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Autore: _Krzyz    06/09/2013    2 recensioni
No, questa non sarà un bella storia. Non ci saranno fate, elfi, principesse, draghi o cavalieri.
Questa storia è impregnata di odio, di rabbia, di sangue.
Non c'è un eroe in questa storia.
In questa storia c'è freddo, c'è solitudine, c'è apatia.
E questa è la storia di un corvo, di un piccolo corvo che lanciava coltelli.
Questa è la storia di Clove Ravenhill, distretto 2.
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cato, Clove, Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Di Piume di Corvo e Lanterne di Carta.

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Prologo

 

No, questa storia non parla di elfi. O di principesse. O di draghi.
Questa storia parla di una ragazzina e dei suoi coltelli.
 
In questa storia non ci sono fate madrine, fidi scudieri o magici aiutanti.
In questa storia c’è morte, c’è solitudine, c’è apatia.
 
Questa storia non ha eroi, non ha vincitori, non ha premi.
Non c’è spazio per gli eroi qui dentro.
 
Questa storia non ha un lieto fine. O forse si, starà a noi decidere cos’è meglio.
 
Questa storia non comincia con “C’era una volta…”
Questa storia comincia con un padre ed una figlia che giocavano in un prato, tanto tempo fa.
 
-“Prendila, papà!”-
Una ragazzina rideva beatamente passando la palla all’uomo baffuto dall’altra parte del giardino, gli abiti tutti sporchi di erba. E usavano il loro tempo , passandosi quel tondo di cuoio dall’alba al tramonto, fino a quando una mamma adirata li chiamava per la cena. Tutte le sere il padre rimboccava le coperte alla ragazzina, raccontandole mille e una fiabe per accertarsi che facesse bei sogni.  Un bacio sul nasino lentigginoso della bambina e via, a fare il guardiano notturno del Palazzo di Giustizia.

E questa storia prosegue con un colpo.

Poi un altro. Poi un altro ancora. Tre colpi di pistola che uccisero il signor Ravenhill, mentre tornava a casa dal turno di notte, per qualche spicciolo e un trenino giocattolo che aveva comprato per la figlia. Un borseggiatore aveva deciso che quell’uomo, così buono e così pieno d’amore, sarebbe morto in questo modo. Tre spari nel petto. Venne lasciato a spirare,  il corpo steso sull’asfalto crepato dei quartieri più poveri del distretto 2. E una bambina e una madre che piangevano disperate. Sole, le aveva lasciate sole. Era andato al lavoro dicendo che le amava, come tutte le sere, ed era morto ripetendolo con maggior convinzione. Al funerale non c’era nessuno, tranne sua moglie e sua figlia. Quella piccola bambina sorridente, che fino all’altro ieri giocava sul prato ridente, ora piangeva in silenzio, le mani strette attorno al giocattolo che suo papà non fu mai in grado di consegnarle di persona. Non avrebbe conosciuto la risata per un bel pezzo, ma all’epoca non poteva saperlo. Pose due fiori sulla misera lapide di pietra bianca, perché altro non si potevano permettere, e tornò a casa a infilarsi sotto le coperte. Non sognò , nessuno le raccontava più le storie che la facevano sognare.

Poi in questa storia c’è un matrimonio.

Perché dopo tanto dolore sua madre aveva due alternative per mandare avanti la famiglia: trovarsi un lavoro oppure risposarsi. E scelse l’alternativa sbagliata.
Perché quell’uomo si era presentato bene. Era vedovo, era bello, era ricco. E cercava disperatamente una moglie. Eppure la bambina vedeva, puntando le sue iridi verde scuro sul completo elegante di quello che presto sarebbe diventato il suo patrigno, che nulla di buono avrebbe portato. E rimase seria quando, al matrimonio, tutti si complimentavano con i novelli sposi. No, non sarebbe mai stato suo padre. Suo padre giaceva sepolto tre metri sotto terra, e li sarebbe rimasto. Non sorrise neppure per le foto ricordo. A dire il vero, non sorrise più. Quell’uomo era un estraneo. Viveva in casa sua, baciava sua madre e le portava a casa dei giocattoli, ma lei non l’avrebbe mai percepito come un degno sostituto del padre.

E andando avanti nella nostra storia c’è una malattia.

Una malattia terribile, che ti parte dai piedi e ti arriva al cervello distruggendo tutto quello che incontra per strada. Una malattia che ti corrode l’anima come acido solforico e che lascia il tuo corpo vivo, ma vivo a metà. Così sua mamma viveva, inchiodata ad un letto, senza parlare o muoversi. E la bambina cresceva vedendo il suo patrigno portare a casa donne su donne e sperperando tutto ciò che avevano. Curava da sola quell’ombra che una volta la coccolava e le faceva le trecce alla domenica, senza versare una lacrima, senza emettere un singhiozzo. La portava di peso in bagno e la lavava per poi portarla in camera di nuovo e raccontargli una favola, proprio come suo padre faceva con lei. E l’uomo che aveva sposato neanche si curava più di sua moglie, aveva centinaia di giovani donne, una diversa ogni sera. Bottiglie di whisky si accumulavano sui tavoli così come i lividi si accumulavamo sul volto della bambina. Perché lui la picchiasse non ci è dato sapere, ma sta di fatto che lo faceva. Cominciò a sentirsi soffocare, in quella casa, la bambina dagli occhi verde scuro. E il tempo passava, lei cresceva, senza una persona che le volesse bene, senza qualcuno che l’aiutasse, senza lacrime e senza risate.

E poi in questa storia arrivò l’Accademia.

Perché non era più una bambina, lei. Era diventata una ragazza. Una ragazza apatica, spietata, bramosa di vendetta. Verso quell’uomo che aveva ucciso suo papà, verso il suo patrigno che la picchiava e la trattava come una pezza da piedi, verso la malattia che si stava divorando sua madre, verso il mondo che dava troppo ad alcuni e niente ad altri. E un pomeriggio, giocherellando in cucina, scoprì di poter amare. No, non una persona, bensì i coltelli, quelle piccole lame perfette e letali. Sfiorava con gli strofinacci le piccole armi, saggiandone il filo sul dorso della mano. Rivoletti di sangue si facevano strada sulla pelle pallida della ragazza. Avrebbe potuto uccidere migliaia e migliaia di persone con uno di quelli in mano. Lo scagliò violentemente fuori dalla finestra, ammirandolo mentre tagliava l’aria e si conficcava nel tronco di un albero poco distante. Un ghigno si formò sul viso lentigginoso della ragazzina.
Gli Hunger Games. Erano l’unico modo. Si sarebbe iscritta all’Accademia, si sarebbe allenata, si sarebbe offerta e avrebbe vinto. Doveva farlo, non aveva scelta, se voleva salvare sua madre, se voleva salvarsi. In Accademia c’erano centinaia di ragazzi che avrebbero potuto spezzarle le ossa semplicemente sfiorandola, abili con qualsiasi tipo di arma, forti, agili, terribili. Ma non abbastanza sadici. Non sadici quanto lei.
Tornava a casa a tarda sera, spossata, ma non meno determinata. Un set di coltelli nascosto nel fodero della giacca di seconda mano che aveva indosso e un paio tra le mani. Li scagliava ai topi che sbucavano dai tombini, alle falene che si agitavano attorno a qualche sparuto lume lungo la strada, ai pipistrelli che volavano troppo bassi. Nulla le sfuggiva, non mancava mai il bersaglio. E poi controllava sempre dove li aveva colpiti. In pieno petto, tutte le volte.
Crebbe scagliando i coltelli. Crebbe sola, senza amici, li considerava una distrazione. Crebbe senza sentimenti, per non apparire debole. Crebbe senza un padre o una madre. Crebbe con i coltelli in mano e la rabbia nel cuore.

E questa storia comincia da qui.
E la sua storia comincia da qui.
La storia di Clove Ravenhill, ragazza del distretto 2, e dei suoi coltelli.

 
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IL KACTUS DI KRZYZ


Buongiorno! Ecco a voi la mia nuova fic, frutto di un incontro tra un sogno, una visita inaspettata e vari litri di thè inglese.
Volevo ringraziare mia sorella che, con la sua innocenza da tredicenne, mi ha detto senza peli sulla lingua che ne pensava e mi ha spronato a migliorarla.
Il cognome di Clove significa Collina del Corvo. Non son da dove sia saltato fuori ma mi ispirava :)
Sperando che questa fic possa piacere (anche giusto un pochettino) e di non venire brutalmente lapidata dal fandom, un abbraccio!
Saluti dal Kactus!
_Krzyz
  
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