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Autore: Hane Aoi    06/09/2013    0 recensioni
Chissà cosa erano, poi, questi frammenti confusi. Anna non lo sapeva. Non lo sapeva perchè non ne possedeva più. "Siamo fatti di ricordi?", si chiese, "e se questi non ci sono più, se scappano via, lontani chissà dove, è giusto considerarci umani? Non somiglieremmo di più a bambole vuote, senza se e senza un domani, a quel punto?" Anna valutò la cosa. Ma tutto ciò che ne ricavò fu la lacrima sulla guancia. Perchè gli mancavano, i suoi ricordi. Seppur dovevano essere dolorosi, li rivoleva indietro. A tutti i costi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era un pomeriggio sereno, quello in cui Anna si svegliò. Di nuovo. Le tende della finestra fluttuavano leggere come nuvole e la stanza profumava di disinfettante. Un odore pungente, quasi fastidioso, ma che sapeva di pulito. L’infermiera aveva lasciato il carrello con il pranzo, conteneva un paio di piatti, uno con dentro una brodaglia giallastra e l’altro colmo di piselli e carote al vapore. Le carote erano tagliate a rondelle e sembravano friabili, facilmente masticabili. Un panino asciutto e dall’aspetto triste faceva da contorno al pasto assieme ad una bottiglietta di acqua minerale.
Il crocefisso era appeso sopra al letto incombeva minaccioso. Il Cristo sofferente sembrava severo, quasi furioso, mentre la pelle delle gambe e delle mani era di un rosa avorio pallido, finto, plastico. La porta era leggermente socchiusa, facendo entrare le ombre dei passanti che andavano e venivano per il corridoio, alcuni di fretta, altri con passo lento, indifferente.
Anna aprì gli occhi, di scatto. Sbatté le palpebre un paio di volte, forse tre. Mi avvicinai per guardarla meglio, cauto e rilassato. Aveva lo sguardo confuso e le occhiaie si diffondevano come fragili ragnatele nere attorno alle orbite, bagnaticce e incrostate di sonno e incubi. Aveva delle ciglia folte ma non molto lunghe, che facevano da contorno a due iridi dal verde miele. Le adoravo.
Anna voltò il viso verso di me, guardando la porta. Piegò le sopracciglia, si stava chiedendo qualche cosa. Avevo visto quella espressione milioni di volte. Socchiuse gli occhi, infastidita, dolorante e poi cercò di sedersi, facendo ricadere i capelli neri sulle spalle, come fossero uno scialle di ondulato disordine. Restò così, per qualche minuto. A guardare fisso davanti a sé. Senza proferire verbo né sospiro. Vidi quella fossetta sul mento, in controluce, e mi venne il desiderio di toccarla. Senza una ragione, devo dire, anche perché sapevo che non era possibile, per me.
Passarono altri minuti, finché infine non entrò l’infermiera del turno di notte. Anna aveva dormito a lungo, quasi dodici ore quel giorno. L’infermiera iniziò a parlarle, ma io non la udivo.
Mi limitai ad osservare. Era una donna sui cinquanta, dai capelli rosso rame, snella dal viso né dolce né severo, di una bellezza media, l’uniforme era di un azzurro cobalto, e alla targhetta vi era inciso il suo nome “Louise Anderson”. Osservai le reazioni di Anna alle parole dell’infermiera. Le sue espressioni facciali erano quasi tutte simili, e le conoscevo a memoria. Le avevo viste fin troppe volte. Ora le sue sopracciglia si incurvavano spaventate, poi si alzavano perdendosi nell’incredulità, infine le sue lebbra si mordevano, poco dopo aver detto qualche frase sconnessa.
- Cosa significa? Io non riesco… non capisco dove mi trovo né chi sono. Dove mi trovo … Mi fa male, la mia testa esplode. C’era così rumore lì dentro…
Dopo di che si voltava verso la finestra, con gli occhi bagnati e angosciata.
Credo che l’infermiera le avesse spiegato la situazione, alla meglio, ma evidentemente Anna, come ogni volta, non accettava la realtà. Era sempre così difficile e doloroso, per quella ragazza sola.
Non mi restava che vegliare su di lei, fin quando fosse stato necessario, in silenzio, invisibile, senza possibilità di interagire con lei né con nessun’altro. Cominciavo a stancarmi, di questo mio ruolo completamente passivo. Cominciavo davvero a stancarmi.
L’infermiera le porse un bicchiere con delle pasticche, poi si chiuse la porta dietro le spalle.
Prima di uscire mi parve di vedere un barlume di pietà, nei suoi occhi.
-Ho paura.
La sua voce appariva flebile, stanca, quasi un soffio su una candela accesa. La ricordo ancora, come fosse ieri, quel suo volto bianco come un lenzuolo avvolto da quei  riccioli così in contrasto con una pelle fin troppo cadaverica per appartenere ad una persona viva. Anna parlava spesso da sola. Era un modo di farsi coraggio, di affrontare la vita, di combattere contro i continui risvegli e ricoveri.
Ma lei non sapeva di essere una lottatrice, non sapeva quanto fosse forte. Ogni volta per lei era come la prima. Ogni volta soffriva, se allo stesso modo della precedente o in quantità maggiore, non saprei dirlo, non sempre mi era possibile leggere i suoi pensieri e comprendere le sue emozioni e i suoi stati d’animo. Nonostante io fossi sempre stato con lei, fin dal momento dell’incidente, era una ragazza sfuggevole, come se abitasse un altro tempo, un altro pianeta, un’altra dimensione.
Forse era questa la cosa che più amavo in lei. Il suo apparire come una bambina che si affaccia sul mondo per la prima volta, i suoi modi e pensieri da eterna Alice, perduta nel paese di chissà quali meraviglie e incubi, costretta a fuggire in quei luoghi che soltanto la mente e il sogno possono regalarci. Perché soltanto il sonno poteva aiutarla, così com’era, a trovare qualche ora di pace, perché quando gli incubi sono nei sogni ci si può sempre svegliare, ma Anna, la mia povera Anna, era protagonista di un incubo che non svaniva aprendo gli occhi. La realtà era il suo incubo.
Un incubo che si ripeteva da lunghi anni e che si manifestava all’improvviso.
 
La mia dolce Anna era malata, e nessun medico l’avrebbe guarita. Potevo soltanto starle vicina, ogni volta che accadeva, cercando di diradare le tenebre. Ma era così difficile, il mio ruolo.
La mia voce era troppo lontana affinché lei la udisse, le mie mani troppo leggere affinché una carezza la rincuorasse. Avrei voluto spiegarle ogni cosa, avrei voluto dirle “sono qui, non sei da sola, sono vicino a te” ma mi era impossibile. La sua malattia le impediva ogni contatto con me.
All’inizio avevo sofferto per questo, ma poi avevo imparato ad essere quel silenzio che ronza nella stanza quando si è da soli in casa, il cigolio della finestra chiusa, quel freddo che ti assale mentre dormi, quel piccolo angolo di vetro appannato, quella melodia che ti entra nella testa.
Io ero questo. Una presenza invisibile, qualcosa che c’è ma che nessuno nota.
Non era altro che il compagno di Anna, colui che non la perdeva di vista mai, in nessun momento, in nessun caso. Non potevo interferire con lei. O meglio, non era questo il caso.
Desideravo che la nostra situazione potesse cambiare, un giorno o l’altro, ma più Anna cresceva più mi convincevo che il mio ruolo era quello di restare nell’ombra. Adesso Anna aveva quasi venticinque anni, si avviava sempre più all’essere una donna matura. E io non avrei avuto mai la possibilità di spiegarle il dolore, il tormento, l’ansia e la frustrazione che aveva provato e che avrebbe provato sempre e comunque, fino la sua morte.
Anna si alzò dal letto massaggiandosi la tempia. Aprì un poco la finestra facendosi rinfrescare dall’aria esterna della sera. Guardò giù, sospirando. Immaginai la sensazione di vertigine che l’invadeva, ogni muscolo che veniva scossa da un piccolo brivido, il gelo delle piastrelle a contatto coi suoi piedi nudi. La camicia da notte sussultava appena a livello del piccolo seno. Il suo cuore.
Il suo cuore galoppava. Terrorizzato.
  
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