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Autore: gattapelosa    07/09/2013    8 recensioni
— Quanto vieni?— chiede.
— Settanta euro a scopata.— rispondo.— Di più per servizi extra.
Il vecchio sorride e mi apre la portiera.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Dio è morto oggi

 
 
 
 
Dio è morto oggi. Comincia a nevicare e non è ancora inverno, la temperatura cala e non me ne fotte un cazzo se sono stesa sull’asfalto ghiacciato di una strada di periferia. Spero di venir sfracellata da una bella porche gialla o dalla station wagon del tipo cui l’ho succhiato prima.
Voglio morire? Forse, ma qui sto bene. È freddo, duro e scomodo. Mi piacerebbe essere appiattita da un rullo, però, o aprire gli occhi e trovarmi stesa sul letto – il mio letto, magari. Ma per quanto ci provi, quel che vedo è solo neve, buio e asfalto. Poi, con il prendere forma lontano di due bagliori, per un momento penso che forse qualcosa di Dio ancora esista e che abbia mandato gli angeli a proteggermi. Quando però sento lo strofinio di ruote sull’asfalto capisco che non sono angeli, ma i fanali luminosi di una macchina.
Non faccio nemmeno in tempo a mettermi seduta che l’auto sbanda in un concerto di clacson e vetri rotti. Si schianta contro un albero e già so con chi se la verranno a prendere quando scopriranno che non sono morta. Per ora.
Mi alzo in piedi e comincio a correre, rimpiangendo la vecchia Fiat bianca che avrebbe anche potuto farla finita e spappolarmi direttamente. Mi lascio scivolare nella boscaglia, spero che quelli non chiamino la polizia, che non mi abbiano vista in faccia. Quando so di averli seminati prendo Via Ferrara e mi accascio contro i cassonetti. Qui non voglio morire, perché puzza e ci sono i topi, ma posso piangere e mi accontento.
Passa mezz’ora e io prendo a congelare sul serio, sui limiti dell’ipotermia credo che, dopo una giornata così, tanto vale andarsene e basta. E chi se ne frega se la location non è delle migliori, che sia l’auto o che sia il freddo, non ne vale più la pena.
Poi sento dei passi farsi strada nella neve, possono essere i ragazzi della macchina, degli estranei curiosi o anche la polizia, facciano di me quello che vogliono.
— Finalmente ti ho trovato!— dice però qualcuno. Riconosco la voce, è quella di Rebecca, e per un momento penso che forse le cose non vadano poi così male. Poi parla ancora ed è di nuovo inferno.
— Ce li hai i soldi?— chino il capo e tremo, con le lacrime che tornano a galla e il fiato corto.
— Latifah!— mi chiama.— Ce li hai quei soldi, sì o no?
Faccio segno di sì col capo e lei, sollevata, prendendomi per un braccio mi mette in piedi. Iniziamo a camminare nella neve, so dove vuole portarmi: Via Marina, al vecchio capannone, da Squalo. E io piango ancora più forte.
— Che cos’hai?— chiede Rebecca.— Perché piangi?
— Gliel’ho succhiato.— dico, in un singhiozzo.— mi ha detto che dovevo succhiarglielo se no potevo anche scendere dalla macchina.
— Succede.— risponde lei, tranquilla.— Basta che ti sei fatta pagare l’incremento.
— Gliel’ho succhiato, io.— dico ancora, preda di singulti.— E poi mi ha messo una mano sotto la maglietta e nella gonna.
— Cosa ti aspettavi? Era ovvio che…
— E poi sotto le mutandine, e poi dentro…
— Basta.
— E mi ha strappato il reggiseno.
— Ho detto basta.
— Mi ha strappato il reggiseno, mordendo proprio…
— Basta, Latifah, basta!— mi spinge e io cado a terra, battendo forte il capo, ma va bene, va benissimo, fa meno male di tutto il resto. E capisco che anche Rebecca è scossa, perché trema quanto sto tremando io, e vorrei solo continuare a parlare, ma sto zitta, piango.
— Muoviamoci, Squalo ci aspetta.— dice lei, e il resto del viaggio lo facciamo in silenzio. Non so cosa stia pensando, so solo che, se Rebecca è ancora scossa, non sarà il tempo a migliorare la mia situazione.
Il vecchio capannone di Squalo è un povero ammasso di legno, ma è grande e sempre brulicante di gente. Provo a non guardare le altre ragazze e a non pensare “Dio, sono proprio come loro”, perché ci morirei, ma fisso insistente il pavimento. Quando alzo lo sguardo sono dentro il capannone e Squalo fa segno di avvicinarsi. Penso sia il più anziano, qui: sessantacinque anni, grosso e paffuto, pelato, lardoso, lo odio. E me lo si legge negli occhi, che lo odio, perché perde il sorriso.
— Ben tornata, Latifah.— ma lo recupera subito.— Ti sei divertita?
Chino il capo e non dico niente, a un colpo di Rebecca faccio forza per trattenere le lacrime e mi ci avvicino, porgendo i soldi.
— Bene, sono contento.— dice Squalo.— D’altra parte lo sospettavo, non ho molte ragazze della tua età, e sì che siete tra le più richieste.  
— Mai più.— dico io, e questa volta fatico a non piangere.— Non lo farò mai più.
Squalo ride e io mi faccio piccola piccola, stringendo i pugni per trattenere la rabbia, serrando gli occhi per trattenere le lacrime.
— Sì, dicono tutte così, ma poi chi darà da mangiare ai tuoi fratelli, alla tua famiglia? Cosa pensi che dirà tuo padre?
— Papà non vuole questo da me.
— Tuo padre ha voluto trasferirsi in Italia senza un soldo. L’ha fatto perché sapeva di poter contare su di te, ma voi puttane della Sierra Leone non sapete stare al vostro posto! Hai fatto soldi, ora torna al lavoro! E se osi anche solo pensare di mollare tutto, sappi che ti ammazzo, e che ammazzo pure tuo padre!
E allora inizio a piangere sul serio. Quando siamo venuti a vivere in Italia si parlava di sogni e speranza, poi sono subentrati i problemi, l’abisso, l’affitto troppo alto, il cibo troppo caro. Squalo e le sue false promesse sono parse come ancore di salvezza, ci siamo affidati alla sua bontà fittizia e ora ne paghiamo tutti le conseguenze. Nessuno aveva mai parlato di prostituzione, ma fatico a credere che papà non sappia. Lui vuole che io mi venda.
— Torna in strada.— ordina Squalo, io obbedisco.
Davanti il capannone circolano le macchine dei nostri clienti: dobbiamo disporci in fila, sorridere e sperare di non essere scelte. Alcuni potrebbero anche sembrare brava gente, tra Mercedes, cravatte e fede al dito, altri puzzano di pesce rancido, guidano decapottabili fuori licenza e sbavano per un po’ di figa. Il mio primo cliente avrebbe anche potuto essere catalogato come un’elegante via di mezzo, prego che per secondo non ne esca il pescivendolo pervertito.
Rebecca sta di fianco a me, non mi parla e non mi sorride; con le altre condivido la pelle scura, un passato angosciante e tragiche responsabilità, e ancora non riesco a ritenermi parte del loro insieme. Non so nemmeno come si chiamano, hanno tutte quattro o cinque anni più di me, ma riuscirò ad ottenere più clienti di loro. Non riesco a capirne il motivo, ma so di essere odiata, per questo.
La prima macchina si ferma proprio di fronte a me. Abbassa il finestrino e vi scorgo dentro un rispettabile quarantenne, sposato ed elegante. 
— Quanto vieni?— chiede.
— Settanta euro a scopata.— rispondo.— Di più per servizi extra.
Il vecchio sorride e mi apre la portiera.
— Salta su.
Non esito, perché tanto so già come andrà a finire. Penso che dopo averlo fatto già una prima volta la seconda sarà comunque più facile, ma ho il cuore che non smette di battere e il respiro in fibrillazione.
“Mantieni la calma” aveva detto Rebecca. “Non lasciare che siano loro a comandare, devi essere tu quella forte”.
Quando mette in moto faccio forza per rimanere impassibile, cercando di concentrare tutte le mie attenzioni sul parabrezza sporco. Penso alla neve e a quanto freddo faccia fuori, penso a mia madre e al suo stufato di verdure, penso ai miei fratelli che giocano nel cortile, penso a tante cose, ma l’agitazione non se ne va.
— Allora, come ti chiami?— chiede lui.
— Latifah.— rispondo, e di nuovo provo a concentrarmi sui fiocchi di neve.
— Io Piero. Quanti anni hai?— questo è più chiacchierone dell’altro, infastidisce. Non mi sta portando al parco giochi, non sono sua nipote, non ha motivo di trattarmi così.
— Quattordici, appena compiuti.— rispondo comunque, pregando che la smetta.
— Io ho una figlia di dodici anni, si chiama Claudia, vuoi vederla?— ormai ha parcheggiato nella boscaglia, neanche troppo distante dal capannone, e si sporge per prendere il portafoglio. Nella tasca superiore custodisce una foto stropicciata della piccola Claudia, felice nel suo vestitino bianco, con un piccolo barboncino sulle gambe e uno splendido cerchietto blu. Ho sempre voluto un cerchietto blu.
— È bellissima— dico.— Sembra proprio una principessa.
In realtà vorrei chiedergli cosa ci viene a fare con me se a casa ha una bambina così bella da coccolare come padre e non da amante pervertito, ma evitare certe domande è stata una delle prime raccomandazioni di Rebecca.
— Anche tu sei bellissima.— dice. Poi sento la sua mano carezzarmi lasciva una gamba e m’irrigidisco.
— Devi prima pagarmi.— tento di giustificarmi, spingendo via la mano. — Settanta euro, se ti accontenti di una scopata.
— Sei costosa.— sorride, tirando fuori i soldi. Come suggerito da Rebecca li nascondo nella scarpa.
— Ora possiamo procedere?— e non aspetta risposta, con la mano che accarezza le calze sottili, fin sotto la gonna. Io chiudo gli occhi, provando a immaginare l’amata Sierra Leone, i giochi, gli amici, ignorando come meglio posso le mani e la bocca del porco. Non piango perché non ha più senso piangere, non guardo perché farebbe troppo schifo, lascio che mi trascini sui sedili posteriori, che mi lecchi, mi spogli, mi prenda. Non fa meno male della prima volta. Sento d’essere vuota, ormai, e mi angoscia il pensiero che presto ne arriverà un altro, e un altro ancora, e un altro ancora. E che quando tornerò a casa mamma a papà saranno fuori per lavoro e io non li rivedrò fino a domani, e così sempre. Ho perso tutti i miei amici della Sierra Leone, non vado a scuola, faccio schifo. La mia vita fa schifo.
Quando finalmente riesce a venire e mi s’accascia addosso, sudato e ansimante, Piero prende a carezzarmi dolcemente i capelli. Mi viene da vomitare.
— Sei stata brava.— dice lui. — Ti voglio fare un regalo.
Rialzandosi prende il portafoglio e mi porge una banconota da dieci euro.
— Questi sono per te, nascondili al tuo padrone.
Dieci euro non risolleveranno le sorti della mia esistenza, ma ringrazio, nascondendo i soldi nelle scarpe. Ci rivestiamo il più velocemente possibile, e non importa se questo sconosciuto mi ha già vista nuda, devo coprirmi. Quando sono pronta esco dalla portiera della macchina.
— Vai via così?— chiede Piero.— Ti posso riportare indietro, se vuoi.
— Non serve.— rispondo.— Torna da tua figlia.
Chiudo la porta e mi allontano lungo il ciglio della strada, la sua macchina gira nella direzione opposta, non lo vedo più, sono sola.
Trovo faccia ancora più freddo di prima, ma non riesco a concentrarmi su niente, voglio solo andare a dormire. Una decina di passi più tardi mi lascio scivolare per terra, in mezzo alla strada, e penso alla neve d’autunno, all’asfalto gelato e al cielo povero di stelle. Mi piacerebbe essere appiattita da un rullo o chiudere gli occhi e trovarmi stesa sul letto – il mio letto, magari. E invece tutto quello vedo sono neve, buio e asfalto.
Vorrei morire? Forse, ma qui sto bene. Tanto oggi è morto anche Dio.
 



Bacheca dell'autrice


Avrei dovuto pubblicarla un po' di tempo fa, ma causa problemi più grandi di me, non ho avuto tempo. Bene, ora ho tempo. Già detto che il racconto partecipa a quel contest, no? Bene. Ecco il link: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10653267
Spero vi piaccia. 



 
  
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