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Autore: The queen of darkness    05/09/2013    9 recensioni
La normalità sembra essere cementata nella vita quotidiana dei nostri amati personaggi...ma siamo sicuri che tutti siano d'accordo a queste condizioni?
--Naturalmente non possiedo nessun diritto su questa magnifica storia, creata dal genio di Miss Rumiko Takahashi--
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inuyasha, Kagome, Un po' tutti | Coppie: Inuyasha/Kagome
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Successe in una giornata d’autunno.
Era una di quelle mattinate fredde e così terribilmente malinconiche da mozzare il respiro.
Una donna, con uno spazzino di rami affusolati, stava pulendo l’atrio gigantesco di un tempio shintoista. Aveva da poco finito di lucidare gli infissi e sistemare le offerte dei fedeli, come al solito piuttosto cospicue, e ora doveva solo rendere il giardino presentabile per l’arrivo degli ospiti.
Da quasi trent’anni, ormai, i lavori che doveva fare erano sempre gli stessi. Nonostante la casa, il marito e i figli, un suocero anziano a cui badare, si doveva trovare con puntualità davanti all’altare, per pulire, rasettare, mettere in ordine e guardare gente disfare, puntualmente, tutto il suo operato.
Quando il suo amato Masao* era morto, i bambini erano ancora piccoli. La maggiore, sofferente per la perdita del padre, era stata brava a riprendersi dallo stress emotivo, e lo stesso aveva fatto il più piccolo. Aveva avuto dei bravi figli, non aveva nulla di cui lamentarsi.
Negli ultimi dieci anni, però, sentiva che la stanchezza per la vita di tutti i giorni cominciava a farsi più pesante. Aveva da poco compiuto quarantasei anni, eppure addosso se ne sentiva cento.
Divertita, si accorgeva dei piccoli segni della vecchiaia sul proprio corpo: gli occhiali da lettura senza i quali non riusciva a leggere nemmeno mezza parola stampata, le tempie che andavano imbiancandosi prontamente coperte dalla tinta della parrucchiera, il fiato che si accorciava più facilmente.
Erano le scale il suo vero problema, poiché il tempio ne aveva di grandiose poste proprio all’ingresso. Aveva cercato di persuadere suo suocero ad autorizzare un’entrata secondaria, magari dall’altra parte della collina, ma lui era stato irremovibile: si era fermamente opposto al progetto e aveva acceso un incenso per “la follia della sua povera e ingenua figliola”.
Più che di follia si trattava di praticità; magari di ritorno dal supermercato, con la stanchezza di un’intera giornata appiccicata addosso, non era facile gioire della nuova fatica posta proprio davanti agli occhi. D’altra parte, capiva anche lo spirito conservatore del vecchio, e lo rispettava come aveva sempre fatto.
-Oh! Finalmente! – si lamentò l’uomo, ad alta voce, dietro di lei.
La donna, immersa nelle proprie riflessioni, si voltò: suo suocero indossava un pesante kimono da cerimonia con tanto di copricapo antico, e si stava avvicinando a lei tenendosi una mano sulla schiena.
-Cosa c’è, nonno?
-La schiena, la schiena! Gliel’avevo detto al dottore che se mi impediva di mettere le stecche di balena mi avrebbe fatto male di nuovo, ma non mi ha ascoltato! Ahi ahi! – lamentò, tragicamente.
-Quelle cose orribili? – chiese, sorpresa, -Ma era ovvio che stessero aggravando la situazione!
-Disprezzi per caso i santi rimedi dei tuoi antenati? – la interrogò, con gli occhi a fessura.
In dieci anni era invecchiato quasi il doppio, e sembrava quasi più basso e accartocciato su sé stesso.
-No, ovviamente no – rispose, sospirando, - ma perché hai detto “finalmente”? Non vorrai mica andare al santuario conciato così!
Lui scosse forte la testa. –Ho detto “finalmente” perché era da quasi un’ora che ti cercavo! Si può sapere dov’eri? Avevo paura che ti fosse capitato un accidente!
-Nonno, calmati, ero solo andata a fare la spesa. Ti avevo scritto un biglietto, sul tavolo, dove ti avvertivo che se volevi potevi chiamarmi sul cellulare.
L’uomo fece una smorfia. –Ah, gli occhiali sono a riparare già da tre giorni – brontolò, - e sai benissimo che il cellulare ti fa male al cervello!
-Non è vero – osservò pacatamente la donna, - sono soltanto dicerie. Solo se lo usi troppo ti può provocare disturbi, altrimenti è una cosa come un’altra. Siamo nel 2007, ormai, dovresti adattarti alla tecnologia!
Il nonno bocofichiò qualcosa, ma quando non capì non gli chiese di ripetere. Sicuramente era sempre uno dei soliti commenti.
-Comunque, adesso vado in treno dal medico e mi faccio dare qualcosa, visto che disprezza tanto le mie tisane – annunciò, accusatorio.
-Non è che le disprezza, è solo…
-Le disprezza, le disprezza – tagliò corto, - mi invidia perché io ho sempre avuto il favore degli antenati dalla mia parte. Ah, questi giovani! Credono sempre che sia tutto loro dovuto, persino l’affetto dei parenti defunti!
-Nonno, il dottore ha quattro anni più di me… - gli fece notare, pacatamente.
Lui alzò una mano come per interromperla. –Non ha importanza, per me resta comunque un ragazzino. È difficile riconoscere che le persone invecchiano, se a curarmi quand’ero ancora uno sbarbatello era il padre, prima di lui!
La donna decise di non commentare, sarebbe stato inutile. Riprese a spazzare con calma, senza nemmeno chiedergli se volesse che lo accompagnasse: avrebbe rifiutato.
Com’era prevedibile, l’uomo si perse nelle sue chiacchiere mentre già cominciava ad incamminarsi, alzando anche l’indice al cielo per meglio sottilineare i punti salienti del proprio sermone. Non solo vedeva minacce dappertutto, ma aveva anche la costante impressione che la gente fosse spietatamente schierata contro di lui.
Dopo la partenza della nipote, il signore era molto cambiato. Aveva rivoluzionato le sue abitudini quasi radicalmente, e si dedicava con fervore quasi patologico alla preghiera. Tuttavia manteneva un lucido contatto con la realtà e aveva una buonissima memoria; molto spesso era lui a tenere la contabilità al suo posto, senza nemmeno usare la calcolatrice.
Apprensivamente, seguì la sua camminata traballante per le scale con lo sguardo, fino a quando non scomparve dalla sua vista. Poi, con un sospiro sconsolato, entrò in casa sentendo squillare il telefono.
Forse era la signora Kimura; dopo la morte del figlio maggiore di lei, erano diventate molto amiche. Masao e suo marito erano stati compagni di scuola, e questo le aveva ulteriormente avvicinate. Era stata la corpulenta casalinga a convicerla una volta per tutte a curare il proprio aspetto, soprattutto per quanto riguardava i capelli (visto che la figlia faceva la parrucchiera, aveva avuto anche un certo tornaconto). Se non fosse stato per lei, li avrebbe lasciati così com’erano.
-Pronto? – rispose.
-Ciao mamma, sono io, Sota. Come stai?
-Oh, ciao, Sota! – esclamò. Sorrise fra sé e sé. –Io sto bene, il nonno anche. Lì a Kyoto come va?
Il ragazzo ci pensò un po’ su. –Bene, direi. Ho un sacco di esami in questo periodo, devo studiare tutto il giorno.
-Sono sicura che diventerai il miglior ingegnere del mondo – disse, dolcemente.
Il figlio rise, imbarazzato, dall’altra parte della cornetta. –Eddai, non esagerare!
La donna ridacchiò. Sota era un ragazzo estremamente timido, e da quando era entrato all’univeristà, nonostante le chiamate regolari e le visite frequenti, si vergognava com un bambino di fronte alle lodi dei parenti. Anche il nonno, quando gli diceva di avere un nipote eccellente, si accorgeva di quanto lo faceva arrossire.
Saggiamente, la signora Higurashi decise di cambiare argomento.
-Complimenti per gli esami dell’altra volta, sei stato bravissimo. Ti ho visto un po’ dimagrito, però, lo scorso week-end: non è che non mangi abbastanza?
-No, no. È  solo che la mensa ha dei cibi un po’ scadenti – minimizzò.
-Ammettilo che sei stressato per le prove finali, Sota – sospirò la donna. –Ma con il tuo rendimento non dovresti essere così agitato. Vuoi che ti venga a trovare, questo giovedì?
Lui ridacchiò. –Non serve, mamma, davvero. Sto bene, qui…
Lei sospirò. –Lo so, lo so, sono io che mi preoccupo troppo. E sono sicura che sarebbe fatica sprecata darti delle ricette da fare in casa, giusto?
L’”ehm” imbarazzato che ricevette come risposta fu sufficiente a farle capire l’antifona. Era davvero imbranato con i fornelli, nonostante tutte le sue altre qualità.
 -Ma non dividevi l’appartamento con un aiuto cuoco? – gli ricordò la donna, con un leggero sorriso.
Se ce l’avesse avuto davanti agli occhi, avrebbe potuto constatare che si stava grattando la nuca, a disagio. Faceva sempre così, quando non sapeva bene come rispondere.
-Infatti, ma ha un sacco di lavoro da fare. È sempre al ristorante, tutto il giorno e tutti i giorni; non si prende mai una pausa.
La donna scosse la testa, con un moto di disapprovazione verso quella sorta di schiavitù che i laureandi erano costretti a sopportare.
-E il tuo lavoro alla caffetteria come procede? – chiese. Stava elemosinando minuti di conversazione, ma sapeva anche che avrebbe dovuto aspettare altri due giorni prima della prossima chiamata, ed era ansiosa di godersi la sua voce.
-Bene, bene. Anche lì siamo sempre molto impegnati, ma sono sempre costretto a tirarmi indietro davanti agli straordinari; come ho detto, è un periodo impegnativo.
-La scorsa volta che sono venuta lì, il professor Takamura mi aveva fatto un’ottima impressione. Un signore davvero distinto, mi ricordava tuo padre; mi sembra impossibile che vi riempia d’esami in modo così spietato.
Il giovane fece una risatina. –In effetti, lui è il peggiore.
La donna sospirò, guardando l’ora. Aveva tempo fino alle nove prima di aprire il tempio e, considerando che il nonno era appena partito, non avrebbe visto tornare l’anziano parente prima di mezzogiorno. Conoscendolo, avrebbe trovato sicuramente qualcosa da ridire a proposito di come aveva sistemato l’entrata o fissato gli incensi.
-E… mamma? – chiese, incerto. –Il nonno…come vanno i suoi problemi alla schiena? Continua ad insistere a mettersi quelle cose orribili sotto al kimono?
La signora Higurashi ridacchiò. –No, grazie al cielo! Gliele ho buttate via prima che potesse trovarle di nuovo!
Il giovane fece un sospiro di sollievo.
-Molto meglio. Credo gli facessero ancora più male delle tisane che si mette a sperimentare – confidò.
La donna concordò in pieno con lui, promettendo che avrebbe provveduto anche a quegli intrugli maleodoranti che il nonno ingeriva ad intervalli regolari almeno tre volte al giorno.
-E Akemi** come sta? – si interessò la donna.
Ovviamente, Sota fece una pausa imbarazzata prima di rispondere, come sempre quando in un discorso veniva nominata la sua dolce e cara fidanzata. Anche se si erano messi insieme da poco, alla signora Higurashi pareva ovvio che i due si sarebbero sposati, un giorno: Akemi era una ragazza in gamba ma anche estremamente desiderosa di farsi una famiglia e, se aveva educato il figlio nella maniera giusta, era sicura che questa sua aspirazione sarebbe stata presto soddisfatta.
-B…bene. Ci siamo visti anche ieri… ma in questo periodo è un po’ assente; anche lei sta affrontando gli esami, e la sera è troppo stanca per uscire.
Come la madre immaginava, la ragazza era davvero seria e studiosa.
-È proprio una persona responsabile – la lodò, e il ragazzo non potè far altro che concordare con lei.
All’improvviso, si sentì un brusio insistente di sottofondo, e Sota le chiese di aspettare un attimo in linea. Dopo qualche secondo, il figlio si schiarì la voce.
-Scusa, mamma, ma mi stanno chiamando. Ti dispiace se ci sentiamo domani?
La donna fece un sorriso comprensivo. –Non preoccuparti, tesoro. Salutami i tuoi amici.
-C…certo. Ciao. Ah, e fai gli auguri al nonno da parte mia!
Prima che potesse rassicurarlo, però, il giovane aveva già attaccato.
Con un sospiro, rimise la cornetta al suo posto. Non avrebbe mai capito l’avversione che il figlio condivideva con il nonno nei confronti dei cellulari; si era sempre rifiutato di comprarsene uno e usava ogni volta il telefono pubblico sotto al condominio dove viveva in affitto per contattarla.
Naturalmente, si era spesso offerta di regalargli un telefono, ma lui aveva sempre rifiutato. Diceva che quegli aggeggi non facevano per lui e, vista la terribile dipendenza che ne avevano tutti i suoi coetanei, preferiva farne volentieri a meno.
La signora Higurashi prese uno straccio dallo sgabuzzino dentro casa e si mise a spolverare le cornici del cassettone in ingresso. Era da qualche giorno che non lo faceva: stranamente, in quel determinato periodo dell’anno tantissimi turisti scalpitavano per andare a visitare il tempio, e lei era sempre occupatissima a tenere tutto l’esterno in ordine.
Accarezzò con la stoffa ruvida un ricordo di matrimonio, quando lei e lo sposo erano ancora poco più che ventenni, un’istantanea di Sota, in lacrime a pochi giorni dalla nascita, e infine inciampò nella più dolorosa.
Una bambina sorridente stava in piedi, fiera nel suo grembiule color pesca, davanti all’obbiettivo. Due piccoli codini la rendevano buffa, ma lei non pareva farvi caso: il suo sorriso abbagliante costringeva qualsiasi osservatore ad intenerirsi.
Quella foto l’aveva scattata il primissimo giorno di elementari. La piccola era stata agitata per tutta la settimana e aveva controllato ossessivamente che tutte le penne, i pastelli e i pennarelli fossero a posto nell’astuccio prima di calmarsi. Quella mattina non era riuscita nemmeno a fare colazione: era schizzata fuori dalla porta di casa e, prima di salire sul pulmino giallo, si era voltata e l’aveva salutata con la mano.
Sorridendo, tolse la leggera ombra di polvere dalla fotografia e si dedicò agli altri suppellettili.
“Quante cose sono cambiate da quando sei partita, Kagome” pensò, amaramente.
Indossò il grembiule una seconda volta e uscì all’esterno, malinconica.
Sota era stato il più sinceramente afflitto dalla partenza. Era felice per lei, ovviamente, ma non poteva smettere di pensare a quanto gli sarebbe piaciuto potersi godere la compagnia della sorella maggiore e, con tutta probabilità, anche della sua famiglia.
Si erano tutti rassegnati in casa che il raggio di sole portato dalla ragazza avrebbe ormai brillato solo di luce riflessa, ma avevano continuato dignitosamente le proprie vite. La camera della figlia era rimasta uguale a quando l’aveva lasciata, le sue cose riposte con cura in armadi e cassetti, le sue foto esposte in soggiorno e vicino all’ingresso, i suoi vestiti lavati e stirati attentamente nonostante il tempo passato.
Era un modo per tenerla viva anche nelle mura domestiche. La signora Higurashi sapeva bene che era solo un pallido tentativo di credere che stesse bene, così come avevano fatto anche con la memoria di Masao, ma alla fin fine mancava a tutti l’allegria contagiosa della giovane.
Era stato difficile accettare la scelta che aveva fatto. Quando aveva rivisto Inuyasha dopo il tremendo stato di depressione che aveva passato, la madre aveva notato lo stesso luccichio nello sguardo che lei aveva quando guardava il suo adorato Masao, e aveva capito.
Aveva compreso che se non l’avesse lasciata libera avrebbe solo sofferto, che quello era l’amore della sua vita e che davanti a certe situazioni non si può fare niente se non lasciare che il destino faccia il proprio corso. Nessuno l’aveva mai rimproverata per averla lasciata partire, al contrario, tuttavia quella cupa sofferenza che ormai era diventata rassegnazione gravava sulle spalle della famiglia in modo sempre più insopportabile.
Per lo meno poteva dirsi contenta di saperla viva e in salute, con l’uomo che amava in un mondo che aveva imparato a conoscere, e si consolava pensando di averle fatto un favore tanto grande da essere impossibile da ricambiare.
D’altra parte, una madre deve sapersi sacrificare per il benessere dei propri figli. Come si può crescere un bambino per prepararlo alla vita e poi pretendere che non la viva affatto? I suoi genitori prima di lei non avevano forse sofferto del suo allontanamento da casa, negli anni che furono?
Eppure avevano compreso che sarebbe stata felice, e così era stato. Certo, anche la partenza di Sota era stata un duro colpo, ma il giovane le aveva giurato che, una volta laureato, sarebbe tornato a Tokyo, e questo l’aveva tranquillizzata. E poi il ragazzo era sempre molto attento e presente con i suoi cari, quindi era come se vivesse ancora in casa.
Abbandonando per un attimo le faccende domestiche, la donna si ritrovò ad osservare le cime frondose del Goshinboku.
Nonostante fossero anni che lo guardava, non poteva mai fare a meno di stupirsi della sua arcana bellezza, dell’aria mistica che trasudava da ogni foglia, e della dolorosa concezione che proveniva esattamente dall’epoca in cui si trovava sua figlia.
Quando Kagome aveva raccontato di aver visto il Goshinboku, in quello strano regno in cui era precipitata, la madre aveva già capito che la storia non si sarebbe conclusa con un racconto rocambolesco.
Anzi, era stata conscia di essere solo all’inizio.
“Ecco il tempo che richiede il suo tributo”, aveva pensato, senza nessuna ragione particolare. E aveva avuto ragione.
Si sporse oltre il piccolo recinto, e accarezzò la corteccia ruvida. Le aveva sempre dato uno strano senso di pace.
Ripensando alla risata spensierata di Kagome, seguì con l’indice le linee intricate dell’albero, fino a giungere a quello che le era sempre parso il suo cuore pulsante, la parte più viva di lui. Aveva associato la fortuna del tempio sempre a quella minuscola alcova, a quella rientranza naturale del legno, come se davvero fosse la dimora di una divinità.
Il pensiero della figlia si fece dolorosamente pungente. Il vento aumentò leggermente di intensità e, per evitare di piangere, cosa che pareva ormai inevitabile, volse lo sguardo a terra, in quel quadrato dove l’albero affondava le proprie radici.
Si chinò. I suoi occhi avevano colto uno strano dosso, una sporgenza innaturale. Non ci aveva mai fatto caso, nonostante togliesse le erbacce da lì quasi ogni giorno.
Allungò una mano, curiosa, e palpò il terriccio molle. Il polpastrello stava toccando solo la terra, eppure le pareva che sotto, appena uno strato di qualche centimetro più in basso, vi fosse una scorza più dura, una curvatura di un oggetto nascosto.
Elettrizzata dalla nuova scoperta, corse dentro per recuperare una vecchia paletta da spiaggia nascosta sotto al lavello e un paio di guanti di gomma, che di solito usava per lavare i piatti, e tornò davanti all’albero.
Saggiò di nuovo il terreno, e lo spigolo era ancora lì. Non era qualcosa di appuntito, ma abbastanza solido da non poter essere scambiato con nulla se non con un fagotto.
“Allora non ho le traveggole” pensò. Da un lato era contenta di non essere impazzita, ma dall’altro era terribilmente in apprensione per ciò che avrebbe scoperto.
Si rassegnò, affondando la punta concava nel terriccio vicino alle radici, all’idea che forse qualche bambino aveva nascosto lì sotto un giocattolo per fare uno scherzo. Ma, forse per una sorta di intuito atavico, si rese conto che la sua scoperta non si sarebbe limitata a quello.
Quando la buca fu abbastanza fonda, recuperò un rettangolo imbottito parecchio antico, color caffè, con le striature di garza sulla parte frontale a mo’ di fazzoletto.
Presa da una terribile urgenza, scartò l’involto sentendo la stoffa molle cedere al primo tentativo. Quello che trovò la rese una statua di marmo.
Accarezzò il foglio marroncino ma ancora perfettamente leggibile e, man a mano che le righe in una calligrafia familiare scorrevano davanti ai suoi occhi, non poté impedirsi di coprirsi la bocca con una mano e piangere, come non faceva da anni.
-Kagome…
 
//
 
Accadde in una giornata d’autunno.
Il piccolo Inuyasha stava muovendo i suoi primi passi incerti sul prato. Esattamente come il padre, aveva la gamba destra un po’ meno dritta della sinistra, e questo rendeva il bambino paffuto vestito di rosso tremendamente instabile.
Con un sorriso, Kagome osservò Kaori correre subito in suo aiuto. La sorellina fece raddrizzare il bambino e ne seguì la camminata fino al limitare della piana, per poi tornare indietro ridendo. La somiglianza con il mezzo-demone, nel figlio minore, era impressionante: stessi occhi gialli, stessi capelli chiarissimi, stessa espressione corrucciata.
La sacerdotessa ridacchiò, ma si bloccò di colpo. Un brivido, lungo la schiena, non di certo causato dalla brezza leggera, l’aveva riscossa dai suoi dolci pensieri.
Incredula, guardò in alto, verso il cielo plumbeo.
Poi, lentamente, sorrise.
-Ciao, mamma.
 
*Masao= Uomo corretto (responsabile, attento)
**Akemi = Splendente bellezza.
 
RINGRAZIAMENTI:
Buongiorno a tutte.
Sarebbe doveroso da parte mia scrivere centinaia di righe su quanto siete brave, belle, buone e speciali, per me, però davvero dubito di poterlo fare.
Sicuramente, la prima volta che postai un capitolo in questa splendida categoria, mi ritrovai più che mai sorpresa di ricevere ben quattro recensioni nella prima mezz’ora. È stato una sorta di choc, non so se intendo!
Da quel momento ho capito che il mio lavoro, qui, veniva per la prima volta gratificato da più persone, ognuna più entusiasta e accanita della precedente, e questa cosa mi ha colorato la vita.
Non voglio fare nomi per un senso di giustizia, e poi sicuramente dimenticherei qualcuno, ma voglio dire che il mio cuore appartiene a chiunque abbia recensito, letto e apprezzato questa poco pretenziosa FF sul magico mondo di Inuyasha; leggere i vostri pareri dopo una faticosa giornata di studio era sempre un enorme piacere!
Mi scuso con tutte voi per le mie risposte stereotipate, ma la gratitudine nei vostri confronti mi stordiva così tanto da non riuscire nemmeno a respirare e, di conseguenza, organizzare i pensieri; comunque spero che abbiate ugualmente colto tutta la gioia nascosta dietro ad ogni singolo “ciao” e “alla prossima” presente in ogni risposta :D
Beh…che dire? È dura finire un’avventura durata così a lungo. Sono grata a tutte voi, dal più profondo del cuore; siete le persone che ogni scrittore fai-da-te vorrebbe avere!
E, soprattutto, grazie per avermi sempre supportato e sopportato durante questo difficilissimo periodo della mia vita che ha causato ritardi, errori, frustrazioni e chi più ne ha più ne metta.
Vorrei davvero riuscire a strapparvi un sorriso in questi ormai troppo austeri ringraziamenti, ma sono così malinconica che non so se ci riuscirò :D
A proposito: la famosa storia a voi dedicata sarà una cosuccia di dieci capitoli al massimo nella sezione “Favola”. Verrà pubblicata sicuramente entro sabato, e si chiamerà “Behind the cellar door” :)
Per concludere, vorrei esplicitare il fatto che non ho assolutamente parole per ringraziarvi come si deve. Davvero, vi voglio un mondo di bene, a chiunque di voi!
Grazie per aver reso quest’avventura possibile e sperando che questo non sia un addio,
ciao ciao!
Alla prossima! ;)
Dark kisses <3
 
  
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