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Autore: _Frame_    07/09/2013    1 recensioni
I piccoli difetti che ce li fanno amare diventano delle vere e proprie patologie.
Otto pazienti rinchiusi in un ospedale.
Un ospedale da cui non si potrà più uscire.
Benvenuti alla clinica Welt di Berlino.
Genere: Dark, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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CAPITOLO 14
 
Una settimana fa ha iniziato a nevicare, poi non ha più smesso. Fa davvero tanto freddo, ma il direttore dice che non vuole accendere il riscaldamento perché costa troppo. Tutti quanti provano a tenersi stretti negli angoli per farsi caldo a vicenda. Io sono solo.
Nella stanza aleggia una cupa luce grigia, le pareti di cemento sono umide e tappezzate di aloni neri da cui grondano pesanti gocce di acqua sporca. Forse si sono rotte delle tubature, capita spesso ma nessuno le ripara.
Mi stringo ancora di più dentro all’angolino, schiacciando la schiena sul muro freddo e bagnato. Un brivido mi si arrampica sulla schiena, anche se indosso il cappotto. Quando stringo le mani attorno alle ginocchia, per richiamarle al petto, lascio due piccole impronte grigie sulla stoffa. Il pavimento è ricoperto di un pesante strato di polvere.
Strofino i palmi tra di loro, per darmi una ripulita. Se qualcuno passasse lo straccio, penso, la pellicola d’acqua si congelerebbe all’istante. Avvolgo le braccia attorno alle gambe e affondo il mento tra le ginocchia.
I miei occhi ruotano, ispezionando la stanzina. È vuota, silenziosa. La neve che cade fuori ovatta qualsiasi tipo di rumore. Dalle finestre passa una luce opaca, spenta, il sole è nascosto dietro alle nuvole grigie e cariche di neve che continua lentamente a fioccare. Anche i cornicioni si stanno ricoprendo di neve, e tra poco le finestre saranno completamente otturate.
Qualcosa ruzzola sul pavimento, e il rumore mi fa girare il naso verso il centro della camera. Una bottiglia di vetro vuota tintinna e rotola di una manciata di centimetri sulle piastrelle. Poi un’ombra nera si ritira sotto il letto. La rete si sta rompendo, e un paio di molle arrugginite toccano le piastrelle. Il materasso è stato rosicchiato, e ora è ricoperto di buchi come una fetta di formaggio.
Sarà stato un topolino. Penso, sorridendo. Almeno c’è qualcuno a tenermi compagnia.
Mi porto i palmi delle mani vicino al viso, aprendoli a coppa, e ci alito dentro. Una spessa nuvola di condensa si gonfia tra le mie dita, e si dissolve solo dopo essere lievitata fino alla mia fronte. Che freddo.
Mi stringo le spalle, strofinandomi la stoffa del cappotto, e getto tutto il peso sulle caviglie. Con una spinta mi rizzo in piedi, strisciando sulla parete ruvida e fredda. L’umidità mi stritola le ossa.
Inizio a camminare verso la porta, facendomi spazio tra cocci di vetro rotti e qualche pezzo di intonaco che si è polverizzato sul pavimento. Un vetro di bottiglia si sbriciola sotto la suola della mia scarpa. Quando arrivo all’entrata, appoggio la mano rossa e infreddolita sul pomello in ottone sbiadito. Ho quasi perso la sensibilità dei polpastrelli, la pelle è secca e screpolata a causa del freddo.
Spingo la porta senza girare la serratura. È rotta da mesi, ma nessuno l’ha ancora riparata.
 
Il corridoio è quasi deserto. Passo vicino ad un termosifone spento, che arriva quasi fino alla cima della mia testa, ma i due bambini avvinghiati alle tubature non si accorgono di me. Credo stiano aspettando che si accenda.
L’eco dei miei passi felpati si perde tra le pareti, ogni tanto sento qualche vocina fuoriuscire dalle porte di legno mezze marcite. Sta diventando sempre più buio, le finestre sono quasi del tutto ricoperte dal muro di neve.
Quando cammino, il cappotto striscia per terra, imprimendo una sottile scia sullo strato di polvere che ricopre le piastrelle. Sollevo le braccia davanti al busto. Le punte delle dita non si vedono, sono completamente nascoste dalla stoffa delle maniche.
Mi fermo proprio davanti alla porta più grande, quella in fondo al corridoio, con i bordi dorati tutti arrugginiti. Da fuori si sente arrivare un suono metallico, uno padellare continuo. È l’entrata della sala da pranzo, e tra poco è ora di mangiare.
Mi poso una mano sul pancino, come per placare il brontolio. Abbasso la fronte, arricciando le labbra. Speriamo che non ci sia la solita minestra tiepida, l’ultima volta somigliava più ad una brodaglia d’acqua insaporita con qualche pezzo di verdura.
Sto ancora pensando a quanto vorrei mettere sotto i denti del cibo solido, quando qualcosa di morbido e caldo mi avvolge il collo. Io sgrano gli occhi, e affondo le dita nella stoffa che mi cade sulle spalle.
“Ehi, fratellino, cosa fai a zonzo tutto solo?”
La sua voce mi squittisce nell’orecchio.
Mi volto e Katyusha sta ancora stringendo tra le mani i lembi della sciarpa che mi ha avvolto attorno al collo. La mia sorellona sorride, e le guance arrossate dal freddo si gonfiano sopra le sue labbra. Io ricambio il sorriso e mollo la presa attorno alla sciarpa, lasciando scivolare le mani sui fianchi.
“Stavo solo gironzolando.”Le rispondo. “Avevo un po’ di fame e non ce l’ho fatta ad aspettare fino a ora di pranzo.”
Katyusha mi sistema la sciarpa sotto il mento, stando attenta a non stringerla troppo. La lana all’inizio mi pizzica la gola, poi però mi abituo subito e affondo tutto il viso fino alla punta del naso. Lei lascia andare i due estremi e i lembi cadono a terra, strofinando il pavimento vicino ai miei piedi. Spero che non si sporchi subito, visto che è bianca come il latte.
La mia sorellona sorride di nuovo, e si sistema una ciocca di capelli dietro all’orecchio, aggiustandosi le forcine che glieli tengono fermi.
“Perdonami, forse non ti terrà molto caldo.” Mi dice, abbassando le palpebre. “Ma è meglio di niente, non trovi?”
Io allargo il sorriso, sollevando la stoffa fino alla base del naso.
“Mi piace, ora almeno non avrò più mal di gola.”
Katyusha sorride e si stringe nel cappotto che la avvolge fino alle caviglie.
“Sono felice.” Mi dice.
Poi mi prende la manina e le nostre dita scompaiono dentro alle maniche troppo larghe dei nostri abiti.
“Vieni, andiamo a prendere qualcosa da mangiare.”
 
La neve che si è depositata sui bordi delle strade mi arriva fin sopra la testa. Provo ad alzarmi in punta di piedi, per guardare oltre il muro bianco,ma non c’arrivo.
Un signore imbacuccato tra i vestiti piumati che gli arrivano fino al naso mi passa vicino, portandosi dietro un bastone che picchia al suolo. Abbassa il mento e i suoi occhi piccoli e neri mi squadrano con una strana luce. Punta di nuovo lo sguardo davanti a sé e fila dritto.
Mi stringo la sciarpa attorno al viso, e le nuvolette di condensa vengono tutte assorbite dalla lana. Alzo gli occhi al cielo, e la neve mi pizzica le guance, sciogliendosi subito sulla mia pelle. Un cane randagio mi passa vicino ai piedi, annusando il terreno con la voracità di una bestia selvatica. Quando alza il muso, il suo naso è tutto spolverato di bianco. Anche lui scompare dietro l’angolo, lasciando una scia di impronte dietro di sé.
Volto il capo alla mia destra, sollevando la fronte verso il piccolo negozietto buio dov’è entrata Katyusha. Le vetrine sono chiazzate di aloni bianchi, e gli scaffali di legno che riesco a vedere da fuori sono quasi tutti vuoti. C’è solo qualche pagnotta indurita che giace sui cassettoni. Il mio stomaco torna a gorgogliare.
Sempre meglio della broda della mensa. Penso.
La porta si spalanca di colpo, e i vetri traballano, lanciando un tintinnio metallico che vibra tra le mura. Katyusha scatta fuori dal negozio con un balzo, stringendosi le mani sul grembo. Il viso le è diventato tutto rosso. Strizza le palpebre e inizia a correre verso di me.
Mi afferra la manica del cappotto e comincia a trascinarmi dietro di lei. Io barcollo, rischiando un tuffo tra la neve, poi la seguo.
“Corri, Ivan! Dobbiamo scappare.” Mi dice con voce affaticata.
La sua bocca e il suo naso continuano a sbuffare condensa come una locomotiva a vapore. Io ruoto il capo dietro di me. Il negozietto si sta allontanando, ma sulla soglia si è materializzato un omone grande e vecchio, con un grembiule sporco stretto sui fianchi. L’uomo alza il pugno al cielo e sbraita qualcosa che non capisco con la sua vociona grossa.
Per fortuna non ci insegue, e io e Katyusha scappiamo tra i vicoli bui e stretti che si annodano tra le case della città.
 
Katyusha sfila il tozzo di pane nero che aveva nascosto da sotto la manica del cappotto. Trae un profondo sospiro di sollievo e si siede sopra ad una cassetta di legno abbandonata vicino ai bidoni di latta.
“Phew, meno male che non ci ha inseguiti.” Mi dice con voce squillante.
Io sorrido e alzo gli occhi al cielo. Qui siamo protetti dalla neve, i tetti delle case sono un ottimo riparo.
Katyusha affonda le dita nel pane e fa una smorfia con la bocca, provando a spezzarlo.
“Sai, all’inizio ho pensato che la cosa migliore fosse ricattarlo mostrandogli le tette.” Mi dice, sollevando gli angoli delle labbra.
Il pane inizia a cedere e si sente un primo scrocchio.
“Ma non ha funzionato. Così ho dovuto prenderlo direttamente dal bancale.”
La pagnotta si frantuma tra le sue mani, dividendosi in due.
“Ce l’ho fatta!” Esclama Katyusha.
Guarda bene i due pezzi che stringe tra le dita, poi me ne porge uno – il più grosso – e il suo sorriso si allarga.
“Chissà, magari un giorno mi cresceranno di più e potrò rimediare anche della carne o del formaggio.”
Io rido sotto la sciarpa e allungo le mani verso il tozzo di pane che mi sta dando. È duro e freddo, spero di riuscire a masticarlo.
Abbasso lo sguardo, scoprendomi la bocca.
“Magari, quando arriverà quel giorno…” Le dico. “Sarò diventato abbastanza grande da essere io a rimediare il cibo.”
Katyusha affonda i denti nel suo tozzo di pane e strizza le palpebre. Il suo naso si arriccia e lei strappa un pezzetto solo dopo svariati tentativi. Inizia a masticarlo lentamente in una sola guancia.
“Quando saremo grandi ce la sapremo cavare benissimo da soli, vedrai.” Mi dice, continuando a sorridere.
Solleva le palpebre e i suoi occhi blu risplendono come gemme incastonate nella pelle lattea, impallidita dal freddo.
“Ora siamo piccoli.” Continua, ingollando la poltiglia masticata. “Ma stiamo crescendo tra mille avversità, in un ambiente duro e spietato. Anche se il cibo è scarso e i vestiti che abbiamo ci riparano poco dal freddo, siamo molto fortunati, Ivan.”
Io piego la testa di lato, e addento il mio pasto. Al primo tentativo, non riesco nemmeno a scalfire la crosta.
“Davvero?” Le chiedo, ancora con la bocca spalancata.
Stringo forte la mandibola e finalmente sento lo scrocchio tra i denti.
“Come mai, sorellona?”
Lei strappa un altro morso e si sistema le forcine sui capelli.
“Perché ci stiamo abituando fin da subito a sopravvivere al mondo. Ci stiamo facendo le ossa dure. Vedrai che quando saremo grandi nessuno avrà il coraggio di metterci i piedi in testa.”
Mi avvolge con un sorriso sereno. Il suo sguardo dolce vale più di mille fuochi accesi. Anche io le sorrido, e riprendo a mangiare.
“Beh, allora non vedo l’ora di diventare grande.” Le rispondo. “È davvero brutto essere sempre presi di mira dagli altri solo perché siamo ancora piccoli.”
Katyusha abbassa le palpebre e mi posa una mano sul capo. Le sue dita mi strofinano i capelli, ripulendoli dalla neve che era caduta prima.
“Vedrai che cresceremo presto.” Mi dice.
La sorellona posa gli occhi sul pane che continuo a stringere e lo indica con la punta dell’indice.
“Ah, a proposito, forse ti conviene conservarne un pezzo. È probabile che questa sera non ci servano la cena. Sai, dopo che hanno dovuto spendere gli ultimi risparmi per riparare le finestre esplose per il freddo…”
Io abbasso lo sguardo e il naso torna a nascondersi sotto la sciarpa.
“Ah, ho capito.” Annuisco.
Un alito di vento ci stritola nella sua morsa di ghiaccio. Mi stringo le spalle, scaricando un forte tremito che mi trapassa tutto il corpo.
Se riesco a sopravvivere al Generale Inverno… Penso, nascondendo il viso arrossato nella stoffa candida. Potrò sopravvivere davvero a tutto.
 
Katyusha mi stringe la mano e mi fa camminare in mezzo alla strada. Non ci sono automobili che passano, per cui non c’è il rischio di essere investiti.
La neve scrocchia sotto le nostre scarpe di cuoio. È dura come il marmo.
La sorellona alza il naso al cielo, e una sbuffata di vento le scuote la frangia. Qualche fiocco di neve si posa sulla sua fronte.
“Accidenti, se stiamo troppo fuori si accorgeranno che siamo usciti, prima o poi.”
Si guarda in giro, poi balza fuori dalla strada, trascinandomi dietro. Saltiamo oltre il muro di neve, e affondiamo nel mare bianco fino alla vita. Il ghiaccio mi stritola le gambe, mozzandomi il fiato. Il freddo mi divora le ossa, e sembra quasi che me le stia sbriciolando.
Anche Katyusha stropiccia il viso in una smorfia di dolore. Stringe i denti e inizia ad avanzare tra la neve, aprendo una via davanti a me.
“Dobbiamo prendere una scorciatoia.” Dice, e i denti le battono.
Io annuisco, affondando il viso nella sciarpa.
 
Non so quanti metri abbiamo percorso, navigando nella neve fresca che si sbriciola sotto le spinte dei nostri corpicini. Da qui, però, riesco già a vedere le torre più alta dell’orfanotrofio, quella con l’orologio tondo – rotto – sistemato sotto il comignolo.
“Evviva, siamo quasi arrivati!” Esclama Katyusha.
Io sorrido da sotto la sciarpa e inizio a velocizzare il passo, pensando già alla stanzina dove potrò far riposare le gambe. È buia e sporca, ma almeno è asciutta.
D’un tratto, però, Katyusha si blocca davanti a me, pietrificandosi come una statua di ghiaccio. Io non riesco a vedere davanti a lei, così inclino il capo, spostandomi vicino a un suo fianco.
“Guarda, Ivan.” Mi dice, postandosi le mani sul petto.
Io aguzzo la vista, sollevando il mento dalla sciarpa. Sgrano gli occhi e mi strofino le palpebre, incredulo.
Un grosso fagotto se ne sta rannicchiato, abbandonato in mezzo alla neve come un rifiuto gettato all’angolo della strada. Assottiglio lo sguardo, e vedo una massa di quelli che sembrano proprio capelli scivolare fuori dal mucchio scuro. Le ciocche biondo platino si sparpagliano sul terreno bianco e freddo, come un panno di seta.
Io e Katyusha restiamo imbambolati per una manciata di secondi, ed è lei la prima a farsi avanti. Muove il primo passo con timore,con un gesto arrugginito, poi prende velocità e scatta tra la neve, muovendosi come sommersa dall’acqua.
“Ehi, va tutto bene?” Esclama, avvicinandosi al fagotto. Però lui non si muove.
Katyusha si avvicina scollando le mani dal petto. Allunga le dita sulla figura prona con un gesto timoroso. Io resto a guardarla, allungando la punta del naso verso di lei. Katyusha scosta una ciocca di capelli, coprendo il fiocco blu – mezzo sciupato – stretto sul suo capo. Quando i sottili fili si riversano sulla neve, scivolando con un movimento aggraziato sopra il viso di quella figura misteriosa, la mia sorellona strabuzza lo sguardo. Un gemito le si strozza in gola.
Dentro a quel mucchio di vecchi e pesanti vestiti c’è una bimba. Il viso pallido è immerso nella neve, il naso le si è arrossato come una ciliegia. Le palpebre sono chiuse davanti agli occhi, sormontate da due sottili sopracciglia chiare come i suoi capelli.
Anche io mi avvicino, mentre Katyusha le avvolge le mani attorno alle spalle, scollandole il viso dal terreno ghiacciato.
“Stai tranquilla.” Le dice con tono apprensivo. “Ora ti aiutiamo noi.”
Io mi accovaccio lì vicino e piego la testa di lato, osservandola. Katyusha si inginocchia vicino a lei, e inizia a strofinarle il petto e le guance con movimenti profondi.
“Vedrai, ora starai bene.” Le dice, tirando un sorriso sulle labbra.
La bimba socchiude un occhio, finalmente, e la sua bocca sottile inizia a tremare. Le labbra le sono diventate quasi blu, ma mai quanto la luce che sprigiona il suo iride quando la palpebra si solleva.
Katyusha allarga il sorriso e inspira a fondo, sollevata.
“Ah, meno male sei viva!” Esclama, continuando a riscaldarla.
La bimba sbatte le ciglia un paio di volte, poi le sue labbra si schiudono.
“Dove… dove sono…”
“Non ti preoccupare.” Continua Katyusha. “Ora non ti sforzare, saresti potuta morire congelata.”
La bimba esita, poi le sue sopracciglia s’inarcano. Il volto si scurisce, un’ombra nera cala sui suoi occhi, così luminosi fino ad un attimo prima.
“Non mi avete portata via, vero? Io non devo muovermi da qui.” Dice con voce arrochita dal freddo.
Io piego la testa dall’altro lato. È strano vedere una bambina mettere il broncio in questa maniera. Io e Katyusha sorridiamo sempre.
La mia sorellona scuote la testa, e l’aiuta a sollevarsi di più. La fa mettere seduta sulla neve e le tiene una mano appoggiata sulla schiena. Le sue dita si intrecciano ai capelli che cadono fin sotto le spalle della bimba.
“No, ma ci siamo spaventati vedendoti immobile in mezzo alla neve.”
Katyusha abbassa lo sguardo e rilassa il sorriso. Ora non è più forzato.
“Io mi chiamo Katyusha, e lui invece è Ivan.” Dice, indicandomi con la punta del dito.
La bimba mi lancia un’occhiata fulminea. Le sorrido, ma lei è impassibile.
Katyusha abbassa le palpebre. “Tu come ti chiami?”
La bambina alza gli occhi su di lei, e arriccia le labbra.
“Natalia.” Risponde.
La sorellona le stringe il cappotto attorno alle spalle e continua a sorriderle.
“E cosa ci facevi in mezzo alla neve tutta sola, Natalia?”
Natalia inarca le sopracciglia. Un brivido le fa tremare la schiena.
“Aspettavo i miei genitori. Hanno detto che torneranno a prendermi presto e che io devo stare buona senza muovermi da qui.” Risponde.
Il sorriso di Katyusha si spegne subito, e lei socchiude le palpebre, guardando Natalia con due occhi intristiti.
“Ah, capisco.” Le dice con voce smorta.
Katyusha mi lancia un’occhiata impietosita e io sbatto le palpebre, guardandola con aria interrogativa. La mia sorellona spolvera il cappotto di Natalia con due veloci passate, poi torna a stendere un sorriso sulle labbra.
“Natalia, qui fuori fa freddo. Che ne dici se vieni insieme a noi ed aspetti i tuoi genitori al caldo, ti va?”
Natalia s’incupisce di nuovo in volto e scuote la testa. I capelli ondeggiano, emanando riflessi color platino.
“Hanno detto che devo aspettare qui. Che sono andati a cercare da mangiare. Se tornano e non mi trovano si arrabbieranno.”
Katyusha abbassa le palpebre e sospira a fondo.
Io lascio scivolare una mano in tasca e le dita si stringono attorno al pezzo di pane che mi era avanzato prima. La farina mi rimane incollata sotto i polpastrelli. Tiro fuori la mano, e mi avvicino a Natalia gattonando sul suolo innevato. Le dita diventano subito rosse e bagnate.
Lascio scivolare la mano libera verso il suo fianco, e le sollevo il braccio verso l’alto, stringendo delicatamente la presa attorno alla manica che le copre il polso.
Io allungo il braccio verso di lei, porgendole il pane invecchiato sul palmo della mano che le ho aperto verso l’alto. Quando ci tocchiamo io non sento quasi niente, perché ho la pelle intorpidita dal freddo, ma lei fa una smorfia strana.
“Tieni.” Le dico. “Se hai fame puoi mangiare questo.”
Natalia abbassa gli occhi sul tozzo di pane e le labbra le si schiudono. Poi, solleva lo sguardo su di me e i suoi iridi si illuminano. L’ombra grigia sparisce dal suo volto, le sue sopracciglia si alzano, distendendo i lineamenti del viso. Natalia si getta su di me, appigliando le dita sottili alla stoffa del mio cappotto come fossero artigli. Io esito, inarcando la schiena all’indietro, ma lei non si scolla.
Il suo sguardo si illumina ancora di più, i suoi occhi non si staccano dai miei.
“Sposami.” Dice ad un certo punto.
Io strabuzzo le palpebre, trattenendo un gemito tra i denti. Katyusha si porta una mano alla bocca, soffocando una risata.
Natalia stringe di più la stoffa sotto le sue dita e avvicina il viso al mio. Sento il suo alito tiepido e umido avvolgere la parte di collo che è rimasta scoperta nonostante la sciarpa.
“Stiamo insieme per sempre e sposami.” Continua a ripetermi.
Io arriccio le labbra in una smorfia e guardo il pane stretto ancora tra le mie dita.
“Solo… solo perché ti ho dato il pane?” Le chiedo.
Lei tuffa il viso sul mio petto e sfrega il capo tra la stoffa.
“Se ti vuoi prendere cura di me, diventa il mio fratellone. Poi, quando saremo grandi, mi sposerai e staremo sempre insieme.”
Io sposto lo sguardo su Katyusha, ruotando il collo con un movimento arrugginito. Lei smette di ridere e solleva una palpebra.
“Intanto portiamola all’orfanotrofio. Immagino che sarà stanca.”
Natalia rimane appigliata a me, le sue dita stringono attorno al suo busto. Mi sembra quasi di sentire le sue unghie affondarmi nella carne, anche se c’è la stoffa a proteggerla. Non sembra cattiva, ma mi mette già paura.             
 
 
Il freddo si sta placando, finalmente. Agito i piedi che ciondolano dal muretto e la punta dello scarpone sfiora il muro di neve che si sta sciogliendo ai bordi della strada. Una spolverata di bianco schizza per aria.
Tra poco arriverà la primavera, penso alzando il naso al cielo. Il sole opaco è ancora nascosto da un mucchio di nuvole grigie che tappezzano il cielo pallido, velato da una sottile foschia. Una sbuffata d’aria mi esce dalle narici, e la condensa svanisce poco dopo essere caduta sul bordo della mia sciarpa. Mi stringo il nastro di lana sotto il naso, coprendomi bene la bocca. Le guance sono ancora rosse per il gelo e le mani nude sono del tutto intorpidite. Non ho più sensibilità sulla punta delle dita.
Una raffica di vento gelato mi soffia fin dentro le orecchie. La pelle del viso mi brucia, quell’aria densa e pesante mi mozza il fiato.
Un foglio di giornale spiegazzato rotola sulla strada, passandomi davanti. Si incastra tra i bidoni di latta sistemati in malo modo sotto al muretto dove siedo, vicino alle mie gambe ciondolanti. Un forte rumore di passi si sovrappone a quello della carta stropicciata.
Sollevo gli occhi, ruotandoli alla mia sinistra. Il sole alto sulla mia testa, seppur nascosto, allunga l’ombra della mia frangia su tutto il viso, incupendolo. Da dietro l’angolo della piccola stradina malconcia sbucano tre piccole figure ricurve. Le loro scarpe premono sulla neve annerita dalla terra, facendola scricchiolare sotto le scarpe. Le loro sottili vocine farfugliano e stridono, mescolandosi e sovrapponendosi a vicenda. Tre sagome nere si allungano sulla neve.
Quando mi vedono, tutti e tre rizzano la schiena, sollevando il capo da terra. Io abbasso le palpebre, e lascio scivolare un sorriso da sotto la sciarpa.
“Siete tornati, finalmente.”
Toris si stringe le spalle, nascondendo la punta del mento nel colletto del cappotto. Una nuvoletta di condensa si gonfia, fuoriuscendo dalle sue labbra. Si china lentamente, ruotando il busto dietro di sé come a voler cercare qualcosa.
“Pe- perdoni se l’abbiamo fatta aspettare troppo.” Balbetta.
Mentre parla, i capelli castani − tutti inumiditi dalla neve e dal freddo − gli ricadono sul viso, e alcune ciocche scure gli finiscono tra le labbra.
Eduard abbassa gli occhi sui suoi piedi, proprio dove Toris sta rovistando. Il sole gli batte sulle lenti degli occhiali e non riesco a vedergli gli occhi. La sua bocca si scuote in un leggero tremito.
“Abbiamo fatto tutto quello che abbiamo potuto, Signor Braginski.” Mi dice Eduard, e una sbuffata bianca gli aleggia tra le labbra. “Ma a quanto pare sono tempi duri per tutti, ed è difficile rimediare qualcosa di buono.”
Eduard si sistema la montatura degli occhiali alla base del naso e finalmente il riverbero del sole si dissolve.
Toris, intanto, torna a rizzare le schiena e si avvicina a me stringendo il grosso sacco di pelle tra le dita. Deve alzarlo con entrambe le mani, perché pesa. Quando lo solleva, stringe i denti e trattiene il fiato in gola.
“Ecco qui, c’è tutto.” Dice, posandolo ai miei piedi, di fianco ai bidoni arrugginiti.
Il bordo della bocca del sacco mi sfiora i piedi. Io abbasso le palpebre e allargo un sorriso.
“Bene. L’importante è aver racimolato il più possibile.”
Eduard e Toris sospirano, rilasciando altra condensa che evapora sotto i loro nasi.
Ravis esce solo ora dalla schiena di Eduard e anche lui rilassa il viso, piegando lievemente le labbra verso l’alto.
“Meno male.” Sospira il piccoletto. “E pensare che è solo la metà di quello…”
Eduard gli preme una mano sulla bocca, richiamando la sua testolina vicino al petto. Ravis annaspa un paio di boccate soffocate, gorgogliando qualche sillaba, ma Eduard non fa cedere la presa.
Toris si allarma e scatta sul posto, guardandoli con occhi strabuzzati. Io non ci do troppa importanza e scendo giù dal muretto, sprofondando nella neve fino alle caviglie. Una manciata di polvere ghiacciata mi entra nelle scarpe, dandomi una scarica elettrica su tutta la gamba. Soffoco il dolore in un sorriso tirato e mi chino sul sacco. Quei tre continuano a ciondolare tra di loro, ma non ci bado. Sono tipi bizzarri ma molto utili.
Agguanto il cuoio che avvolge il bottino e snodo il laccio che lo tiene chiuso. Affondo il  braccio dentro al sacco senza guardare, e tasto il primo oggetto che mi capita tra le dita. È freddo e morbido, leggermente oliato sulla superficie.
I tre ragazzi ora sono fermi immobili in mezzo alla strada. I loro occhi sono fissi su di me, scintillanti come gemme. Ravis arriccia le mani vicino al petto. La sua bocca si schiude lievemente, lasciando cadere un rivolo di saliva dall’angolo della bocca.
“Allora, direi che…” Dico, facendo riemergere il braccio alla luce del sole.
Tra le dita scopro di stringere una fetta di formaggio bianco, ricoperto sul dorso con una carta bianca e rossa incollata sulla crosta.
“Direi che questo va a voi e tutto il resto a me.” Dichiaro con il sorriso sulle labbra.
Toris abbassa le palpebre e rilassa le spalle. Un altro sbuffo di condensa si arriccia sotto la sua bocca.
“Ehm, grazie, Signor Braginski.”
Io gli tendo la fetta e lui la prende dalla mia morsa con un gesto lento e timoroso. Le sue dita sottili tremano, e sono rosse e screpolate per il freddo.
Ravis s’intristisce e inarca le sopracciglia in un’espressione pietosa.
“Di nuovo così poco? Ma io ho ancor…”
Eduard gli lascia cadere un pugno chiuso sul capo, zittendolo in un attimo. I suoi occhi lo fulminano.
Richiudo il sacco e lo sollevo con una mano sola, portandolo fin sotto il muro. Volto il capo di nuovo verso i tre, e la sciarpa si alza fin sotto la punta del mio naso.
“Io sono il capo, ed è giusto che sia io ad avere la parte più grossa, non trovate?” Domando.
Toris sforza un sorriso, aggrottando la fronte.
“Non… non mettevamo in dubbio questo, Signor Braginski.” Mi dice con voce traballante.
Eduard si fa avanti, sistemandosi il colletto del cappotto. Deve avere freddo, la punta del naso si è tutta arrossata. Si sistema di nuovo gli occhiali, facendo poi passare le dita tra i capelli biondi.
“Quello che volevamo dire, Signor Braginski, è che è sempre più difficile trovare cibo o altri oggetti senza venire scoperti. I sistemi di sicurezza si stanno evolvendo, ed è davvero diventata un’impresa, farla franca.”
Io alzo le palpebre, guardando oltre le lenti che gli coprono gli occhi.
“Perché ci sarebbe da preoccuparsi?” Gli domando, appiattendo le labbra. “Noi non stiamo facendo nulla di male. Se siamo abbastanza forti da poterci permettere di appropriarci di quello che possiedono le altre persone, allora perché non dovremmo farlo?”
Piego la testa di lato e torno ad allargare il sorriso.
“Io non ho intenzione di farmi sopraffare dagli altri. Se questo ci permette di sopravvivere, allora non ho nulla di cui preoccuparmi. È quello che mi hanno sempre detto.”
Ravis sospira, e qualche ciocca fulva gli cade davanti alle palpebre chiuse.
“Anche sfruttandoci?” Chiede con aria malinconica.
Eduard e Toris si voltano di scatto, mozzando un gemito tra i denti.
“Ravis!” Esclamano all’unisono.
Il piccoletto balza sul posto, sgranando gli occhi. Io abbasso le palpebre e inizio a muovere qualche passo verso di lui. La neve continua a gemere sotto le mie suole.
Ravis si cinge le mani al petto e alza gli occhi azzurri verso di me, da sotto la frangia spettinata.
“Non è sfruttamento, Ravis.” Gli dico, sorridendo.
Gli poso una mano sopra il capo, avvolgendogli l’intero cranio. Lui s’irrigidisce come un palo, e il suo sguardo si pietrifica su di me. Faccio sfregare le dita tra i suoi capelli, scompigliandogli le ciocche fulve.
“Io vi tengo sotto la mia protezione, e il minimo che mi aspetto da voi è lealtà e collaborazione. Ma, siccome il capo sono io, voi dovete semplicemente attenervi alle mie regole.”
“Il problema è che…” Mi interrompe Eduard, portandosi più avanti rispetto a Toris.
Si sistema gli occhiali – continuano a cadere! – e abbassa leggermente le palpebre.
“Il problema è che temiamo che queste nostre azioni possano sfociare in crimini più seri, Signor Braginski. Insomma, un conto è rubacchiare da qualche emporio, ma…”
Abbassa lo sguardo, facendo ruotare gli occhi al suolo. Io lo osservo con aria interrogativa, senza staccare la mano da Ravis.
Toris fa un passo in avanti, lasciando due profonde impronte dietro di sé.
“Il nostro timore, Signor Braginski.” Dice, scostandosi i capelli dalla fronte. “È che possa succedere di nuovo un episodio come quello della settimana scorsa. Ce… ce la siamo vista brutta, ma ora che le autorità ci tengono d’occhio, lei in particolar modo,   noi …”
“Se l’è cercata.” Sbotto, incupendomi in volto.
Le mie dita stringono inconsciamente attorno alla testa di Ravis, che continua a tremare come una foglia. Eduard e Toris si sono irrigiditi, una veloce scossa scorre sulle loro schiene.
“Io ho fatto la cosa giusta.” Proseguo. “Se le persone ti fanno arrabbiare, o non fanno ciò che desideri, è giusto farglielo capire, no? Sono loro nel torto.”
Un gorgoglio mi romba nel petto. Una fredda morsa mi si avvinghia attorno allo stomaco, quasi stritolandolo. Le dita affondano ancora di più tra i capelli di Ravis.
Il piccoletto geme e strizza una palpebra, nascondendosi tra le spalle.
“Ahia, mi fa male.” Sibila.
Io allento la presa e ruoto il capo verso di lui. Ammorbidisco lo sguardo, ma Ravis è una maschera di panico.
“Tu credi che sia stata una buona idea?” Gli domando, socchiudendo gli occhi. “Se qualcuno ti porta via ciò che è tuo, è giusto comportarsi in quella maniera?”
Lui scioglie lo sguardo di terrore, ma i suoi occhi lucidi vacillano ancora.
“Ecco… per fortuna non è successo nulla di… di irreparabile.” Balbetta. La sua voce trema quasi quanto il suo corpo. “Poteva finire peggio, insomma, alla fine non è morto nessuno anche se quel tizio era ridotto abbastanza…”
“Ravis!” Eduard e Toris lo interrompono di nuovo, ma ora non possono tappargli la bocca.
Io sorrido al piccoletto, ignorando le sceneggiate dei due. Sembra quasi che ogni singola parola di Ravis li sotterri di un centimetro sotto la neve. Lascio scivolare la mano giù dalla sua testa, e i capelli anarchici tornano a scompigliarsi sul suo capo.
“Vedi, è stata comunque la cosa giusta da fare. Ma ora…”
Ruoto lo sguardo verso gli altri due che rizzano la schiena come marmotte, quando i loro occhi si incrociano con i miei.
“Ora l’importante è restare uniti. Se continuerete a fare quello che vi dirò senza lamentarvi allora andrà tutto bene.”
Mi sistemo la sciarpa sotto il mento, allargandola. Faccio prendere un po’ d’aria al collo, e la pelle calda e umidiccia viene scossa da un brivido. Me la stringo di nuovo, lasciando che un lembo cada su una spalla.
“Comunque…” Dico, ruotando lo sguardo al cielo. “Com’è quella storia che mi tengono d’occhio? Per caso qualcuno ha fatto la spia su qualcosa?”
Eduard e Toris si scambiano una veloce occhiata. I loro sguardi si stropicciano, ed entrambi aggrottano le sopracciglia.
“Beh, no… non esattamente.” Risponde subito Toris.
Scuote il capo con un colpo rapido, e le ciocche castane gli danzano davanti al viso.
“Credo che la voce sia partita direttamente dall’orfanotrofio. Probabilmente possiedono ancora qualche suo documento, anche se sono passati almeno un paio d’anni da quando se n’è andato.”
Eduard annuisce e si dà una strofinata alle mani, riscaldandosi i palmi.
“Forse ha avuto dei precedenti, Signor Braginski? Oppure qualcuno ha fatto spargere notizie da lì di certi suoi… atteggiamenti? Ma con questo non la sto contraddicendo!” Si affretta ad aggiungere, alzando il tono di voce.
“Ma sicuramente i sussurri provengono da là. Potrebbe essere stato il direttore, o una qualche governante, chi lo sa. In ogni caso…”
Si sistema gli occhiali sul naso e un debole raggio di sole si riflette sulle lenti.
“Dovremo agire con più cautela, d’ora in avanti. Basterebbe solo un suo minimo movimento sospetto e dovremmo davvero prepararci al peggio.”
“Soprattutto per quanto riguarda la sua situazione.” Aggiunge Toris, aprendo un palmo della mano verso l’alto.
Eduard getta lo sguardo al suolo, allontanandolo dal mio.
Probabilmente non si stanno davvero preoccupando per me. Penso, senza un briciolo di rammarico. Anzi, forse gli farebbe addirittura comodo sbarazzarsi di me.
Sollevo gli angoli della bocca, e il mio viso s’irradia.
Ma non mi lascerò portare via con tanta facilità.
“Dall’orfanotrofio?” Domando con voce calma.
Eduard torna a ruotare gli occhi verso di me.
“Sì, forse da lì può essere sfuggito qualcosa. Non sono mai stato trattato molto bene, e quando sono cresciuto ho cercato di far capire a tutti che ora sono diventato in grado di difendermi con le mie sole forze.”
Ruoto il capo dietro di me, ed inquadro Ravis con la coda dell’occhio. Gli sorrido, ma lui s’irrigidisce nuovamente.
“Quando si è piccoli è facile che tutti gli altri si approfittino di te, giusto?”
Lui stringe le spalle e borbotta qualcosa tra le labbra tremolanti.
“Eh, sì. Certo, Signor Braginski.”
Avvito tutto il busto verso di lui, dandomi poi una ripulita al cappotto, lisciandomelo sul petto.
“Infatti, ma ora che sono cresciuto abbastanza da cavarmela da solo ho capito l’importanza di avere molte persone vicino. E anche che è meglio badare a se stessi, tentando il tutto e per tutto per sopravvivere.”
Ravis tiene la fronte bassa, le mani giunte sul grembo, ma i suoi occhi si sollevano sui miei. Due profondi lampi blu.
“E bisogna pensare a sé anche a costo di far soffrire gli altri?” Mi domanda.
Sento un rantolio confuso giungere da dietro di me. Lancio la coda dell’occhio alle mie spalle, ma non riesco ad inquadrare Eduard e Toris. Sono strani, quei due, non capisco cosa li agiti tanto.
Torno a guardare Ravis e chiudo le palpebre sul viso.
“Basta non badarci.” Gli rispondo con voce pacata. “Io penso solo a compiere ciò che fa star bene me. Ma voi vi sentite al sicuro sotto la mia protezione, dunque non dovete lamentarvi. Basta solo che vi fidiate di me.”
Ravis si nasconde tra le spalle. Affonda il viso nel colletto della giacca, lasciando scoperti solo gli occhi e la fronte. Dietro di me, Eduard e Toris si ammutoliscono.
“Fo- forse, quello che Ravis intendeva…” Dice Eduard, schiarendosi la voce.
Io mi volto subito, abbastanza per vedere la nuvoletta di vapore dissolversi davanti al suo viso. Eduard alza un palmo al cielo, piegando la bocca in una smorfia.
“Forse, lui intendeva che certe persone potrebbero, ecco, allontanarsi. Magari perché intimorite.”
Lui e Toris hanno ripreso a tremare. I capelli di Toris gli oscillano sulle spalle.
Io ruoto lo sguardo al cielo – il sole si è nascosto dietro alle nuvole, grigie come una sbuffata di fumo – e rimango a fissarlo con aria pensosa.
“Mhm. Allontanarsi? Se vi riferite a…”
Fratellone!
Un urlo squarcia l’aria densa e pesante. La voce è ancora lontana, ma mi provoca un tuffo nel petto violento come una mazzata dritta sulle costole. Una vampata di caldo improvviso m’investe la faccia, e il naso inizia a prudere. Il sangue scorre più velocemente, ho recuperato la sensibilità.
Di nuovo un urlo confuso, mescolato al rumore dei passi che ruzzolano sulla neve.
Mi irrigidisco in mezzo alla stradina, con le mani stese sui fianchi e le dita contorte che non riescono a toccarsi tra di loro. Sgrano gli occhi e, quando aggrotto la fronte, sento già il sudore gelido che gronda sulla pelle.
“Oh, no. Di nuovo.” Gemo, guardandomi in torno con scatti nervosi.
Io mio sguardo schizza in ogni angolo, i capelli si agitano davanti alla fronte. Arretro di un passo, non badando agli sguardi confusi dei tre ragazzi che mi fissano. Tiro un sorrisetto traballante sulle labbra, ma lo nascondo subito dietro alla sciarpa.
I passi sono vicini, strisciano e sprofondano nella neve ghiacciata come a volerla divorare.
Mi porto le mani davanti al petto, continuando ad arretrare verso i bidoni di latta.
“Pensateci voi.” Dico ai tre ragazzi. “Fate finta che io non ci sia.”
Mi tuffo tra i contenitori arrugginiti, rannicchiando le ginocchia vicino al petto. Spero che i miei spasmi non facciano tremare anche i bidoni, il trambusto stanerebbe il mio nascondiglio. Appoggio la schiena sulla superficie metallica tenendo la testa china sulle gambe.
Il ruzzolare sulla neve si fa più vicino, sento il cuoio delle scarpe gemere mentre si avvicina. Un altro respiro si unisce a quello dei tre, ma è più pesante e accelerato.
I passi s’interrompono. Cala il silenzio, graffiato solo da quell’affanno roco e cavernoso.
Deglutisco un boccone di saliva senza fare troppo rumore e ruoto lentamente il collo dietro di me, oltre il bidone. Affondo il viso nella stoffa della sciarpa e quella mi arriva fino alla punta del naso. La condensa scompare tra la lana.
La schiena di Natalia si gonfia e si sgonfia, ingrossandole la stoffa del cappotto di pelle che le arriva fino alle caviglie. Le spalle si piegano in avanti, i capelli le scivolando davanti alla fronte , coprendole il viso come una sottile e morbida tenda. Il fiocco stretto sul capo le si è sciupato, il nastro blu si intreccia con le ciocche bionde che lo nascondono.
Ravis sgattaiola come un topolino impaurito dietro alla schiena di Eduard che si è ingobbito leggermente. Si sistema gli occhiali sul naso e le lenti nascondono due occhi tremanti di paura. Eduard fa un passo all’indietro, spingendo sul petto di Ravis. Allunga una mano al suo fianco, aggrappandosi al lembo della giacca di Toris. Tira il ragazzo vicino a sé, per poi dargli una spinta in avanti, facendolo quasi inciampare sui suoi stessi piedi.
Eduard sibila qualcosa tra le labbra e si scambia un’occhiata d’intesa con Toris. Lui sospira, e fa qualche passo in avanti tenendo le spalle inclinate all’indietro. Le mani ben ferme davanti al petto.
Natalia non si è mossa, si è limitata a stringere i pugni sui fianchi, restando a capo chino. Toris aggrotta le sopracciglia e la bocca gli si piega in una strana smorfia. Le sue spalle tremano, facendo traballare le punte dei capelli. Un grumo di nuvolette bianche si aggroviglia sotto il suo naso.
“N-Natalia… sei…”
“Dov’è?” Un gorgoglio cupo e profondo scivola giù dalle labbra di Natalia.
Trae un profondo sospiro dalle narici, e la schiena le si gonfia. Quando solleva la fronte, i sottili fili setosi le scivolano ai lati del viso, cadendole sopra un orecchio. Un lato della faccia è ancora nascosto dai capelli, mentre nell’altro brilla la luce del suo occhio. Un raggio di sole smuove una scintilla che le accerchia l’iride, emanando riflessi blu che schizzano dalla sua pelle lattea. La pupilla traballa, piccola come una capocchia di spillo.
“Dov’è?” Ripete, piegando un angolo della bocca verso l’alto.
Un’ombra nera le cala sulla fronte.
Toris si stringe le spalle e strizza le palpebre, lasciando cadere le mani sui fianchi.
“Non… non è qui. Se lo stai cercando, forse…”
“Bugiardo!”
Natalia rizza la schiena e aggrotta le sottili sopracciglia. Dilania la bocca in un ringhio selvaggio e allunga le mani davanti al petto. Toris si allarma, scattando sul posto come una molla ma, prima che abbia tempo di muovere anche solo i piedi, Natalia è già su di lui. Lo agguanta per la stoffa della giacca, affondando le dita nel colletto. Le sue dita si artigliano come ganci di ferro.
Natalia trascina il viso impallidito di Toris vicino al suo, e i due respiri congelati si mescolano.
“Non mi prendere in giro, so che è qui!” Gli urla, inasprendo il tono di voce.
Toris geme, tremando sotto la sua presa come una canna mossa dal vento. Eduard e Ravis si allontano ancora di più, e il piccoletto tuffa il viso nella schiena di Eduard.
Natalia continua a stringere la presa. “Dimmi dov’è!”
“Non è qui, Natalia.” Le risponde Toris, abbassando una palpebra.
Lei s’incupisce ancora di più in volto, lasciando calare le tenebre sui suoi occhi. Un ghigno sadico le fa brillare i denti sotto le labbra, ma un altro luccichio scintilla dentro alla manica del suo cappotto
Toris abbassa lo sguardo e socchiude la bocca, bianco come un lenzuolo. La punta della lama cresce lentamente da sotto la stoffa, fuoriuscendo come la testa di un serpente. Il coltello si avvicina alla gola di Toris, il manico è impugnato tra le sottili dita di Natalia. Le nocche le si sono sbiancate a forza di stringerlo.
“Se mi stai dicendo una bugia…”
“Eh?! No, no, è tutto vero.”
Toris scuote la testa e le punte dei capelli umidicci sfiorano la parte affilata della lama.
“Credimi.” Le dice, impietosendo lo sguardo.
Natalia raddrizza il collo, e la sua testa si allontana da quella del ragazzo. L’ombra scura continua ad aleggiare attorno al ghigno che le deforma il viso.
“Sarà meglio per te.” Gli dice con quel gorgoglio che sembra provenire dalle più buie profondità delle sue viscere.
Le sue dita si allentano attorno alla giacca di Toris e lui fa ricadere i talloni a terra, che scrocchiano sulla neve. Barcolla un paio di volte, prima di mettersi in equilibrio. È stato in punta di piedi fino ad adesso.
Natalia ruota il capo e io sento una morsa attanagliarsi attorno alle mie viscere, anche se i nostri sguardi non si sono incontrati. Con uno scatto fulmineo torno a nascondere la testa dietro al bidone, sollevando le spalle fino a toccarmi le guance.
Per qualche attimo il silenzio regna sovrano, io mi tengo lontano dalla superficie di latta per evitare di farla traballare. Trattengo addirittura il fiato, per paura che le nuvolette di condensa possano svolazzare in bella vista. Il cuore mi martella nel petto, la cassa toracica tuona sotto i suoi colpi.
Vattene, vattene, vattene, vattene, vattene, vattene…
Sento un paio di suole gemere sulla neve e due colpi ben assestati che frantumano il ghiaccio. Quel rumore mi scuote le orecchie, facendomi tremare le ciocche di capelli che le coprono. Il rumore dei passi che avanza si fa più forte, poi accelera, macinando il suolo sotto i colpi.
“Fratello, dove sei?! Dobbiamo…”
La voce di Natalia si allontana, divorata dall’aria gelida e pesante di fine inverno. Il rumore della sua corsa si affievolisce. Sembra quasi un eco, poco più di un brusio. Io rimango immobile, pietrificato dietro ai bidoni con la testa nascosta tra le ginocchia.
Di nuovo il silenzio, e il mio respiro che riprende a congelarsi sotto il naso.
“Se… se n’è andata.” La voce di Toris mi scioglie il ghiaccio nel petto.
Rilasso le spalle, e la sciarpa si abbassa fin sotto il mio mento. Mi lascio scivolare di lato, rotolando sulla neve che si appiattisce sotto il mio peso. Abbasso le palpebre, ma le mie labbra tremano ancora.
“Per un pelo…” Sospiro.
Toris ha ancora lo sguardo voltato nella direzione in cui Natalia si è dileguata. Sta riprendendo fiato, le sue guance e il suo naso si sono arrossati come se la pelle si fosse bruciata. Alcune ciocche di capelli gli sono rimaste incollate alla fronte.
“Già, per un pelo.” Mormora, passandosi una mano tremante sulla gola.
Le sue labbra si piegano in un leggero sorriso e gli occhi tornano a brillare come prima. Io piego la testa di lato, non capendo cosa ci sia da essere felici dopo che Natalia ti ha puntato una lama sotto il mento.
Ravis sbuca da dietro la schiena di Eduard, con le sopracciglia inarcate e gli occhi rivolti nella stessa direzione di quelli di Toris.
“Forse, lei è proprio una di quelli da tenere lontani. È così, Signor Braginski?” Mi domanda il piccoletto.
Eduard allarga le mani sui fianchi, lanciandogli un’occhiata allucinata, con le palpebre strabuzzate. Soffoca un gemito, sperando forse di trovare qualcosa da aggiungere, ma non riesce a far uscire neanche una sillaba.
Io sospiro, tirando un sorriso sotto le guance. La neve inizia a congelarmi le natiche.
“Se solo non fosse così possessiva, non sarebbe cattiva.” Rispondo, abbassando le palpebre sugli occhi.
Un brivido mi attraversa la spina dorsale, divorandola fino al midollo.
“Dovrebbe solo evitare di rincorrermi così assiduamente e di diventare così paurosa tutte le volte. Non ci tengo proprio a farmi prendere.”
Eduard si sistema il colletto della giacca sotto il mento, e gli occhiali tornano a scivolare sulla punta del naso.
“Avere una sorella deve essere un bell’impegno.” Dice con voce ferma e pacata. “Ma almeno può essere certo che lei non l’abbandonerà mai, Signor Braginski.”
Ravis annuisce, e la massa di capelli fulvi si scuote sulla sua fronte.
“Esatto. Anche se è già stato scaricato da quell’altra, ha presente…” Si porta le mani davanti al petto, contorcendole come le zampe di un ragno. “Quella con quelle tette gigantesche è sua sorella, giusto?”
“Ravis!” Di nuovo Eduard e Toris lo zittiscono all’unisono.
Io rilasso i lineamenti del viso, mentre quei due si irrigidiscono di nuovo, e i loro volti diventano maschere di terrore.
“È vero, Katyusha si è separata da me.” Dico.
Rigonfio le guance, allargando il sorriso. “Ma è stata una sua scelta, infatti io avrei preferito che fosse rimasta con me.”
Eduard sbuffa, sistemandosi la montatura.
“Già, è… è paradossale, non trova?” Dice, schiarendosi la voce.
Si fa di nuovo serio come prima. “La sorella che più teme non ha intenzione di scollarsi da lei, mentre quell’altra ha deciso di separarsi, anche se lei avrebbe preferito rimanere insieme. Forse… se capisse perché Katyusha se n’è andata…”
Si interrompe da solo, guardandomi con occhi vacillanti da dietro le lenti.
Toris volta il naso verso di lui, placando il tremolio continuo.
“Oppure…” Si intromette Toris. “Potrebbe domandarsi perché ha tanta paura di Natalia. In fondo, lei è così…”
Si morde un labbro, e il sorrisetto torna ad accarezzargli le labbra. Io sollevo una palpebra con un gesto lento.
“Ho paura perché è spaventosa, tutto qua.”
I tre si girano a guardarmi. Io alzo la fronte al cielo, il pallido sole scivola fuori dalle nubi grigie e dense che si accumulano nel cielo macchiato dalla foschia. La sua luce è debolissima, riesco a guardare quel disco bianco senza alcuna difficoltà.
“Forse dovrei chiedermi perché si comporta così…” Mormoro, senza abbassare gli occhi.
Un uccellino spicca un balzo dal tetto di una delle case ai bordi della strada. Le sue zampette sbriciolano un cumulo di neve, e una manciata si polvere cristallina cade dal cornicione.
L’inverno sta finendo, e non ne vedrò più un altro.
 
***
 
“Torneremo a prenderti. Tu stai buona e aspettaci qua, Natalia.”
La mamma mi sistema la giacca attorno al collo, abbottonandomi l’ultima fibbia sotto la gola. Mi scosta una ciocca di capelli dalla spalla che ricade sulla schiena, lasciandomi libera un’orecchia. Il vento soffia, penetrandomi fin dentro al timpano. La mamma si solleva, rizzandosi sulle ginocchia, e la sua mano gelida si scolla dal mio cappotto.
Papà mi posa una mano sul capo e lascia scivolare due dita sopra al fiocco, stringendomelo attorno ai capelli.
“Non ti muovere, mi raccomando.” Mi dice papà con la sua voce profonda.
Le sue dita ghiacciate scorrono sulla pelle del cranio come viscidi vermi umidi. Un’altra raffica d’aria mi stritola, facendomi battere i denti. I piedi si sono del tutto intorpiditi, affogati nella neve fino alle caviglie.
Papà ritira la mano sul fianco e io rimango in mezzo alla distesa bianca, irrigidita come un palo. Il cielo grigio continua a fioccare, ogni suono è ovattato.
Mamma e papà si girano, mi danno le spalle, e iniziano a camminare a grandi falcate tra la landa immacolata. Un vortice li accerchia, quella raffica bianca fa svolazzare i capelli di mamma che si stringe le spalle, chinando il capo verso il petto. Papà si avvolge tra le sue stesse braccia, strofinandosi le spalle.
Anche loro hanno freddo.
La neve mi travolge, mi punge la faccia come una pioggia di spilli. Un’altra alitata d’aria, più forte, mi stritola fino a mozzarmi il fiato in gola. Strizzo le palpebre, nascondendo il naso dentro al colletto della giacca. Ho talmente freddo che mi sembra di sentire caldo. Sto persino iniziando a sudare, la schiena è diventata fradicia e rovente.
Socchiudo lievemente un occhio e le ombre di mamma e papà svaniscono nel silenzio, ingoiate dalle neve che continua a cadere inesorabilmente. Barcollo in avanti, la testa inizia a diventare pesantissima. Sbatto le ciglia un’ultima volta e intorno a me c’è solo il bianco. Mamma e papà non ci sono più.
Non mi sento più le gambe e le braccia, il cuore ha iniziato a rallentare. I tonfi sono forti dentro al petto, e rimbombano come tamburi. È l’unico suono in questo silenzio. Abbasso le palpebre e il bianco diventa nero. L’ultima cosa che sento, è il suolo ghiacciato che mi preme su una guancia.
 
La bambina chinata vicino a me sorride sempre. È stata lei a svegliarmi, ma non ricordo quando mi sono addormentata. Sollevo il naso al cielo e la neve continua a pungere sulla mia faccia. Forse non ho dormito molto, visto che nevica ancora.
Torno a posare gli occhi sulla bambina che mi ha sistemato il cappotto e ripulita per bene. Sembra preoccupata, ma non mi interessa. Ha addirittura provato a convincermi a venire assieme a lei e a quell’altro bambino. Ma non ci penso minimamente ad andarmene da qui. Mamma e papà torneranno. Sì, torneranno.
Mi mordo un labbro, cercando di scacciare quella piccola vocina che continua a bisbigliare in un angolino della mia mente. Aggrotto la fronte, ignorando completamente le sue parole.
Katyusha – così ha detto di chiamarsi – continua a parlare e a sorridermi. Sembra quasi un raggio di sole in mezzo a tutto questo ghiaccio. Il mio cuore batte un’altra volta, ma sempre facendo rimbombare quel suono duro e pesante che sbatte sulla cassa toracica.
Non torneranno, vero? Anche se sanno che ho fame e che li sto aspettando.
Il bambino che si chiama Ivan striscia sulla distesa di neve e si avvicina a me. Una sua mano scivola su un mio fianco, prendendomi delicatamente la mano rossa e infreddolita. Schiudo il palmo verso l’alto e lui ci lascia cadere dentro un pezzo di pane nero, duro come un sasso.
“Tieni.” Mi dice, sorridendo. “Se hai fame puoi mangiare questo.”
Chiude le palpebre davanti agli occhi: due lampi viola, bui e profondi come un pozzo sul suo viso latteo. Una ciocca dei miei capelli è avvolta attorno al braccio teso verso di lui, e mi scivola sulla punta del naso. Nemmeno Ivan ha i guanti, e così le nostre mani si incontrano. È proprio quando ci tocchiamo che accade qualcosa.
Sento un tremito. Una breve e veloce scossa corrermi tra le dita, fin sopra la spalla. La sua pelle è fredda, ma la sua presa è calda come una fiamma che arde. È lui a sciogliere il ghiaccio che mi ricopre come una sottile pellicola. L’acqua gocciola, portandosi dietro tutto il dolore e l’amarezza dei miei miseri sei anni di vita. Quel tocco brucia fin dentro al petto e il cuore ricomincia a battere veramente, ma non fa più male.
Adesso sono io a stringere la mano attorno alla sua. L’altro braccio si appende direttamente sulla sua giacca e io mi ritrovo ad un palmo da lui, tanto da sentire il suo fiato agitarmi i capelli.
“Sposami.”
No, non è per il pane.
 
L’orfanotrofio è buio, sporco e freddo. I letti sono piccoli, e le lenzuola e i materassi sono bucati, rosicchiati dai topi e dagli anni che passano.
Mi porto la coperta fin sotto il naso, immersa nel buio della stanzina, e mi accoccolo vicino al fianco di Ivan. Lui sta già dormendo, con la coperta tirata fin sotto gli occhi. Aguzzo la vista e il raggio di luna che filtra dal vetro, mezzo otturato dal muro di neve, illumina il viso di Katyusha, raggomitolata sull’altro fianco di Ivan.
Ci siamo solo noi tre sul materasso. Io rischio quasi di cadere di lato, e mi domando come faremo a dormire ancora insieme quando cresceremo e il letto non basterà a contenere neanche due di noi.
Affondo il viso nell’incavo del collo di Ivan, e il mio stesso fiato tiepido mi riscalda la faccia, accumulandosi sulla sua pelle. Allungo una mano sul suo fianco, da sotto lo coperte, e gliela stringo attorno al bacino, aggrappandomi all’altro suo braccio. Lui non se ne accorge e continua a dormire.
Abbasso le palpebre e mi concentro solo sui battiti dei nostri cuori.
“Non ti lascerò mai.” Mormoro, ma nessuno mi sente. Il sussurro viene ingoiato dal silenzio della stanza.   
Di nuovo quel dolce tepore che mi avvolge il petto, di nuovo quella sensazione che non ho mai provato prima, nemmeno quando mamma e papà mi abbracciavano mi sentivo così. Sbatto le ciglia un paio di volte, una ciocca di capelli mi scivola davanti agli occhi. Rannicchio una gamba vicino alla pancia, strofinandola sul materasso ruvido. 
A qualunque costo. Ti starò sempre vicino a qualunque costo.
Distendo sulle labbra uno dei primi sorrisi della mia vita e mi stringo di più sul suo petto, affondando le dita tra la stoffa dei suoi vestiti.
Tu sei mio.
  
Katyusha sfrega le dita tra di loro, annodandole e contorcendole con gesti nervosi. Tiene la fronte bassa, alcune ciocche di capelli le sono scivolate davanti agli occhi, nonostante le forcine. Da un angolo della stanzina buia e umida, la finestra proietta un debole raggio di luce che passa attraverso i granelli di polvere che aleggiano nell’aria. L’ombra nera di Katyusha si allunga sul pavimento, fino a toccare i miei piedi.
“Mi dispiace.” Dice lei, sollevando il capo.
I suoi occhi, lucidi e tremanti, incontrano il mio sguardo perso nel vuoto.
“Te l’avrei detto prima, Natalia, ma l’ho saputo solo poche ore fa. È per questo che ti sono venuta a cercare con tanta fretta.”
Io strabuzzo le palpebre, continuando a far vacillare gli occhi nel nulla. Barcollo vicino al tavolo di legno bucherellato dai morsi di tarma, e ci poso sopra un palmo della mano. Le dita mi tremano.
“Qualcuno lo... lo ha incastrato?” Domando a Katyusha.
Non la guardo negli occhi, la vista mi si è appannata. Vedo solo la sua testa scuotersi e sento la sua voce rimbombare come un eco.
“No, è stata semplicemente un’altra aggressione. La polizia lo teneva d’occhio già da un pezzo, e i suoi precedenti comportamenti che erano stati segnalati dall’orfanotrofio non l’hanno aiutato.”
La stanza gira intorno a me, il pavimento inizia a cedere sotto i miei piedi, inghiottendomi proprio come la neve che divorava le mie gambe, tanti inverni fa.
Di nuovo il gelo. Di nuovo il gelo che mi si arrampica sulle caviglie, strisciando fino al petto.
Scuoto la testa, e torno a posare gli occhi su Katyusha. È più nitida, ora, e riesco a vedere bene i lineamenti stropicciati e sconvolti del suo viso.
“Quanto lo terranno dentro?” Le domando.
Katyusha scuote la testa. “Non lo so, mi dispiace.”
Una vampata di ghiaccio mi investe l’intero corpo. Le mie labbra iniziano a tremare, la voce si arrochisce, gorgogliando dallo stomaco.
“Dove l’hanno portato?”
Katyusha scuote di nuovo la testa. “Non lo so, mi dispiace.” Sempre la stessa risposta che mi ammazza dentro.
Inarco le sopracciglia, e il mio viso si deforma in una maschera di furia, nera come la pece. I capelli mi ricadono davanti al viso, le spalle si piegano verso il petto. Lascio scivolare il coltello fuori dalla giacca e stringo il manico fino a far diventare le nocche bianche. Una scintilla argentea scorre su tutta la lama, per poi svanire quando raggiunge la punta.
I sottili crini platinati si scostano da davanti un occhio, sprigionando un lampo di tenebra.
“Allora vado a cercarlo io.”
Katyusha scatta, scollandosi dalla parete. Piega le sopracciglia in un’espressione apprensiva e si porta le mani sul petto.
“Cosa stai dicendo? Potrebbero averlo portato dovunque, non sappiamo nemmeno chi ci sia dietro.”
“E allora cercherò anche loro.” Sbotto.
Raddrizzo il capo, e la schiena si gonfia sotto il mio sospiro appesantito.
“Lo cercherò dappertutto. Caverò fuori dalla bocca di chiunque possa sapere qualcosa anche la minima informazione utile.”
Il ghigno di rabbia si deforma, e gli angoli delle labbra salgono verso l’alto, infossandosi nelle guance.
“Nessuno me lo porterà via.”
Le dita scorrono sul dorso della lama, accarezzandola con la superficie dei polpastrelli.
“Nessuno.”
 
Le manette graffiano attorno ai polsi. Mi spolpano la carne, graffiano e strappano lembi di pelle che scivola sul dorso delle mani tra rivoli di sangue tiepido. Il metallo che continua a sfregarsi sulle ferite è come un ferro rovente.
L’uomo in divisa mi preme la mano sulla testa, schiacciandomi la guancia sulla distesa di neve. Il ghiaccio mi paralizza la faccia.
Sento il suo ginocchio premere sulla schiena. Provo a ruotare un occhio all’indietro, ma la vista è coperta dai capelli che mi cascano davanti alla fronte. Un paio di scarponi neri si piazzano davanti a me, tuffandosi nel riflesso delle luci blu e rosse che lampeggiano nel tappeto bianco. È buio, il cielo è più nero della pece, e non ci sono le stelle.
Sento una voce insabbiata che gracchia qualcosa sopra di me, poi svanisce, seguita da un sottile bip.
“Hai finito di fare quello che ti pare, puttana.”
La gente farfuglia intorno a me, ma il gelo inghiotte le loro parole. Un altro paio di scarponi marcia al mio fianco, facendo scricchiolare la neve.
“... sì, sì, l’abbiamo presa. Aveva un coltello ma l’abbiamo disarmata.”
Di nuovo la voce insabbiata, di nuovo il bip.
“...no, nessuno, per fortuna. Ma questa passerà guai seri. Giuro, la sbattiamo dentro e non ne uscirà nemmeno tra cent’anni.”
L’uomo sopra di me continua a premere il peso sulle mie spalle. Il suo corpo non emana calore. È più freddo delle neve su cui sono schiacciata.
Gli altri continuano a parlare.
“...no, nessun parente, mi hanno detto. Ma a chi vuoi che interessi? Là dentro nessuno verrà a cercarla, anche se sparisse dalla circolazione nessuno se ne accorgerebbe.”
Già, nessuno.
Il freddo è ritornato. Di nuovo sola in mezzo alla neve.
La gola mi brucia, dopo tutto quello che ho urlato. Mi manca il fiato, e quell’uomo è troppo pesante. Mi abbandono, continuando a fissare le scarpe del tizio di fronte a me.
Eppure, io volevo solo...
“Certo che è pericolosa, diamine! Ma è proprio perché non sappiamo cosa le frulli in zucca che dobbiamo chiuderla, e... no, non credo che centri qualcosa con quell’altro. È stato l’orfanotrofio a informarci di entrambi ma hanno detto che non hanno legami di sangue. In ogni caso, farà la sua stessa fine...”
... che Ivan mi abbracciasse.
   
 
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