva più soffrire il freddo con quel vestitino tutto rattoppato che si ritrovava indosso, ma sapeva anche, con una consapevolezza dolorosa, che il freddo sarebbe tornato e altri inverni sarebbero seguiti a quello precedente.
Nonostante ciò, era contenta che lo sferzante vento non la bloccasse nel bel mezzo della foresta nera quando andava al pozzo, e che finalmente al posto della sensazione di gelo totale che sentiva la sera mentre si coricava nel magazzino, c’era solo un lieve tremito che la scuoteva e che poteva facilmente cancellare sfregando i piedi insieme.
Il primo compito che le fu assegnato in quel nuovo anno, fu quello di servire a un uomo che era arrivato alla locanda da almeno una settimana.
Dal suo aspetto e dai suoi modi cortesi, Cosette si era fatto l’idea che egli fosse un lord inglese o qualcosa del genere.
Il gentiluomo era circa sulla sessantina, e indossava un paio di occhialetti con le lenti a cerchio, piccolissime, e una tuba nera che ancora Mounsier non era riuscito a rubare. Da quanto ricordava, era la prima persona a cui i Thenardier non avevano potuto spillare nulla più del convenuto o da cui non erano riusciti a rubare nulla.
I locandieri lo chiamavano, dispregiativamente, il “Signorotto” quando erano da soli nelle cucine o all’ingresso a discutere.
Ma di fronte a lui, i “padroni di casa” esibivano il loro miglior sorriso, usavano molti convenevoli e lo chiamavano, gentilmente “Milord”: tutte piccole attenzioni che non parevano né turbare né sorprendere particolarmente il signore, che annuiva semplicemente alle loro richieste, rimaneva zitto ai loro falsi sorrisi e quasi ridacchiava tra sé e sé quando quel nomignolo assurdo gli veniva appioppato.
Cosette si chiedeva, quasi costantemente dal primo istante che l’aveva visto, cosa facesse un simile signore (perché questo era lui: un signore) in una tale locanda maledetta, e che cosa l’avesse spinto fin lì.
La risposa le sarebbe arrivata proprio quel giorno, quando aveva servito all’uomo una sottospecie di minestra di cui Cosette non riusciva a distinguere gli ingredienti.
La bambina si era avvicinata lentamente, col piatto poggiato su entrambe le mani, e aveva fatto colare un buon terzo della sbobba a terra. Il signore, però, non si era affatto arrabbiato, anzi: aveva sorriso a quella scenetta e i Thenardier non avevano avuto una scusa per punirla.
Quando Cosette si era avvicinata abbastanza al suo tavolo per poggiare il piatto con un fievole “Prego”, e dopo aver controllato che Mounsier e Madame si fossero girati, Milord si chinò su di lei e le sussurrò all’orecchio:
“Tu sei Cosette?”
La bambina rabbrividì lievemente.
Da quando era lì, nessuno si era mai preoccupata di chi fosse lei o di quale fosse il suo nome.
Certo, qualcuno aveva cominciato a fare domande sulla piccola “Croquette” (questo il nuovo nomignolo di Mounsier), su come vivesse, e se i locandieri la trattassero bene come una bambina della sua età meritava.
Agli occhi dei clienti, Cosette doveva sembrare malnutrita e maltrattata. Solitamente, tali caratteristiche, al tempo, si riscontravano in quasi tutte le donne lavoratrici, e ormai la gente faceva poco caso o non aveva la briga di accorgersi del malessere di tali donne. Ma il fatto che fosse una bambina a servirli (Cosette aveva appena quattro anni ma ne dimostrava anche di meno a causa della sua corporatura gracile e del suo visino scavato che faceva sembrare gli occhi più grandi) metteva seriamente a disagio alcuni dei clienti meno ubriachi.
Madame aveva messo a tacere le loro chiacchiere dando, un giorno di ottobre, un bel bacio sulla guancia della bambina di fronte a tutti.
Da allora nessuno aveva più avuto da ridire su “Croquette” e sull’affetto che i Thenardier provavano per lei.
Ora quel signore la avvicinava, con fare confidenziale, e sembrava conoscere anche il suo nome?
“S…Sì.” Sussurrò lievemente la bambina.
Sul viso del signore apparve un sorriso che Cosette prese come di soddisfazione.
Con la mano ruvida e rozza, l’uomo le accarezzò la testa (quella mano era almeno il doppio del suo capo!) e la congedò non appena i Thenardier la richiamarono con aggressività.
Alla bambina scese un brivido lungo la schiena al pensiero di quella carezza (la prima dopo un anno) che ancora sentiva sulla sua testolina bionda.
Quando Mounsier le chiese, sgarbatamente, che cosa quell’uomo le avesse chiesto, Cosette rispose, con la massima sicurezza che poteva mostrare “Nulla”.
Eponine, dietro di lei, la squadrava sospettosa.
 
Con il progredire della primavera, l’aria si faceva sempre più dolce e il vento, che prima la sferzava con malignità, ora le accarezzava i capelli biondi con delicatezza, quasi a voler svolgere il ruolo di madre per lei.
Le lettere di Fantine passavano tra le mani dei Thenardier e finivano nel camino ancora prima che Cosette potesse dire “no”.
I soldi che arrivavano erano sempre di meno, o almeno questa era l’impressione che la bambina aveva dagli animati discorsi che i locandieri tenevano.
E anche nel locale erano sempre di meno i clienti che si fermavano per più di una notte.
Il caldo sembrava chiamare, con un suo richiamo particolare, gli avventori della locanda che solitamente trascorrevano l’intera estate ubriacandosi e trovandosi qualche puttanella, e l’umore di Mounsier andava peggiorando di giorno in giorno.
Naturalmente tale umore si riversava sulla piccola Cosette che, nonostante non molti fossero i clienti, aveva sempre qualche faccenda da sbrigare (e se non ne aveva Mounsier se le inventava di sana pianta), ritrovandosi a correre, ora più che mai, sui suoi piedini minuti da un angolo all’altro della locanda.
Ogni sera, nel locale principale, c’erano almeno dodici o tredici persone, e ogni sera i Thenardier gioivano.
Ma quando, la mattina, dieci di quelle persone scendevano dalle camere del piano di sopra pronti a partire, i due coniugi, naturalmente non di fronte ai “gentili” clienti, bestemmiavano e dicevano tante di quelle parolacce che a Cosette venivano i brividi.
L’unico che, per lunghe settimane, si era fermato lì, era il vecchio Milord che aveva dimostrato un minimo di umanità nei suoi confronti. E sebbene quello potesse sembrare una cosa buona nei primi tempi, dopo poco i Thenardier si accorsero che non conveniva affatto avere qualcuno così a lungo nella loro locanda.
Mounsier e Madame si facevano ogni giorno più sospettosi verso quel vecchietto che passava le giornate fermo a un tavolo con un bicchiere sempre pieno davanti a sé: ordinava sempre una qualche bevanda non appena la giornata iniziava, per poi dimenticare (o forse ignorare) il liquido versato nel bicchiere.
Milord rimaneva anche giornate intere seduto al solito tavolo (quello da cui si poteva scorgere il panorama dalla vetrata), fermo con gli occhi vitrei, imperscrutabili, attento eppure stranamente assente, scrutando ogni singolo dettaglio e ogni piccola azione dei locandieri.
I due erano così terrorizzati da quello sguardo e così intimiditi dal pensiero che quell’uomo fosse un gendarme sotto copertura, che decisero di sospendere, almeno per un po’ di tempo, la razzia nei riguardi dei clienti.
Cosa che mandò, almeno secondo il pensiero di Mounsier, “in malora” gli affari della locanda.
“Tanto, prima o poi, il vecchio dovrà andarsene” diceva Madame per rassicurare il suo sposo quando si prendeva la testa tra le mani desolato.
“O se non volesse andarsene di sua volontà, lo faremo andare noi via.”
 
Circa due mesetti dopo l’arrivo di Milord, Cosette si era finalmente abituata al tram tram della sua vita: le speranze che Fantine tornassero erano una su un milione, e lo sapevano benissimo lei e i Thenardier, e oramai la bambina era rassegnata alla vita di schiavitù che le si prospettava davanti.
Sapeva che i soldi della mamma non erano tanti, e che lei lavorava molto (ricordava quando si svegliava la mattina e lei era già uscita in cerca di un qualche lavoretto per cui essere pagata), ma probabilmente mai avrebbe raccolto tanti soldi da poterla portare via da quell’Inferno.
Era giugno quando il Lord le rivolse per la seconda volta la parola: la bambina gli aveva portato un bicchiere di rum che lui aveva ordinato (probabilmente con l’intenzione di non vuotarlo) e poi l’aveva avvicinata posandole una mano sulla testa, nel tentativo di coprirla dalla vista dei Thenardier.
Cosette non rabbrividì come era accaduto la prima volta che l’aveva accarezzata, ma fu comunque stupita di sentire quel contatto: non si sarebbe mai aspettata un nuovo tentativo di essere avvicinata.
Con voce melliflua e controllandosi le spalle, il Milord sussurrò nell’orecchio della bambina poche parole che la lasciarono stupefatta per alcuni istanti:
“Questo è da parte di tua madre”.
Cosette quasi rabbrividì di emozione.
All’epoca, ormai, aveva quattro anni, e ne aveva passate già talmente tante che non credeva di poter più avere notizie di Fantine.
E invece, ecco lì un signore, che neanche conosceva, avvicinarla e ripetergli quel nome tanto caro, che nella notte aveva ripetuto tra i singhiozzi, prima con speranza e poi con la rassegnazione dei miserabili.
Il signore, con discrezione, le porse un bel pacchettino avvolto in carta rossa, e con un fiocco giallo sopra.
Allo sguardo stupefatto della bambina, Milord sorrise.
“Qualche mese fa hai fatto il compleanno, giusto?”
Cosette non si azzardò neanche a dirgli che era stato più di due mesi prima: si scaraventò sul pacchettino gioiosa, con la foga di un avvoltoio che si scaraventa sulla preda.
La carta rossa le scivolava tra le mani, e Cosette se la ripassava più e più volte tra le dita, dicendosi che per molto altro tempo non avrebbe sentito più quella sensazione di appagamento.
Si rigirava il fiocco giallo, ancora intatto, tra le mani, con delicatezza e devozione.
E infine, aprì la piccola scatoletta nera che conteneva il prezioso regalo della sua mamma.
Che poi tanto prezioso non era (un semplice anellino giallo così piccolo da sembrare quello di una bambola) ma Cosette se lo mise all’anulare tremando tutta, e ammirando il luccichio (così tenue...) che produceva sulla sua pelle.
Il gentiluomo accennò un sorriso, alla vista della bambina che, davanti a lui, sembrava non avere parole, o che forse non riusciva a trovarne per poter descrivere i suoi sentimenti.
Poi, alzandosi dal tavolo con l’eleganza di un vero gentiluomo, lo sguardo di Cosette ancora fisso sul suo volto seraficamente soddisfatto, Milord la salutò con un cenno della mano a cui la bambina rispose lievemente, ancora shoccata.
La sera stessa, Cosette avrebbe sentito i Thenardier e Milord discutere animatamente nel retro della locanda.
Non aveva capito chiaramente molto, tranne alcune bestemmie di Mounsier che erano state anche fin troppo esplicite, ma le era sembrato di aver udito le parole “andare via” uscire dalla bocca del gentiluomo.
 
In realtà, avrebbe scoperto Cosette più tardi, il signore non era affatto inglese, ma era nato in Italia e lì era cresciuto.
Ai locandieri il signore non avrebbe mai raccontato i suoi trascorsi di patriota, e successivamente di garibaldino, solo pochi anni prima, certamente sicuro che i due avrebbero cominciato a guardarlo con disprezzo e con una malcelata malignità.
“Che cosa le può importare di cosa pensano i Thenardier, Milord?” gli aveva chiesto una volta Cosette, gli occhi sgranati mentre l’uomo le raccontava del mitico Sbarco dei Mille.
Lui aveva sorriso bonario e aveva risposto, molto semplicemente:
“Non mi importa, ma è più divertente vederli strisciare ai miei piedi” e, con un buffetto tenero al naso, aveva aggiunto:
“E, ti prego Cosette, chiamami Mario”.
La bambina poteva rimanere ore e ore seduta vicino al tavolo dove il signore (o meglio, dove Mario) sedeva, incantata davanti alle strabilianti meraviglie che aveva da raccontarle.
Si era formato come un tacito accordo tra loro: ogni mattina, dopo aver lavato i piatti e dato una passata di straccio in cucina (e dopo aver, naturalmente, portato all’anziano un bicchiere), Cosette si sedeva sul pavimento davanti al Milord, con le gambe incrociate, e lo fissava mentre, con calma e pazienza, l’uomo consumava la sua colazione, in un modo così solenne da fare sembrare quella colazione un banchetto.
La bambina non gliel’aveva mai detto, ma sperava sempre che lui finisse più in fretta possibile e che cominciasse subito a narrare, mentre l’anziano si dilungava asciugandosi i lembi delle labbra con il fazzoletto quasi immacolato, e brandendo le posate come fossero cimeli di un museo.
Non negava di essere affascinata da quella sorta di rituale che ogni giorno si svolgeva (la magia dei suoi gesti, così aggraziati per un combattente…), ma ciò che più l’attirava era il racconto delle sue gesta, il ricordo di cavalli nella mischia e di urla di soldati esaltati.
Rimaneva incantata nel sentire con quanti dettagli egli ricamava le storie, come un menestrello, rendendo le storie così vere e credibili che a Cosette sembrava di vedere DAVVERO Garibaldi guidare i Mille nella conquista della libertà.
Alle domande curiose della bambina (“Eravate davvero Mille soldati?”, “Com’era Garibaldi?”) Mario rispondeva con pazienza, senza stancarsi mai e senza perdere mai la luce che illuminava i suoi occhi parlando di tali gesta, a volte anche sfatando miti che per Cosette erano ormai consolidati (i Mille non erano davvero mille e Garibaldi era zoppo da una gamba).
Madame la richiamava spesso dalla sua postazione, a volte anche tentando di rialzarla dal pavimento con violenza, ma Milord diceva sempre, con gentilezza:
“Oh, si figuri Madame, mi fa piacere avere la bambina qui con me!”
Poi, ammiccando alla donna aggiungeva sommesso:
“E non vorrei raccontare a sua madre il modo in cui la trattate…”
A quelle argomentazioni, la Thenardier sbiancava in viso, punta nell’orgoglio e piena di rabbia, ma ogni volta si voltava e raggiungeva suo marito sussurrando qualche bestemmia.
Fu quello il periodo più bello che Cosette passò alla locanda, se non il più bello della sua vita: Mario la trattava bene, e la rendeva sicura sapere di avere un rifugio sicuro a cui tornare ogni giorno.
Sapeva che lui l’avrebbe difesa dai pericoli, e ne era ancora più sicura ora che aveva saputo di tutte le sue avventure.
Un giorno che Eponine aveva provato a strapparle di mano una piccola bambola fatta di stracci (L’unico regalo che sua madre le avesse fatto, a parte l’anello) Cosette l’aveva bloccata dicendo, ferma come non mai:
“Guarda che lo dico a Mario”.
Eponine, come la madre, era sbiancata e poi diventata rossa di rabbia, ma aveva dovuto rassegnarsi al riconsegnarle la bambola, come se quella minaccia fosse stata più potente di un “Guarda che lo dico a mamma”.
Ora non c’era più nulla che potesse toccarla in quella locanda, nessun rimprovero che le bruciava, nessuno schiaffo per la piccola Cosette: Mario la osservava costantemente dal tavolo vicino alla vetrata, anche nei giorni in cui era impossibilitata a sentire i suoi racconti, e le sorrideva dolcemente. Cosette sapeva che il giorno dopo le avrebbe narrato di qualche altro evento, e fremeva al pensiero.
Ogni mattina si svegliava così di fretta che non aveva neanche il tempo di accorgersi dello stomaco che brontolava, o dei piedi nudi sul freddo pavimento della locanda.
Esistevano solo lui e Mario quando raccontava, quando la lasciava senza fiato per un qualche improvviso colpo di scena.
Esistevano solo le sue storie, le storie che la facevano volare con la mente lontano, a un futuro migliore, a un futuro più giusto, a un futuro più LIBERO.
Più di una volta Eponine l’aveva sentita canticchiare in uno stentato italiano parole che non aveva capito ma che sentiva profondamente ostili. Per ripicca, quando Cosette si accorgeva della presenza della bambina, cominciava a cantare più forte, con la sicurezza di una vera patriota. Ogni volta Eponine se ne andava via, e un sorriso appariva sul viso di Cosette.
Mario era sempre gentile e disponibile con lei, e più di una volta la difese dai rimproveri dei Thenardier, sussurrando loro all’orecchio alcune parole che Cosette non aveva mai potuto cogliere.
Qualche anno dopo avrebbe capito che quell’uomo era stato mandato da sua madre per ripagare tutti i suoi debiti e per portarla da lei. Come Fantine avesse convinto quel “Milord” ad aiutarla, Cosette non l’avrebbe mai saputo.
All’epoca, comunque, l’unica cosa che la bambina sapeva per certo era che presto quell’uomo l’avrebbe portata via di lì.
Dove, non ne aveva idea: probabilmente sua madre non si ricordava più neanche il suo nome.
Forse sarebbero andati insieme in Italia, anche se Mario disprezzava fortemente l’idea, dicendo che mai e mai più sarebbe tornato in quel “covo di serpi”.
“Non capisco, se avete lottato tanto per renderla migliore, perché l’avete abbandonata?” aveva chiesto una volta Cosette.
Lui aveva ridacchiato divertito e aveva risposto, ancora ridendo:
“Non ne ho la minima idea, tesoro”.
A Cosette l’idea di andare in Italia non sarebbe dispiaciuta affatto: da come Milord gliene aveva parlato, sembrava un luogo stupendo, ricco di cultura e di opere d’arte immense e immortali, un vero e proprio modello artistico, un paese libero (o almeno era libero in confronto alla povera Francia) ed un popolo libero.
Un luogo perfetto per vivere con Mario in pace, all’ombra del Colosseo con intorno il David e la Gioconda (bisogna far conto che Cosette aveva allora quattro anni e spesso mescolava luoghi e opere diverse nella sua mente).
Sapeva, lo sentiva, che Mario sarebbe diventato il suo papà. Era anzi già il suo papà, il suo nuovo papà che amava con tutto il cuore.
Si ritrovava spesso la sera, dopo una giornata passata ad ascoltare le sue storie, a immaginare un futuro insieme al “Milord”, solo loro due, in giro per l’Italia in vestiti eleganti. Mentre queste visioni passavano per la sua mente, Cosette osservava l’anello che portava al dito e stringeva a sé la carta rossa del regalo, che ancora conservava con sé.
L’unico regalo VERO che qualcuno le avesse mai fatto.
 
L’idillio durò un paio di mesi: una mattina di fine agosto, Cosette si diresse come suo solito nel locale a consegnare alcuni piatti e si accorse che Mario non era seduto al suo solito tavolo.
All’inizio aveva ipotizzato che l’uomo avesse fatto semplicemente tardi e che conveniva aspettarlo come era suo solito.
Così, non appena aveva finito alcune faccende che Madame le aveva assegnato, Cosette si era seduta sul pavimento a gambe incrociate, in attesa del suo cantastorie.
Non passarono che pochi minuti, però, quando Mounsier la chiamò gracchiando sarcastico:
“Che fai qui, principessa? I pavimenti non si puliscono da soli”.
Lei aveva alzato la testa e affermato, fieramente:
“Aspetto Mario”.
Mounsier era subito scoppiato in una risata isterica, che Cosette non aveva compreso.
Tante erano le risa, che a un certo punto l’uomo dovette anche asciugarsi una lacrima che era colata dall’occhio.
“Oh…” ridacchiava ancora lui. “Oh, la piccola principessa aspetta il suo principe azzurro!” aveva esclamato acuendo la voce.
Cosette fece tanto d’occhi: non capiva cosa stesse succedendo.
“Mi dispiace, tesoro…” disse Thenardier, scimmiottando Milord dicendo la parola “tesoro”.
“Il tuo caro e beneamato salvatore non c’è più”.
Cosette  rimase a bocca aperta.
“È morto ieri notte per infarto, e NON mi dispiace affatto.”
 
E così, Cosette era tornata a spazzare i pavimenti della locanda “Al sergente di Waterloo” , a trasportare piatti più grandi delle sue mani e a camminare nella neve coi piedi nudi, mentre il gelo dell’inverno avanzava lentamente e inesorabile.
La fatica tornò più pesante che mai, le sue membra urlavano ogni minuto di dolore, e il suo animo era a pezzi come mai era stato prima: Mario gli aveva fatto ritrovare un po’ di luce in fondo al tunnel, l’aveva fatta sperare in qualcosa che ora le era stato tolto e l’aveva illusa crudelmente che qualcosa potesse cambiare.
Perché darle tante false speranze quando non era riuscito a mantenere una sola promessa?
Perché farle ritrovare un po’ di sole per poi oscurarlo?
Perché essere così crudele da andarsene quando ne aveva VERAMENTE bisogno?
I primi mesi Cosette non riuscì a proferire parola: si richiuse nel mutismo del suo dolore, nella tristezza e nell’angoscia costante.
Si svegliava spesso nella notte piangendo, e stringeva spasmodicamente a sé la carta da regali, urlando disperata “Torna qui! Torna qui!”
Madame, a quegli scatti di pura follia, andava nel magazzino e la scuoteva urlando a sua volta, mentre le lacrime continuavano a rigare il suo viso.
Spesso piangeva anche quando doveva portare bicchieri o piatti a quel tavolo vicino alla vetrata, il tavolo che aveva aperto la sua mente e l’aveva fatta sognare di camicie rosse e bandiere tricolori alzate al vento, e che ora era occupato, come per tradimento, da altre persone che non sapevano, che non vedevano il suo dolore.
L’anello era ancora lì, Madame non l’aveva neanche notato tanto era piccolo, e Cosette non l’aveva e non l’avrebbe più tolto.
La carta da regali rimase per lunghe notti vicino al suo letto, fino a quando, una mattina, la bambina si svegliò e non la trovò.
Al piano di sopra, Madame le sorrideva crudele.
Qualche mese dopo, poche settimane prima dell’inizio del terzo anno alla locanda, Eponine sentì Cosette intonare, la voce flebile e rotta dal pianto, un inno in una stentata lingua che non capiva e non parlava.
Si era avvicinata a lei e si era seduta ad ascoltarla, fino a che, con un ultimo “Sì!” la bambina aveva concluso la canzone.
Ponine aveva sorriso.
E Cosette aveva abbozzato il primo sorriso dopo mesi.

Note d'autrice:
ECCOMI!!
Scusate l'attesa, ma purtroppo nessuno dei prompt mi ispirava.
Poi ieri sera mi sono messa a scrivere e...
è uscito questo.
Spero vi piaccia!
(Spoiler: Il quarto capitolo dovrebbe essere incentrato su Fantine, per la gioia di i love penguin)

 
  
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