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Autore: okioki    08/09/2013    1 recensioni
A San Pietroburgo, da dove vengo io, quando incomincia a nevicare la temperatura cala drasticamente a trenta gradi sotto zero, e a quella temperatura tutti i batteri muoiono: nemmeno i perfidi Psicrofili possono resistere..
Genere: Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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I
 
 
A San Pietroburgo, da dove vengo io, quando incomincia a nevicare la temperatura cala drasticamente a trenta gradi sotto zero, e a quella temperatura tutti i batteri muoiono: nemmeno i perfidi Psicrofili possono resistere.
Oggi, ogni volta che guardo dalla finestra dei miei alloggi una bufera di neve, mi viene in mente questo piccolo, asettico particolare: nemmeno gli Psicrofili possono resistere. Non so bene quando sia nata questa abitudine, quella di aspettare che il mondo si colori di bianco e che l'aria raschi la gola per il freddo, ma è da ormai qualche tempo che non perdo mai il piacere di vedere i tetti a spiovente delle case ricoperti di neve, l'asfalto coperto di neve, le macchine, le astronavi, le cassette della posta, gli alberi, le motociclette, i bidoni, i cadaveri degli animali, i barili di scorie, i fiori... Ogni cosa si deve a lei, infine, e forse alle parole che mi rivolse per spiegarmi gli strani meccanismi che agivano nella sua mente:
 
L'aria si risana, e attorno, la strada diventa ammantata di bianco... come prima della contaminazione.
 
L'altro anno, quando tornai dall'Ovest dopo l'università, la mia mente era proiettata sui ricordi dell'adolescenza, e la mia unica ambizione era quella di trovare il mondo immutato, uguale all'ultima fotografia scattata nella mia mente al momento del mio addio. Ma era tutto cambiato: non c'era più la neve. Un sole pallido riscaldava la città dai suoi meandri più bassi fino alle alte guglie, e mi ci volle una sola occhiata per capirlo. Il tempo funge da anestetizzante, e anche se avvolte il freddo rende i batteri nella mia anima solo latenti, credo almeno di riuscire a parlarne, a ricordare.
Sono nato in una famiglia benestante dello stato, diciamo che si poteva posizionare fra la terza e la seconda casta di purità alta, e questo per generazioni aveva aumentato il nostro ego e ci aveva reso gente orgogliosa e onorevole e detestabile. Io avevo preso il mio nome da mio “zio”, un certo Aleksej, perché tutti mi dicevano che da bambino gli somigliavo. Non che l'abbia mai visto, gli unici residenti a Pietroburgo del ramo degli Schoning eravamo io e mio padre e mia madre. Sapevo soltanto che c'era stata molta amicizia tra questo Aleksej e mio padre, e che una volta, durante un combattimenti a laser e pistole contro dei pirati spaziali, Aleksej gli aveva addirittura salvato la vita. Da noi se ci si trova in diverse zone marginali non si usa andar a far visita: le condizioni climatiche sono già un ostacolo di per sé e poi ci sono quei terribili cannibali che appena esci da una delle zone sei esposto a loro. Quindi per ovvie ragioni, a meno che non si vivesse nelle stesse zone, nessuno si andava a trovare. Sapevo che mio padre, Vasilij Schoning, soffriva molto della lontananza dell'amico, e se non fosse stato per la mamma, credo che non avrebbe esitato a partire immediatamente per andare a vivere con Aleksej. Mia madre di lasciare San Pietroburgo non ne voleva nemmeno sentir parlare: era Natal'ja Onegin, l'ultima superstite di qualche famiglia reale dell'Antica Russia - come ci ripeteva spesso – e i suoi avi erano vissuti in quella città per mille anni e molto di più. Non credo che sapesse nemmeno lei cosa dicesse, ma si era impuntata tanto da non voler lasciare la città a nessun costo.
Fu la sua ostinazione che ci portò alla rovina.
Correva l'Ultimo Inverno, e in quegli anni vivere a San Pietroburgo come civiltà avanzata era diventato impossibile. La temperatura raggiungeva i centoventi gradi sotto zero, e a quella temperatura nemmeno le astronavi erano agibili. Mio padre fin da giovane aveva curato gli affari della Lega Intergalattica degli Astronauti, prima da commilitone con Aleksej, poi da pilota di astronavi. Ci metteva il cuore nel suo lavoro, e una volta o due all'anno, mi portava a fare il giro dell'Ovest con lui, fino alla Base. Con l'arrivo del grande freddo non fu più possibile, San Pietroburgo fu limitata a succursale e tutte le astronavi furono riciclate perché “inutilizzabili”, e i piloti che si trovavano lì liquidati. Fu un duro colpo per mio padre, ma nonostante tutto mia madre era irremovibile: saremmo rimasti a San Pietroburgo, la città dei suoi avi. Nemmeno l'isolamento dal resto della comunità Interspaziale servì a far redimere mia madre dai suoi intenti, piano piano la città fu abbandonata da molte famiglie, che si spostavano perennemente in zone più abitabili. La città si spopolò, e solo poche famiglie rimasero. San Pietroburgo fu totalmente dimenticata dalla Lega Intergalattica degli Astronauti, che non mandò più altri veicoli, né piloti- esploratori, e forse fu proprio questo che portò mio padre a fare ciò che fece. Ricordo le ultime parole che mi disse, non erano per me né per mia madre, ma rivolte al suo indimenticabile compagno di vita, Aleksej:
 
Aleksej è un bel nome. Ricordati di salutare il mio amico... quando si deciderà a passare di qui.
 
Dopodiché si sparò nelle cervella un raggio laser, che sparse per tutta la stanza pezzi delle sue interiora bruciacchiate, e sangue. Aveva un sorriso da pazzo mentre diceva quelle cose.
Mia madre non si disperò: lei era di sangue reale e non poteva piangere. In compenso piansi io per tutti e due: piansi per quell'uomo dal volto allungato, dai capelli corvini e gli occhi neri, per l'ultimo pazzo sorriso che mi aveva rivolto, per tutto... e perché in me dei suoi lineamenti non era passato proprio niente. Sapevo che presto avrei dimenticato il suo volto e fu proprio ciò che accadde. Più tardi, qualche anno dopo, l'Ultimo Inverno ebbe fine, le nevicate ritornarono ad essere rare come gli alberi e la temperatura si stabilizzò a tredici gradi sotto zero; eppure nessuna delle famiglie che era andata via ritornò indietro e nemmeno un'astronave solcò più i nostri cieli. Al loro posto venne gente che mia madre definiva col termine cygany, e capendo, o fingendo di capire quel lessico arcaico, ne rimase indignata: erano la nuova borghesia.
 
Con la mancanza di approcci con l'Interspaziale, San Pietroburgo divenne un microcosmo, una piccola comunità con regole a sé stanti. Ci ritrovammo a vivere come i nostri avi, senza più astronavi e viaggi spaziali, con le poche armi laser che ci erano rimaste. Riesumammo le automobili dal centro storico e con quelle almeno la città ricominciò a girare. Non so chi iniziò, da noi prima dell'Ultimo Inverno le automobili erano considerati dei mezzi da zoticoni ma in poco tempo questa divenne una vera e propria epidemia. Solo Natal'ja Onegin, mia madre, guardava con diffidenza le macchine a quattro ruote ritenendole bislacche e fuori moda. Per molto tempo, infatti, continuammo a vivere isolati come prima della venuta degli cygany. Mia madre era troppo aristocratica per poter camminare: si limitò a tirare fuori dal garage una slitta e ad accogliere a casa nostra qualche lupo randagio; usufruiva della slitta durante i giorni di nevicata per poter andare all'opera o alle battaglie tra lupi. Il resto era lasciato alla nostra domestica, che andava a piedi – mia madre non le concedeva di usare la macchina, per quanto lei sì, poteva camminare – a fare le nostre compere. Vivevamo come delimitati da una delle zone radioattive. Un giorno però uno dei lupi di mia madre mi morse e mi presi la rabbia radioattiva. Non ricordo molto di quel periodo, prima di allora ero molto simile a mia madre come mi dissero in seguito. I miei capelli biondi cominciarono a cadere, lasciandomi il cranio coperto da una rada peluria bianca, il mio occhio sinistro perse i suoi colori e rischiò di diventarmi cieco. Ogni tanto, specie quando mi arrabbiavo, i muscoli del mio corpo s'irrigidivano e poi, d'un tratto, incominciavo a dimenarmi come un pazzo, in preda alle convulsioni. Spesso dalla bocca, senza che io volessi, sbavavo senza contegno saliva rossa con una miriade di bollicine, e le mie labbra si piegava in strane smorfie. Mia madre fu costretta ad abbandonare la sua diffidenza verso la nuova San Pietroburgo e mi fece ricoverare nell'Ospedale. Mi misero in quarantena e rimasi addormentato per oltre un anno mentre sperimentavano farmaci su di me cercando di farmi guarire.
Il giorno in cui mi risvegliarono, nevicava.
Mi sentivo già vecchio. Come se avessi avuto dalla vita, tutto ciò che poteva darmi. Il corpo rachitico e la pelle diafana mi pesavano incredibilmente, non riuscivo a alzare un braccio senza sentire un preoccupante scricchiolio delle ossa e vedevo il mondo con una sensibilità visiva molto acuta.
Era tutto bianco, dalla stanza alle strade ricoperte di neve, accecante. Mia madre venne a prendermi con la sua slitta trainata dai lupi, ma io non avevo paura di quelle bestie che mi avevano causato tanta sofferenza, anzi, mi affascinavano. Natal'ja era coperta nella sua pelliccia d'orso, e parzialmente felice mi accolse con un abbraccio goffo. Non ero più proprio suo figlio, ma sapeva che in un tempo che sembrava remoto – e lo sapevo pure io – mi aveva voluto bene perché ero simile a lei. Mi regalò un cappello sintetico, per non lasciar esposte le mie calvizie al freddo. Continuava a nevicare, e facevano trenta gradi sotto zero, mentre slittavamo per arrivare a casa. San Pietroburgo si era come ripopolata, gli cygany avevano riportato la vita in una città ormai regredita. Stranamente, mia madre Natal'ja salutava e sorrideva a queste persone che un anno fa aveva detto di detestare. Alzava la manina munita del bracciale scaldapelle e sorrideva  come solo lei sapeva fare. "Hai visto l'ultima battaglia di lupi? Andrai al teatro per vedere l'opera di quell'antico, antichissimo poema, Natal'ja...?" “È tuo figlio? Spero si sia rimesso!” le dicevano in molti, e mia madre allora pretendeva che mi presentassi, quando per quanto ero stordito non sapevo con certezza nemmeno il mio nome. E poi ripartivamo, loro e mia madre tutti felici, tutti col sorriso in bocca. Fu durante uno di questi scambi di cortesie per strada, vicinissimo alla volta di casa nostra, che la vidi per la prima volta. Quello è il pensiero meno nitido di tutta la mia vita, che però ancora oggi mi rimane impresso. Ero bianchissimo, dopo il ricovero, eppure lei era ancora più bianca, più pallida di me. Stava lì, nel cortile di casa sua, immobile, inquietante, sulla neve. Fu questione di un attimo: mia madre diede ai cani l'ordine di partire, e svoltata la strada non c'era più. Una volta tornato a casa dovetti abituarmi. Trovai un uomo giovane, dai capelli bruni e l'aspetto spettrale ad aspettarmi, con un camice e degli occhiali antichi che aveva preso il posto di mio padre. Era il nuovo uomo e marito di mia madre, uno cygany ricco e potente nella comunità. Svolgeva il lavoro di esattore – anche se solo molto tempo dopo capii che ciò non era collegato con le tasse dello stato – e aveva comprato parte dell'Ospedale. Si chiamava Pavel Platonov.
Il quadro iniziale è ora completo, gli avvenimenti s'incastrano perfettamente come nella realtà: adesso posso parlare di lei, alla quale devo il particolare degli Psicrofili ogni volta che guardo il mondo dopo una bufera di neve.
 
 
 
  
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