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Autore: Blue Sunshine    05/09/2013    5 recensioni
E sai cosa mi rimprovero adesso? Di averti creduto. Perché, seduto a quel bar, io ti credetti e fanculo, fa ancora più male.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Liam Payne, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tracotanza. 

 
 

A Carlotta e Chiara. Perchè ci sono. 


Sai cosa penso, Amberlee? 
Che siamo stati dei vigliacchi. Dei grandi vigliacchi e ora non possiamo più fare nulla. Tu sei andata via e mi hai lasciato qui, a leccarmi ferite inguaribili, a piegarmi sotto un dolore che non passerà mai perché tu non passi. Lo hai seguito come se ti fossi dimenticata delle nostre promesse, dei nostri sguardi, della mia pelle sulla tua e della tua sulla mia. Le costole rotte che tuo padre mi ha lasciato sono guarite, ma non le piaghe che portano il tuo nome. Quelle rimarranno per sempre, come i due tatuaggi disegnati sulle mie braccia. I miei occhi ti cercano costantemente per tutta New York; le mie mani pizzicano in continuazione alla ricerca della tua pelle e le mie labbra si screpolano senza i tuoi baci. E allora cerco di diventare un foglio bianco, eliminando ogni segno del tuo passaggio, ripetendomi nella mente che ti odio, ti odio e ti odio. Ma la vuoi sapere la verità, Leen? Fallisco continuamente. E ti amo, ti amo ancora. Mi ricordo la prima volta in cui hai detto di amarmi e ricordo la pienezza di quello che mi stavi dando, tanto da sentire il vuoto adesso. Ricordo il gelato al cioccolato e menta che stavi mangiando seduti ad un bar che nessuno dei due conosceva e con la radio che passava “ I won’t dance”. Ricordo il tuo telefono con lo schermo rotto e le tue scarpe nuove. Mi hai sorriso e ti sei allungata verso di me. Credevo volessi baciarmi, ma non lo hai fatto. 
“Forse ti amo, Liam” hai sussurrato sulle mie labbra e il gelato si scioglieva ma non ti importava. Mi stavi guardando Amberlee e mi vedevi. 
Ma mi amavi davvero? O erano solo parole? Perché, per quanto mi riguarda, non sono solo questo: sono come i nei sulla mia schiena che baciavi ogni volta, le tua dita che intrecciavano le mie sulle lenzuola, i tuoi occhi che erano grandi e infiniti quando li sbarravi perché facevamo l’amore. Sono un’infinità di cose, sconfinate come il vuoto che provo senza te. E sai cosa mi rimprovero adesso? Di averti creduto. Perché, seduto a quel bar, io ti credetti e fanculo, fa ancora più male. Ma forse era già troppo tardi; forse, ti amavo già da prima. Era Dicembre, ricordi? Faceva freddo ed ero malato ma le tue mani mi accarezzavano i capelli e il bruciore alla gola, d’un tratto, non era più tanto fastidioso. Mi leggevi Il Piacere di D’Annunzio e mi guardavi.
Io so che tu fosti mia, un giorno, tutta quanta, con un abbandono senza ritegno, con una voluttà senza misura, come non mai alcuna altra donna; e so che né il mio spirito né la mia carne dimenticheranno mai quella ebrezza.” Forse, già ti amavo. 
Quella volta che mi hai accompagnato a comprare il regalo per mia madre? Te lo ricordi? Avevi le guance rosse e il cappello grigio sui capelli biondi, quasi bianchi per le luci al neon del negozio. Avevi in mano una decina di maglioni e sorridevi “Non conosco i gusti di mamma Payne- alzi le spalle a arrossisci di più- ma questi, questi sono carini”. Tu eri bella. E io già ti amavo, con il sorriso sulle labbra e te sulla pelle. Ma se faccio un calcolo veloce mi vengono in mente tantissimi altri episodi in cui già ti amavo.
Forse, perché io ti amo da sempre. E tu lo sapevi. Sapevi che non ti avrei mai lasciata, che la mia forza la trovavo nei tuoi occhi, che credevo in noi. E quando parlavo di matrimoni e figli, abbassavi lo sguardo, arrossendo. 
“Se fosse per me, ti sposerei anche ora” e perché non lo abbiamo fatto? Perché non ci siamo sposati in una sperduta spiaggia della California, con il vestito bianco e i fiori fra i capelli? Perché non siamo stati incoscienti, almeno allora?
Perché siamo dei vigliacchi e tutto prova che io ho ragione, maledizione. Se guardo indietro nel tempo non faccio che trovare errori e paure e tormenti e fantasmi e terrore e buio. Ma sai, rifarei tutto comunque. Perché tu mi conosci come poche persone al mondo e tu, tu mi accusavi sempre di non fare altrettanto con te. Ma ti sbagliavi perché io ti conoscevo, io sapevo. Vedevo il mondo di cui facevi parte, così lontano dal mio e una mia grande presunzione è stata quella di volerlo affrontare, da solo. O meglio, con te. Ma non era così facile ed eri tu a ricordarmelo ogni volta, con i baci rubati di nascosto da tuo padre, con le visite notturne sotto i ponti più squallidi di New York. Ma io ti volevo, Amberlee, ti volevo anche alla luce del sole. E sai perché? Perché al sole sei anche più bella e saresti stata anche più mia. Ho peccato di tracotanza, Amberlee. Ero drogato di te, delle tue mani che mi esploravano e mi scoprivano, dei tuoi denti che mi mordevano senza farmi male, dei tuoi occhi che se ne fregavano degli affari di tuo padre e mi cercavano. Era un gioco, per te? No … scappavi dall’ Upper East Side, dai bagni che profumavano di lavanda, dai tubini dorati e i tacchi a spillo, le cene sontuose e lo Champagne per festeggiare un voto buono a scuola e venivi da me, con i jeans stracciati, la mia camicia a quadri, i capelli legati. Sorridevi, mi baciavi, mi vivevi e facevamo l’amore. Importava del mio appartamento piccolo e asfissiante, della doccia invece della vasca da bagno, del letto piccolo ma bello perché ci stringevamo, della lampada rossa che mi hai comprato, del mio sogno di fare lo scrittore e del mio conto in banca vuoto? No, non importava. Perché se il mio appartamento era piccolo arrivavi tu e, d’un tratto, diventava grande e piano e immenso. E nel mio diario di cuoio scrivevo di quanto eri bella lì, al centro del mio letto piccolo, mentre fumavo una sigaretta e ti fissavo. 
“Io non posso più amarti così” ti ho confessato quella notte, in quello squallido albergo di Philadelphia, intrecciati fra le lenzuola sudice, lontani dal tuo mando ma anche dal mio, che era più che altro nostro. E la paura nei tuoi occhi ancora la sento viva sulla mia pelle. Paura di cosa, mi chiedo ancora. Paura di me? Di tuo padre? O forse di te stessa? Non me lo hai mai detto perché te ne sei andata senza dirmi più nulla. Mi odiai, di un odio talmente forte che non riuscivo più a muovermi, a vedere né sentire. Mi rivestii in tutta fretta ma tu non c’eri già più ed erano rimasti solo i graffi sulla mia schiena e le pagine di un diario che mai, mai, sarebbe diventato un libro. E tremavo, dentro e fuori, ma non era il freddo, non era la rabbia. Era la tua assenza. Smisi di chiamarti, di mandarti messaggi e di cercarti. Ma smisi anche di scrivere, di andare a trovare mia madre, di pulire la casa, di vivere. Sei tornata dopo due settimane, Amberlee. Sei entrata nel bar dove lavoravo e ti sei messa seduta nell’unico posto libero, quello davanti alla vetrata. Io, con il volto chino sul taccuino sono venuto da te e ti ho sentito prima di vederti. Mi è caduta la penna e mi hai guardato, sorriso, ucciso ma anche aggiustato. Ti sei alzata in piedi ed eri dimagrita ancora ma eri tu. Sempre tu. 
“Fuggiamo, Liam. Viviamo il nostro amore sotto un sole che non sia qui a New York” e ci credetti, ancora. Mi piegai e ti baciai, di quei baci forti e a labbra spalancate perché volevo sentirti, plasmarti. 
“Ci vediamo stanotte” ma quella notte, non venisti. Aspettai per tutta la notte al gelo, il borsone che conteneva i miei vestiti, le nostre foto, l’accendino blu e il mio diario. Non avevo mai visto l’alba, prima di allora. Ricorda il colore dei tuoi capelli. Non arrivasti né quella notte, né nelle notti successive. Avevo perso tutto, seduto su quel marciapiede sporco. E la rabbia, il dolore, le lacrime oramai consumate o forse anche la speranza mi spinsero ad alzarmi e a venire. Da te. 
“Liam?” Il mio nome, su quelle tue labbra rosse e che solo io sapevo e potevo baciare, era tornato al posto giusto. Tremavo anche quella volta perché ti guardavo, seduta in una poltroncina di pelle nera, le gambe scoperte, il volto vuoto e piatto e avevo paura. Paura di te. Tuo padre uscì in veranda in quel preciso momento, il giornale in una mano, un whisky nell’altra, un completo gessato e il gelo negli occhi. 
“Io la amo” dissi solamente ma lui, lui rise e merda, sento ancora i brividi sulla schiena. 
“Va’ via Liam, ti prego. Lasciami stare” Sì, ti amavo. Poche ore dopo due uomini pagati da tuo padre mi trovarono e mi picchiarono fino a rompermi le costole. Faceva male, ma era nulla se paragonato alla sensazione atroce di qualcuno che ti strappa il cuore dal petto. I pugni, i calci, le risate non mi scalfivano come il bianco che vedevo, che sentivo, che ero. Forse, non hai mai saputo di quell’imboscata e sei andata avanti con la speranza di avermi salvato. Ma non lo avevi fatto, Amberlee. Mi avevi svuotato e anche illuso, spezzato. Sei stata la mia rovina. Ma guardando questo diario, adesso, sorrido. Perché è vuoto, come me e anche come te. Aspetta solo di venir riempito come anche noi stiamo aspettando di riscriverci daccapo. Se la mia mano non basta, la tua sì. E sei qui, accanto a me nel letto e ti accarezzo la schiena nuda mentre i raggi caldi della Sicilia riscaldano il mio corpo, anch’esso nudo; sto sorridendo alla vista dei tuoi capelli sparsi sul cuscino e non vedo l’ora di poter guardare i tuoi occhi blu. E’ forse proprio dai tuoi occhi che ricomincerò a scrivere, tutto. Daccapo. 
E sai una cosa?, questa volta, se possibile, ci credo ancora di più. 
“Non ti lascerò andare via, Liam.” 
E sai un’altra cosa ancora, Amberlee?
Mi fido.  
 

 

  
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