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Autore: sistersCullen    06/09/2013    4 recensioni
"Il pianto dei vivi è la preghiera dei morti: nessuno sa che cosa il destino tiene in serbo per ciascuno, finchè non lo vive."
Così la pensa Crystal , una giovane donna che dopo la perdita della sua famiglia è costretta a lasciare tutto quello che conosce per andare incontro al Fato.
Riuscirà a ritagliarsi il suo posto nella fiera ed orgogliosa Irlanda del’600? Le trame sono infinite, come l'orizzonte delle Cliffs of Moher, quando il mare circonda l'universo di un'epoca: Crystal, l'ambiguo Lord Carlisle Cullen e i suoi segreti, tra misteri arcani da svelare. L'amore e il coraggio. E un solo violino che suona.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Cullen, Carlisle Cullen, Emmett Cullen, Esme Cullen, Nuovo personaggio | Coppie: Emmett/Rosalie
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Wyrd html
Ehilaaaaaaa! C’è nessuno che legge????? Siamo noi le fantastiche Sofia e Rita Cullen: sì, siamo due persone , non una. Se volete leggere le fanfic dei nostri profili ci chiamiamo Cara_masonCullen e RitaWhitlock99 . Oggi è Sofy che vi parla , per chi non l’avesse capito la storia si svolge nel 600' , vi piace?
*lettrici lanciano pomodori e uova marce urlando STATE ROVINANDO TWILIGHT” .
Allora volevo dirvi che sono tutti umani (almeno finchè a una di noi non viene qualche pazza idea),
vi piace la foto? Modestamente siamo due genie della lampada .
Recensite ragazze , recensite in molte. Kisses da Caraaaaaaaaa.

Ehmm... Dopo l'angolino di Sophi mi inserisco anch'io '^^ Allora, io faccio la parte della seria: questa è una storia scritta col cuore, di notte, con una misera penna Bic da 45 cents "Cristal" (non fate doppisensi con la storia, eh! O vi trucido :)) mentre una lampadina a led illuminava il cuscino e una lacrimuccia scendeva sulle lenzuola...Si però: che cavolo ve ne frega?! Io sono nella bancarella Cullen: "FAZZOLETTI, CIPOLLE, POMODORIIIIII! FUCILI! A CANNE MOZZE SIGNORAAA! FATE FUORI LE AUTRICI!". Un ringraziamento all'ex-Babykikokikka, la mia sister e autrice horror preferita, ad AuroraEverdeen99 e a chiunque recensirà! Vi amiamo! <3<3<3 RitaWhitlock.





 
 
 

    





























 
                                                     Wyrd-Destiny








                                                                                      Wenne bruceþ, ðe can weana lyt
    sares and sorge and him sylfa hæfþ
    blæd and blysse and eac byrga geniht.
Hægl byþ hwitust corna; hwyrft hit of heofones lyfte,
    wealcaþ hit windes scura; weorþeþ hit to wætere syððan.
Nyd byþ nearu on breostan; weorþeþ hi þeah oft niþa bearnum
    to helpe and to hæle gehwæþre, gif hi his hlystaþ æror.
Is byþ ofereald, ungemetum slidor,
    glisnaþ glæshluttur gimmum gelicust,
    flor forste geworuht, fæger ansyne.

 
(The Anglo-Saxon Rune Poem)
 
 
La grandine è più bianca del grano;
     si gira di scatto verso la volta del cielo
     e viene sballottata da raffiche di vento
     e poi si scioglie in acqua.
La preoccupazione opprime il cuore;
     ma spesso si rivela una fonte di aiuto e di salvezza
     ai figli degli uomini, per tutti coloro che prestano attenzione per tempo.
Il ghiaccio è freddissimo e molto scivoloso;
      brilla chiaro come il vetro e sembra un cristallo;
  si tratta di un suolo battuto dal vento, di bell'aspetto 
 
 





POV Crystal- Capitolo 1

 
Le onde s'infrangevano, si spezzavano in tiepidi e scoloriti pezzi di cielo mentre il vento s'insinuava, prima giocoso poi assassino, tra le pieghe dei laceri abiti dei contadini. Braccianti che per lo più avevano perso l'amore di essere attaccati, generati e quasi partoriti in una terra ingrata, sterile, senza il più flebile tocco umano ,ma dolce, da considerarsi in un certo senso viva, sotto lo sguardo cotto e adorante degli uomini e delle donne ,curvi e stanchi,ma tuttavia devoti, immensamente piegati e docili tra le vangate che il sole scolpiva sui loro volti. Ma tutto ciò è irreale, è il puro stereotipo che una figura di uomo esercita tra una massa ignara: per chiunque, il contadino sarebbe stato il personaggio sopra descritto, circondato, magari, anche da una dolce aura dorata. Invece, per me no. Per nessuno, tra quelli che definivo “la mia gente”, era così: il “chiunque” è di chi non sa, lo straniero di provenienza mediterranea. Il contadino irlandese era un colosso dall’ossatura grossa e rozza, simile al ferro delle spade, e colpiva soprattutto per gli occhi infossati, incredibilmente azzurri, verdi o cerulei (a seconda dei voleri della natura pazza e sconclusionata) e per la zazzera di ispidi capelli color carota oppure biondo stoppa che evidenziava l’enorme quantità di lentiggini presenti sul volto paffuto. Sembrava uscita tutta dallo stesso stampo, quello spaccato di umanità: del resto il loro destino era cogliere per tutta la vita le bitorzolute patate appena importate dalla Nuova Inghilterra nella regione del Galway, mangiarle ogni santo giorno dato loro dalla Provvidenza accompagnandole con l’odiosa carne di pecora e poi marcire nel soffice verde della terra per concimare altri tuberi. Bell’affare, no? Un ciclo infinito di alimentazione. Il figlio domandava al padre che cosa stesse mettendo sotto i denti e lui poteva tranquillamente rispondere: “Le ossa del nonno, caro.” Molti, all’epoca, affermavano che, alla fine, ma proprio in fondo in fondo, i contadini non fossero tanto stupidi e bifolchi come si pensava: i campi e i pascoli non erano la loro rovina (io stessa ero portata a credere in questo luogo comune) ma rivelavano loro, tra solstizi ed equinozi, parole arcane, i “raunen”, “i segreti da sussurrare”, le rune, i testamenti incompiuti degli antichi Celti. Almeno le dominazioni inglesi non avevano estinto la fiamma ancestrale del mistero, la forza tipica del mio popolo… Non sapevo perché stessi indugiando su simili dettagli: io, completamente estranea a quel mondo rude, rurale e rozzo, forse mi ci riconoscevo appieno. Ripeto: loro avevano un destino già scritto. Io no: il mio era costantemente incerto  e non avevo la minima idea di cosa fare.Il mio destino era una nube oscura , un’ enorme portale nero , e io troppo debole per oppormi a quello che il fato aveva in serbo per me. Quando ero più piccola, quei bastardi ipocriti dei cortigiani di mio padre, forti dell’esigua potenza che ancora rivestiva il Cattolicesimo, sussurravano alle sue orecchie: «Sua signoria, che disgrazia! Una sola figlia: cosa farà senza eredi?Una sola inutile femmina. Quest’anima di Dio, almeno, istruitela alle vie del Signore: in convento diventerà una bellissima ed austera badessa.» Lui, con un gesto elegante della mano ingioiellata da splendidi anelli (eredità di generazioni già pasto dei vermi da tempi immemori) che gli era solito, li zittiva immediatamente: «”Faber est suae quisque fortunae”* diceva Appio Claudio Cieco e benché credo che i Romani abbiano soppresso l’antica civiltà nostra, mi trovo d’accordo con questo latino: mia figlia, la mia unica figlia, deve essere donna di sapienza, una madre ed un’intellettuale che, in futuro, potrà provvedere da sola all’integrità fisica e spirituale delle sue creature.La sua bontà guarirà il mondo» Il commento alle loro stupide insinuazioni era sempre lo stesso e, puntualmente, come se si stesse recitando una commedia, i cortigiani si ammutivano arrossendo nei loro farsetti riccamente decorati e, con fare ancora più ossequioso,e fintamente umile chiedevano perdono al duca. Io, una piccola bambina dai capelli ramati con delle rare ciocche bionde, che le mie balie definivano “belli come il fuoco nelle notti invernali”dagli occhi smeraldini capaci di stregare , origliavo quei sconcertanti discorsi sul mio futuro con l’orecchio poggiato alla serratura dell’imponente portone del salotto. E ogni volta che mio padre dava quella risposta, un sorriso di trionfo spuntava sulle mie labbra sottili: conoscevo le suore della chiesa di St. Patrick e, nello spirito ribelle dell’infanzia, mi rifiutavo di diventare come loro. Del resto anche il duca Emmett McCarty di Doolin, un piccolo villaggio del Galway, la pensava allo stesso modo. Questo mi rendeva terribilmente orgogliosa e superba: l’essere figlia di un grande uomo come lui. Impossibile, per me, dimenticare quando mi prendeva in braccio, lui, grande e grosso, un vero orso di sangue metà scozzese e metà irlandese, e avvicinava il suo volto giovane, gli occhi scurissimi e la scompigliata chioma nera (scherzo della natura che dava a tutti il rosso e il biondo) alle mie labbra, sussurrando: «Crystal... Dall’antico inglese “Cristal”, “ghiaccio trasparente, puro minerale”: la mia piccola, tu sei il mio unico tesoro e lo sarai sempre. E per sempre.» Poi rideva e giocava con me, sotto gli occhi allibiti dei servi. A volte parlava della mamma, donna Rosalie Hale McCarty, morta mentre mi dava alla luce. Un incidente che aveva prosciugato la vita dai suoi occhi azzurri: papà diceva che era bellissima, la creatura più bella e dolce che avesse mai solcato la terra d’Irlanda, i capelli dorati che le sfioravano la schiena in un onda delicata, il carattere tenace, combattivo e protettivo di una leonessa.Ma allo stesso tempo dolce , delicato e fine.
In quel momento li vedevo emergere dalla schiuma, dai beccheggi delle navi frastornate dalla corrente tumultuosa dell’Oceano: mia madre in quel quadro della Sala dei ritratti, simile ad una principessa, papà giovane e bello che prendeva in giro il cappellano, il castello di Doonagore sulla collina, la biblioteca con migliaia di manoscritti da cui avevo imparato il gaelico, l’inglese, il runico, il greco, il latino, l’alchimia, l’astronomia, la musica, l’epica cavalleresca… “Quanto mi manca tutto questo” Pensai, mentre una mia lacrima raggiungeva gli scogli e si univa al mare. Avrei voluto buttarmi giù: ormai, avere le gambe penzoloni nel vuoto, a strapiombo per centinaia di metri, seduta sul picco più esile delle Aillte on Moher (ribattezzate da quei porci inglesi “Cliffs of Moher”), non mi bastava più. Niente aveva senso: avevo perso tutto e sì e no mi rimaneva un relitto di Emmett McCarty, ingrigito e triste.Un giorno lo avrei perso , allora sarei rimasta sola . Sola contro tutti. Comunque, sapevo che, per qualche misteriosa ragione, non sarei nemmeno con un salto da quell’altezza nel vuoto. A riscuotermi dai miei pensieri e dall’infinita tristezza che ormai avvolgeva e dominava l’orizzonte sgombro, magnificamente incorniciato dai raggi del sole, (arancioni e rosse, blu e violette sfumature sulla roccia) fu un rumore sordo e sfrigolante. Mi voltai di scatto e vidi un caprone che si scagliava a cornate contro una roccia infilzata nel terreno erboso che sembrava un menhir: scossi la testa. Com’ero stupida a volte: negli ultimi tempi mi balzava il cuore in gola per un nonnulla. I ricordi mi dominavano, defluivano come il sangue nel mio corpo e bastava una semplice percezione, fosse anche debole e fugace, a riportarle a galla e a far bruciare le ferite di nuovo e per l’eternità. Il possedere una memoria è la maledizione dei vivi,come allo stesso tempo è la gioia del defunti.
Le cornate dell’animale erano diventate improvvisamente i colpi dell’ariete contro il portone di quercia del castello, l’unica striscia di fragilità tra le pietre medioevali della costruzione: uno, due, tre, quattro… I tentativi di quel drappello di inglesi armati fino ai denti di spade e pistole, cresceva in tenacia e forza. Tremante aspettavo in silenzio l’istante in cui il legno avrebbe ceduto, con le ginocchia fra le braccia, circondata dalle mie bambole ero in attesa del Fato. Mio padre si era rifiutato di farli entrare: inglesi tiranni tra preti anglicani, soldati sanguinari e dignitari vicini al re che venivano per applicare le Na Péindlìthe, le “Leggi penali irlandesi”. Leggi elaborate con l’unico scopo di privare l’Irlanda della propria autonomia, della cultura, della dignità: stavolta, il re aveva deciso che i nobili del posto non potessero più restare nella Camera dei Lords e perdevano effettivamente ogni potere politico.
 Alla fine, il gruppetto male assortito sfondò il portone ,ma mio padre non mandò guardie contro di loro: era un cultore della pace e risolveva le dispute con saggezza ed eloquenza, mai con la violenza.
 Io avevo paura.
L’unica volta in vita mia in cui ebbi davvero paura. Da quell’esperienza ho imparato che il timore è soprattutto la percezione umana dello stravolgimento ed,   infatti, la mia vita non fu più la stessa.
 Dal salone arrivavano voci autoritarie e in risposta il tono baritonale di mio padre: pian piano cresceva una certa tensione e gli animi si scaldavano, parole urlate con irruenza…
E io raggomitolata mormoravo :“Dio, fa che non arrivino alle armi, ti prego… Niente pistole, niente spade, ti prego…” Ripetevo tra me e me come se fosse una formula magica. “Voglio papà vivo, papà vivo, ti prego… Papà v…” La porta della mia cameretta si aprì di schianto e apparve mio padre bianco come un cencio, profondamente fragile nella sua struttura massiccia: «Prendi le tue cose: ce ne andiamo.»
 Il Doonagore era tutto ciò che possedevamo: quelle stramaledette Leggi ce lo stavano portando via per esaudire le prepotenze di un Lord che vantava l’atto di proprietà bello e pronto di tutta la collina (ergo, tutto ciò che vi sorgeva sopra era automaticamente suo). Con molta probabilità il documento era falso: ma cosa poteva fare un padre di fronte alla potenza dell’Inghilterra nemica?
Emmett McCarty ed io, il suo tesoro, non eravamo duchi di più niente: tutto perduto. Il ritratto di mia madre, i nostri vestiti, l’oro, le bambole,qualunque ricordo.
 Qualche cianfrusaglia, una spada, una carrozza e due cavalli (Fire e Ash, due purosangue neri come la notte) erano tutto ciò che ci rimaneva.
 Adesso vivevamo a Doolin, in una casupola piccola ma dignitosa: io facevo la violinista di strada assieme ad Edward Masen, un ragazzo alto e magro che si poteva scambiare per mio fratello (stessi occhi verdi quercia, stesso sarcasmo e stessa bellezza raffinata ed elegante, lontana dai lineamenti duri e maschi delle altre dame) ma che, in realtà, era solo il mio nuovo vicino di casa; mio padre, invece, andava ogni giorno al mercatino per vendere le cianfrusaglie che si era portato dietro da Doonagore e aveva un discreto successo. Ce la cavavamo abbastanza per mangiare abbondantemente tutti i giorni e ogni tanto potevamo permetterci lo sfizio di invitare anche Edward a cena. Da una parte lo consideravo davvero mio fratello, un amico insostituibile: i nostri duetti di musica celtica attiravano decine di persone che gettavano monete d’oro ai nostri piedi. Alla sera ci dividevamo l’incasso: io gli davo sempre qualcosa in più, lui non se ne accorgeva ma era meglio così. Solo, con la povera madre malata di polio, Elizabeth, una signora davvero di buon cuore, aveva bisogno di più soldi di me, la ragazzina viziata fino al giorno prima. Gli anni passarono velocemente e divenni una donna, sedici anni da compiere il prossimo agosto: papà ed Elizabeth mi definivano la bellezza pura incarnata in una fiamma umana,la perfezione , ma io non davo loro retta. La modestia era la mia dote principale e io la consideravo come il dono più grande che il Fato mi avesse dato: mi piaceva essere alla pari con chi parlavo, senza che qualcuno potesse darmi ragione quando ero nel torto soltanto per le mie origini o per il mio aspetto. Comunque, conservavo una bella dose di orgoglio che mi rendeva estremamente vulnerabile. Edward si divertiva a prendermi in giro per vedere la mia reazione e quando, poi, minacciavo di conficcargli nel petto il pugnale che lui stesso mi aveva insegnato ad usare, sghignazzava: «Era uno scherzo, contessina!» Ce ne davamo di santa ragione, rotolando e ridendo come pazzi sui prati, fino al momento in cui i nostri sguardi si incrociavano e distoglievamo i nostri occhi, così simili e così diversi, per l’imbarazzo. Ogni anno, il giorno del suo compleanno (in giugno), cercavo di fargli un regalo: l’ultimo, per i suoi diciotto anni, era stato un violino di acero dei Balcani (non verniciato e per questo, bianco) che l’aveva fatto commuovere per la gioia. Ma se da una parte avevo un grande amico, dall’altra lo spirito di mio padre era in decadenza, in quanto odiava quella vita che ormai ci accompagnava da dieci anni. Perché? Be’, la sua fissa era sfuggire al disonore: era scappato da Doonagore perché si era rifiutato di deporre il suo titolo di duca per continuare a vivere al castello alle dipendenze di un Lord “Snobbo-tutti-gli-irlandesi” ma il suo cuore era ferito ugualmente, contando il fatto che ora era costretto a chiedere “l’elemosina” ai suoi stessi sudditi, al mercatino del paese ogni giovedì.
 Così, da qualche mese, papà aveva deciso di chiudere con il commercio e si aggirava, simile ad un fantasma, per la casa: non parlava, non voleva sentirmi suonare, non cantava più con me , mi mancava  la sua bellissima voce baritonale.
Era morto, completamente privo della propria essenza, un involucro di carne che a malapena sosteneva se stesso e aveva come unico cibo la preghiera: lui, che a me aveva insegnato il laicismo, quasi instillava in me il dubbio sull’esistenza di un Dio, adesso pregava. La testa china sul breviario, gli occhi chiusi e il sudore (o il pianto?) gli imperlava il volto: nutrivo il dubbio che invocasse la morte. Io impazzivo all’idea di perderlo: il suo cuore era il mio, il suo canto era il mio violino, le sue parole la mia anima, il ruggire del vento tra le grotte, le insenature e i sassi delle Cliffs of Moher erano la sua voce… Ogni giorno andavo lì per pensare, per svagarmi nell’odore di salsedine, per cadere con le gambe nel vuoto e rialzare lo sguardo verso il fuoco del tramonto in cerca di una speranza: lo tenevo d’occhio sempre, in qualsiasi suo spostamento, per evitare che l’angelo della morte lo sorprendesse in assenza…
«CRYSTAL! CRYSTAL!» Le mie fantasie, i miei pensieri caddero in pezzi per la seconda volta: stupida realtà. Che diavolo era successo, ora? Mi voltai di nuovo, ma ora verso il villaggio e vidi Edward correre a perdifiato verso di me: nonostante l’apparente aspetto gracile, aveva un fisico atletico e scattava come una lepre, riuscendo a coprire grandi distanze con il minimo sforzo. Un paio di pastori brufolosi si girarono a fissarlo: pur modesto, il suo abbigliamento contrastava molto con le rudi pellicce che essi indossavano. Mi rimisi in piedi per venirgli allegramente incontro; ero sempre contenta di vederlo soprattutto quando la corsa rendeva i suoi capelli ramati ribelli e spettinati: «Edward! Quale buon vento ti porta qui? Spero non il latte di capra: non saresti così attraente con l’alito che ti puzza da morire!» Esordii, ridendo. Lui si arrestò ad un passo da me, gli occhi smorti e pieni di lacrime: la scena mi ricordava, in un certo qual modo, le nostre rappresentazioni casalinghe di Shakespeare, le stupide risate che ci facevamo recitando “Romeo e Giulietta”. Ma qualcosa mi diceva che stavolta non si scherzava. «Come vorrei che si trattasse di latte e non di sangue!» Rispose sconsolato. M’irrigidii: «Che è successo?»
«In nome della mia amicizia, Crystal, di tutto il bene che ti voglio da quand’eravamo bambini e grazie a te imparai a leggere e a scrivere, io…» Cominciò lui. «Che è successo?» Ripetei a denti stretti.
«Io sono costretto a darti una brutta notizia, io che non so cos’è la solitudine, io devo…»
«EDWARD, T’IMPLORO! CHE. COSA. È. SUCCESSO?!» Urlai. Non volevo ferirlo ma la paura è “la percezione umana dello stravolgimento”. Lui si zittì per un attimo e poi le parole uscirono, atone e orripilanti, dalla sua bocca: «Sconosciuti, l’hanno preso, tuo padre… Gli hanno puntato la pistola contro… L’accusano di congiura contro il re, capisci? Un balordo inglese gli ha sparato…» Non ebbi bisogno di sentire altro: il vento già tagliava il mio volto, il mantello abbandonato sul prato e il mio violino nella mano sinistra… Edward lontano che si accasciava al suolo, le lacrime gli rigavano le gote…non poteva essere vero “Ti prego, fa’ che sia vivo, fa’ che sia vivo, fa’ che sia vivo…” Il mio cervello si era inceppato: papà, papà, padre mio…
Attraversai la piazza principale di Doolin, mandando all’aria le bancarelle del pesce tra le maledizioni dei venditori, svoltai verso sinistra, di fianco alla chiesa anglicana e mi ritrovai davanti casa: il cuore mi batteva all’impazzata, fracassandomi la gola e le orecchie. Un paio di gendarmi armati fino ai denti (uno alto ed imponente, l’altro biondino e magro) sorvegliava la soglia della porta scardinata: nemmeno un lottatore avrebbe potuto metterli KO con quelle spade. Io ero una donna ma avevo un pugnale d’argento purissimo nascosto sotto il seno. Coraggio: il sentore umano della giustizia. Mi avviai a passo deciso verso la porta: «Lor signori potrebbero farmi passare?» Dissi secca ma gentile. «Non puoi entrare, donna: ordini.» Rispose in una specie di abbaiare quello più alto. Che diamine… Donna?! Figlio di… Sfoderai il pugnale e glielo puntai al collo: «Chi cazzo ti credi di essere, cane?!» Era sorpreso ma in un attimo i suoi occhi si accesero delle fiamme dell’inferno e le sue braccia mi inchiodarono sul muro di fronte: «Modera i termini, puttana, altrimenti ti penetro da parte a parte come uno spiedino: vero Demetri?» Si rivolse al compagno che sghignazzò nel suo angolo, malizioso e malvagio. In un moto di disgusto gli tirai un calcio al basso ventre, recuperai il pugnale e gli sfregiai la guancia sinistra. «Io ti ammazzo!» Esclamò con il sangue che gli imbrattava l’armatura. «Tu non farai proprio niente, soldato. Il tuo comportamento è stato a dir poco disdicevole, Felix: farai i conti con me una volta rientrati. Signorina McCarty, le chiedo umilmente perdono da parte del mio sottoposto: io sono il capitano Aro, al suo servizio. Se vuole incontrare suo padre fa ancora in tempo.» Rispose una voce viscida: proveniva da un uomo di media statura, con i capelli lunghi fino alle spalle e dal volto nobile e sbarbato. Sembrava a posto ma il suo tono mellifluo suggeriva un carattere scaltro ed egoista. «Grazie.» Mormorai mio malgrado, varcando la soglia. Avevo appena evitato la mia morte e uno stupro con il suo intervento, tuttavia sentivo un invalicabile odio nei suoi confronti: odorava di morte ed inganno come tutti gli uomini malvagi, del resto. Mi ritrovai nel salotto, dove il tappeto di lana copriva l’intero pavimento e avvolgeva l’elegante figura di Emmett McCarty, disteso supino a terra. Caddi in ginocchio al suo fianco: «Padre…» Sussurrai in un singhiozzo. Il suo viso smunto e sorprendentemente pallido si illuminò di un sorriso mesto: «Crystal, tesoro mio, chi ti ha avvisato? Edward, forse? E ti ha detto tutto?» Domandò con voce fioca. «No… Solo che ti avevano sparato.» Il mio tono era malfermo ma le lacrime non erano cosa mia: ero stata sempre coraggiosa, testarda, poco incline al pianto ma in quel momento… «Sapevo di questo giorno, bambina mia… Nel corso degli anni non ho fatto altro che collezionare nemici tra i Lords inglesi (non saprai mai i loro nomi per salvaguardare almeno te stessa dall’odio e dal desiderio di vendetta), chi per un motivo, chi per un altro ma principalmente per la mia politica indipendentista: da anni sostenevano che io stessi congiurando contro il re soltanto perché consideravano il mio disprezzo per loro un arma da brandire contro ogni mia felicità. Mi volevano morto e così hanno mandato un sicario: mi ha sorpreso mentre dormivo e ha sparato una pallottola dritta al mio stomaco.» E indicò un foro abbastanza evidente all’addome: il sangue aveva inzuppato il tappeto e quando cercai di togliere a mio padre il colletto alla Giacomo I me ne ritrovai le mani piene. «E quelli chi sono?» Domandai riferendomi ad Aro e ai suoi “sottoposti”. «La polizia. Il capitano afferma di essere stato chiamato dal fornaio che aveva udito uno sparo: sarà stato lui ad avvisare Edward… Sir Aro ha detto che indagherà e che il sicario invisibile sarà acciuffato…»
«Padre, io corro dal cerusico!»
«Crystal, non ha senso chiamare un medico: ormai mi restano pochi minuti e la bile sta già avvelenando il mio sangue. Coff… Coff…» Tossì così energicamente da sputare saliva rosso/nerastra: gli pulii le labbra con il mio vestito, gli occhi mi bruciavano… Lo abbracciai mentre altri conati lo scuotevano e lo soffocavano: non potevo perderti, padre mio, perché te ne stavi andando? «Figlia, figlia chi sei?» Gridò  all’improvviso. «Sono la tua piccola Crystal» Risposi sconcertata. «Ma sei davvero mia figlia?» Insisteva l’uomo, quasi cadavere, ai miei piedi. «Ma sì, sono la tua piccola Crystal.» Ripetei io. “Il delirio fa gli uomini santi, li purifica dai segreti di una vita e lascia i vivi muti in silenzi duri e fragili come il vetro, mentre si instilla nel loro cuore il veleno del dubbio”. Gli misi una mano sulla fronte imperlata di sudore freddo e sembrava che avesse la febbre. «Come mi piacerebbe che il mio spirito se ne andasse sulle note di “The Moher Reels”, amore mio, cristallo della mia esistenza…» Presi il violino e l’archetto e con le lacrime agli occhi suonai per lui quella famosa e allegra ballata (First track: http://www.youtube.com/watch?v=_3xeTpgLP5o): gli ricordava l’infanzia passata al villaggio, nei viottoli illuminati dalle torce, musica e cornamuse che riempivano l’aria di atmosfere festose, lontane dal lugubre sentore della morte… Il pianto scorreva sulle corde, rendendole stranamente piene di sfumature particolari, singole emozioni che si rincorrevano sul crine dell’archetto… Addio, papà, addio padre mio: addio ad ogni singolo abbraccio, a quando ridevi e scherzavi, agli occhi tristi che facevi nella sala dei ritratti, addio ai tuoi discorsi tonanti che sfociavano in una risata, addio all’amore che mi hai dato. Si spense ad occhi chiusi, con il sorriso sulle labbra: mi gettai su di lui prendendogli la testa sulle ginocchia, lo baciai, urlai e piansi posseduta dal demone della solitudine e del dolore… Aro voleva portare via il corpo ma glielo impedii: perché il destino degli uomini è soccombere? Perché io, a sedici anni, non avevo più nessuno?Che cosa avevo fatto di male nella mia breve esistenza? Perche il destino aveva scelto di accanirsi su di me , quando esistevano persone malvage da punire? La mia peggiore paura era divenuta realtà , ero sola . Ero piccola rispetto al mondo , ero debole contro le forze che mi odiavano . Avevo perso l’unica persona che mi aveva amato , avevo perso la mia famiglia. L’oscurità avvolse la casa e le lacrime inondarono ancora una volta il mio viso: fragile, imploravo calore, il battito di cuore che quel cadavere non conosceva. A notte fonda, sentii delle braccia stringermi verso il petto pulsante di qualcuno: subito affondai la testa tra i suoi vestiti, chiunque fosse mi dava una strana sicurezza «Perché esiste la morte?» Domandai esausta. Una voce morbida rispose dolce: «Per imparare ad apprezzare i vivi, anche chi ci ha abbandonato e tradito.»
«Davvero?»
«Si. E io posso aiutarti. Mi chiamo Carlisle Cullen. Lord Carlisle Cullen.» Il mio cuore batté furiosamente: «Cosa vuoi?»
 «Non chiedermi cosa voglio, ma cosa non voglio ,piccola Crystal . Io non voglio che tu rimanga sola.»
 




*"Ognuno è artefice del proprio destino" (Appio Claudio Cieco)
N.B. Si consiglia di leggere il capitolo con la prima traccia di questo compilation (a basso volume)   http://www.youtube.com/watch?v=jiwuQ6UHMQg
  
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