PROLOGO
Fin dalla mia nascita, non ero mai uscita dai confini del
mio villaggio.
Attorno alla
palizzata di legno che aveva sempre delimitato il nostro piccolo mondo si
estendevano fitte foreste e montagne innevate, dove, a sentire i racconti degli
anziani, dimoravano mostri spaventosi e animali feroci.
Tuttavia, pochi
mesi prima, qualcosa era riuscito scuotere la monotonia e la triste
quotidianità della nostra comunità, e durante una bufera di neve assistemmo ad
uno spettacolo incredibile. Le nuvole nere sembrarono aprirsi sotto la spinta
di una grande luce dai mille colori che, scendendo lentamente, giunse a lambire
il terreno, come una porta collegata con il paradiso, e così rimase per almeno
due minuti prima di scomparire nuovamente inghiottita dalla tempesta.
Il grande bagliore
aveva toccato terra a circa dieci miglia dall’ingresso del villaggio, lungo la
grande dorsale a ovest; in quella zona si trovava un lago, e sulle sue rive una
casetta abbandonata. Si raccontava che fosse stata la dimora di un pescatore e
della sua famiglia, che però erano stati assaliti e divorati dal mostro del
lago per aver osato violare il suo territorio.
Voci e dicerie
cominciarono a girare sul conto di quel misterioso quanto incredibile avvenimento:
qualcuno diceva che era il presagio dell’imminente fine del mondo, qualcun
altro che fosse segno di un prossimo, sconvolgente cambiamento.
Da bambina di otto
anni quale ero, dentro di me ero convinta che dovesse trattarsi di lui,
dell’Angelo Bianco. Il vecchio Pete mi raccontava quella favola da sempre, e
ogni volta che la sentivo qualcosa sembrava accendersi dentro di me, ma
pensandoci ora credo che fosse solamente il frutto della mia immaginazione.
Purtroppo,
qualcosa di ben peggiore stava per sconvolgere la nostra esistenza.
Una mattina di
metà inverno, una banda di briganti che da tempo imperversava nella regione
giunse al nostro villaggio; eravamo sempre stati gente pacifica, nessuno di noi
aveva neanche mai impugnato una spada o utilizzato un incantesimo, quindi non
fummo minimamente preparati a respingerli.
Loro però non si
accontentarono di saccheggiare le nostre case; il loro capo, un certo Grox,
brutto come un orco, con il volto devastato da una orrenda cicatrice e grasso
come un maiale, aveva preso possesso della casa del sindaco, trasformando di
fatto il nostro villaggio nel suo quartier generale, da cui pilotava tutte le
sue scorrerie.
I suoi uomini si
aggiravano sempre per le strade facendo tutto quello che più gli andava di
fare: rubavano dai pollai, depredavano i granai, e se solo qualcuno osava
sollevare una parola di protesta veniva picchiato selvaggiamente fin quasi a
morire.
In quel clima di
rassegnazione e di sottomissione nessuno aveva voglia di pensare che un giorno
sarebbe arrivato qualcuno a liberarci da quell’incubo, ma io invece volevo
continuare a crederci, nonostante tutto, e quindi mi recavo sempre più spesso a
casa del signor Pete per ascoltare le sue storie di audaci cavalieri e potenti
stregoni che difendevano la gente comune dalla tirannia.
Da giovane aveva
servito nell’esercito reale e aveva girato tutto il continente, una cosa molto
insolita per la gente del nostro villaggio, che invece si accontentava di
esplorare quelle quattro o cinque miglia oltre la palizzata.
Una sera, sedevo
come al solito assieme a lui davanti al fuoco del camino sorseggiando una tazza
di latte caldo, l’ideale per scacciare il freddo dell’inverno.
«Signor Pete.»
chiesi ad un certo punto «Potrebbe raccontarmi di nuovo la storia dell’Angelo
Bianco?»
«Ti piace proprio
quella storia, eh?».
Furono le mie
guance rosse a rispondere per me.
«D’accordo.» mi
rispose lui, sorridendo sotto la sua folta barba grigia «Si racconta che,
migliaia di anni fa, quando era ancora un piccolo principato, il nostro regno
fosse costantemente attaccato da tutti i suoi vicini. Il principe non poteva
fare nulla per opporsi a così tanti nemici, quando un giorno, dal cielo, giunse
un misterioso visitatore proprio nel suo palazzo. Disse di essere giunto fino a
lì per guidare il regno di Fiya ad una nuova e grandiosa rinascita. Il principe
gli concesse il comando di tutti i suoi eserciti, alla testa dei quali riportò
innumerevoli vittorie, così grandi e così schiaccianti che i soldati nemici
scappavano alla sua vista, rifiutandosi di combattere. In meno di un anno Fiya
fu libero, e l’Angelo Bianco, così era stato chiamato, scomparve come era
venuto, promettendo però che sarebbe ritornato ogni qualvolta che i molti
avessero minacciato i pochi con la loro prepotenza.»
«Ma chi era questo
angelo? Era forse un inviato del cielo?»
«Chi può dirlo?
Chi lo ha conosciuto raccontava che era un uomo qualsiasi, come te e me, ma che
vi fosse sempre una parvenza di tristezza sul suo viso. Qualcuno sostiene che
provenisse da un altro mondo, un mondo distante e irraggiungibile, e che
l’unica cosa a cui davvero aspirava era di poter ritornare a casa.»
«Quindi, quella
luce che abbiamo visto… poteva essere lui. L’Angelo Bianco che è venuto per
liberarci.»
«Forse. Chi può dirlo.
È certo però che fino a quando ci saranno delle popolazioni oppresse dal giogo
della prepotenza e della paura, la leggenda dell’Angelo Bianco non morirà mai».
A quel tempo ero
solo una bambina, e volevo credere con tutto me stessa a quella storia, ma più
il tempo passava più i miei compagni perdevano la speranza, diventando
pessimisti e irascibili anche fra di loro.
«Quando ti
deciderai a crescere?» mi disse un giorno Cily, una ragazza di sedici anni «Ma
vuoi metterti in testa sì o no che l’Angelo Bianco è solo una favola? Non c’è
nessun Angelo Bianco che verrà a salvarti! Siamo soli!».
Ormai anche io
cominciavo a perdere la speranza, ma un sogno che feci in una notte di fine
inverno riaccese in me nuove speranze. Sognai una giovane donna di grande
bellezza dai lunghi capelli turchesi; indossava un’armatura bianco sfavillante
sormontata da una corona, una tunica chiara e recava in mano un lungo scettro
d’oro tempestato di pietra preziose.
La riconobbi:
ricordava molto la statua presente in molti villaggi che personificava il
nostro regno.
Mi disse di andare
sulla grande dorsale, alla casetta in riva al lago, perché lì avrei potuto
incontrare l’Angelo Bianco che ci avrebbe finalmente liberati dal giogo dei
briganti.
Mi svegliai alle
prime luci dell’alba e decisi subito di non attendere oltre; avrei raggiunto
quella casa e avrei chiesto aiuto all’Angelo Bianco a qualunque costo.
Scesi dal letto in
punta di piedi, e senza svegliare mio padre presi da uno scaffale della cucina
un ciondolo a forma di cuore, l’unica cosa che mi restava di mia madre.
Il vecchio Pete mi
aveva raccontato che l’Angelo Bianco non concedeva i suoi servigi
gratuitamente; in cambio di ciò che faceva chiedeva al suo committente la cosa
a cui teneva di più al mondo. Perché questa insolita richiesta? Pete sosteneva
che l’Angelo Bianco soffrisse per amore, un amore lontano, e che quindi
cercasse di colmare il dolore che aveva dentro circondandosi delle
manifestazioni di affetto altrui.
Indossai gli abiti
più pesanti che mi riuscì di trovare ed uscii. In un angolo nascosto della
palizzata c’era una trave che poteva essere rimossa, rivelando un passaggio
abbastanza grande da far passare una bambina di corporatura minuta come ero io;
questo mi permise di aggirare l’ostacolo del portone chiuso e perennemente
sorvegliato dai briganti, per evitare che qualcuno di noi potesse evadere.
Corsi a perdifiato
lungo i fianchi della montagna, attraverso gli alberi, incurante del freddo e
della fatica; per ogni istante che passava mio padre e tutti i miei amici
soffrivano terribili umiliazioni, e se c’era una possibilità anche minima di
poterli salvare volevo coglierla ad ogni costo.
Molto presto però
le mie speranze andarono a infrangersi contro una fortissima tempesta di neve
che si abbatté su di me dopo neanche quattro miglia di cammino.
Il vento era
fortissimo, gelido, la neve mi entrava negli occhi, congelandomi il naso,
screpolandomi le labbra; più il tempo passava più faticavo a muovere i piedi, e
mi sentivo sempre più stanca. Già allora conoscevo gli effetti che il freddo
poteva avere sulle persone, quindi sapevo che qualunque cosa fosse accaduta per
nessun motivo al mondo avrei dovuto addormentarmi, perché questo avrebbe
significato senza ombra di dubbio la morte.
Purtroppo però ero
impotente di fronte alla forza della natura, e quando credevo che i miei
problemi fossero già insormontabili ne sopraggiunse un altro, molto più
spaventoso.
Dapprima erano
solo ombre, poi occhi scintillanti, ma alla fine uscirono dai loro nascondigli
fra i cespugli e mi circondarono.
Lupi giganti,
molto più grandi dei normali lupi, generalmente schivi e riservati, che però il
freddo dell’inverno trasforma in mostri affamati di carne di qualsiasi tipo. Si
spostano in branchi, che arrivano a contare anche trenta esemplari, e quello
che mi aveva quasi circondato era composto almeno da una ventina di individui.
Per qualche
istante rimasi immobile a tremare di paura, ma non appena accennai una fuga uno
di loro mi saltò addosso, spingendomi giù da un crinale. Rotolai sulla neve per
diversi metri, e quando finalmente un albero arrestò la mia caduta capii che
dovevo essermi slogata una caviglia.
I lupi tornarono
alla carica, ed io, sempre più incosciente, mi augurai solo di essere già priva
di sensi quando avessero iniziato a divorarmi. Pensai a mio padre, al signor
Pete, a tutte le persone che mi avrebbero cercata, e che io avevo deluso.
Quegli animali
intanto mi avevano nuovamente attorniata, ma quando il capobranco cercò di
aggredirmi un’ombra comparve dalla tempesta dinnanzi a me.
Tutto ciò che mi
riuscì di distinguere fu una spada bellissima, dalla lama specchiata, con un
un’impugnatura d’avorio a forma di testa d’aquila.
La spada saettò
velocissima nell’aria e il lupo si accasciò a terra con il torace squartato. I
suoi compagni indietreggiarono leggermente, ringhiando e digrignando le fauci,
ma poi si lanciarono a loro volta all’attacco verso la loro nuova vittima; e
lui ne fece strage con incredibile agilità, tingendo la neve di sangue, e quando
il decimo lupo cadde senza vita i superstiti si diedero alla fuga.
L’ultima cosa che
vidi prima di svenire fu il volto di un giovane, contornato da capelli scuri,
che, inginocchiandosi davanti a me, mi chiese.
«Stai bene?».
Non so per quanto tempo rimasi priva di conoscenza; ore
forse, o magari un giorno intero, ma quando mi risvegliai la prima cosa che
avvertii fu il caldo tepore di un caminetto acceso.
Ero distesa su di
un letto morbido all’interno di quella che sembrava una capanna, in cui il mobilio
si limitava ad un tavolo, un paio di sedie e un ripiano; qua e là erano
accatastate pile di libri, sulla parete invece erano appesi, tramite dei ganci,
la spada che avevo visto in mezzo al bosco e un magnifico arco scintillante.
Mettendomi a
sedere sul letto fui in grado di guardare oltre la finestra, così scoprii che
mi trovato proprio nella casetta sulle rive del lago.
Ce l’avevo fatta.
Avevo raggiunto la casa, ma… chi mi aveva aiutato ad arrivare fin laggiù?
Avevo dei ricordi
molto vaghi di quello che era successo nel bosco, e l’unica cosa che ricordavo
era quel volto gentile, bellissimo.
Cercai di alzarmi,
ma non mi riuscì di muovere il piede, e guardando sotto le coperte mi accorsi
che la caviglia che mi ero slogata era stata accuratamente fasciata e
immobilizzata con una stecca.
Stavo ancora
cercando di ricordare bene cosa era successo quando la porta si spalancò;
dapprima, spaventata, mi tirai addosso le coperte, ma quando vidi entrare un
giovane dal viso gentile, abbellito da una folta capigliatura nera, subito mi
calmai.
Indossava degli
abiti molto strani, e strani era dire poco; non sembravano fatti di pelle o di
un qualche genere di tessuto che io conoscessi, soprattutto i pantaloni, lisci
alla vista ma ruvidi al tatto, di un colore azzurro scuro.
Anche le sue
scarpe erano curiose. Al collo portava una catenella con un pendente a forma di
stella circondato da un serpente che si mordeva la coda.
Se era strano ciò
che indossava, ancor più strana era la sua espressione; sembrava triste,
proprio come Pete aveva detto parlando dell’Angelo Bianco; tuttavia, si poteva
scorgere una grande gentilezza nei suoi occhi.
Appena entrato si
volse a guardarmi.
«Ti sei
svegliata».
Non riuscii a
rispondere; lui si avvicinò a me e mi tastò la fronte.
«Per fortuna la
tua temperatura è tornata normale. Stavi per morire di freddo, sai? Ma cosa ci
facevi in mezzo alla foresta con un tempaccio simile?».
Di nuovo rimasi in
silenzio, un po’ per paura un po’ per sconcerto. Lui allora si rialzò, si avvicinò
al camino e sollevò il coperchio della pentola che ardeva sul fuoco, riempiendo
la stanza di un piacevole odore di cereali, un bene raro in quella stagione.
Non riuscivo a
capire; per la bambina che ero mi ero immaginata l’Angelo Bianco come un uomo
ai limiti del divino, e invece sembrava proprio un ragazzo come chiunque altro;
però, qualcosa dentro di me mi diceva che era proprio lui la persona che stavo
cercando.
Dopo aver preso
una ciotola di terracotta vi versò un po’ della zuppa che stava cuocendo e me
la porse.
«Tieni, mangia.
Immagino che avrai fame».
I briganti al
villaggio si erano portati via tutto quello che avevamo, e ci eravamo ridotti a
mangiare miglio come gli animali, e non appena mi portai alla bocca il primo
cucchiaio mi sentii in paradiso, ma il poter gustare una simile prelibatezza
riportò subito alla memoria il motivo per cui ero arrivata fin lì.
Senza curarsi
della propria parte di cena si sedette e cominciò a leggere avidamente un
vecchio libro; doveva essere un volume di magia, a giudicare dalle figure che
vi erano riportate.
Alla fine mi feci
coraggio e parlai senza fermarmi, per evitare che la paura potesse bloccare a
metà il mio discorso.
«Vi prego.» dissi
«Salvateci. Liberate il mio villaggio dai briganti. Sono pronta a darvi ciò che
ho di più prezioso, ma vi prego, aiutateci».
Dopo aver
pronunciato queste parole gli porsi il pendente che avevo portato con me. Lo
guardò.
«Era di mia madre.
È morta due anni fa. Questo ciondolo è tutto ciò che mi rimane di Lei. Ma sono
pronta a darglielo se accetterà di aiutarci».
Lo prese e lo
osservò attentamente, rigirandoselo tra le mani.
«È un oggetto
molto prezioso. Perché vuoi darlo a me?»
«Dicono che Lei,
in cambio dei suoi servigi, vuole la cosa che per una persona ha il maggior
valore.»
«Davvero dicono
questo?»
«Beh… sì.»
«Capisco».
Lui posò sia il
libro che il ciondolo, si alzò dalla sedia e prese la spada appesa al muro,
sguainandola.
«La vedi? Questa
spada ha sparso tanto sangue. Ho fatto a me stesso una promessa. Ho giurato su
questa spada e su colui che me l’ha donata, che mai più avrei ucciso qualcuno
se non in caso di estrema necessità. Quindi ora, rispondimi sinceramente. Vuoi
davvero che io combatta quegli uomini, col rischio di ucciderli?».
Ripensandoci
adesso, credo che la mia risposta fu dettata in gran parte dal pensiero di
tutte le sofferenze che sia io che i miei amici avevamo vissuto, e comunque già
allora, per quanto piccola e ingenua, consideravo briganti e simili più bestie
che esseri umani, degni solo di morire.
«Sì!» fu la mia
sola parola.
Nel frattempo, al villaggio, i briganti continuavano
imperterriti nelle loro angherie, e un brutto giorno a subirne le conseguenze
fu la mia amica Cily. Stava portando in casa l’acqua presa dal pozzo quando tre
brutti ceffi la circondarono, iniziando a molestarla, dapprima con parole
pesanti, poi con la forza.
Afferratala, la
gettarono a terra, e mentre due la tenevano ferma il terzo si slacciava lo
spago dei pantaloni.
Cily gridava con
tutta la sua voce, ma la gente che in quel momento era fuori all’aperto non
osava intervenire; qualcuno si limitava a guardare stando a distanza, qualcun
altro invece la ignorava totalmente continuando a svolgere le proprie
occupazioni.
Il brigante si era
quasi abbassato i pantaloni quando una freccia ad energia lo colpì in pieno,
stordendolo, uccidendolo sul colpo. I suoi compagni, attoniti, mollarono Cily e
sguainarono le spade, ma prima che potessero usarle l’Angelo Nero calò su di
loro dal cielo e li sconfisse senza nemmeno servirsi delle sue armi, a mani
nude.
Quando arrivai sul
luogo dell’aggressione, sempre passando per il mio percorso segreto, lui li
aveva già sconfitti tutti, e stava aiutando Cily a rialzarsi.
«Tutto bene?» le
chiese «Sei ferita?»
«Io… ecco…»
«Lia!» disse mio
padre
«Papà!»
«Ma dov’eri
finita? Ero così in pensiero.»
«L’ho trovato
papà. Esiste davvero.»
«Di che stai
parlando?»
«Lui è l’Angelo
Bianco!»
«Cosa!? L’Angelo
Bianco!?».
Molti dei presenti
rimasero senza parole, ed un brusio confuso cominciò a diffondersi; purtroppo
però, la maggior parte dei commenti erano tutt’altro che favorevoli a quanto
era appena successo.
«Perché lo ha
fatto? – Ora si vendicheranno – Ci uccideranno tutti».
Non mi sembrava
possibile che le persone con cui avevo vissuto fin dalla nascita fossero cadute
così in basso; lui aveva salvato una loro compagna, e loro, invece che
ringraziarlo, sembrava quasi che volessero punirlo.
«Questo ci costerà
caro!» disse infine una donna «Adesso quei briganti vorranno vendicarsi!».
A lei si unì
presto un coro di voci.
«Ha ragione! Non
avresti dovuto intrometterti!»
«Vattene da questo
villaggio!»
«Lasciaci in
pace!».
Improvvisamente,
dal folto della folla qualcuno scagliò una grossa pietra in direzione
dell’Angelo Bianco, che rimase immobile e non fece nulla per evitarlo.
All’ultimo istante, veloce come il vento, sguainò la spada che teneva dietro la
schiena e con un solo fendente tagliò il sasso in due metà perfettamente
uguali.
Il silenzio piombò
nell’intero villaggio.
«Vi sta bene
vivere come schiavi?» disse lui con voce severa «Siete felici di continuare ad
abbassare la testa di fronte ai soprusi e agli atti di prepotenza di gente
priva di scrupoli? Questo villaggio vi appartiene, vi è sempre appartenuto. Ha
davvero così poco valore per voi, abbastanza da cederlo al primo avanzo di
galera che passa da queste parti? La libertà, la giustizia, vi spettano di
diritto come esseri umani! Siete sempre stati uomini liberi, ha nessuno ha il
diritto di privarvi della vostra libertà! Ma la libertà è una cosa che va’
conquistata e difesa con tutte le proprie forze, perché ci sarà sempre qualcuno
che tenterà di rubarvela! Ricordatelo sempre!».
Nessuno rispose, e
molti sguardi caddero verso terra per la vergogna; dopo poco, dal folto della
folla, uscì il signor Pete, che avvicinatosi all’Angelo allungò la mano
sfoggiando il suo gentile sorriso. Lui la strinse, e anche altri a quel punto
si avvicinarono, fra i quali mio padre e la stessa Cily.
«Chi di voi è il
sindaco?»
«Io.»
«Dov’è la base dei
briganti?»
«Al municipio. Il
loro capo si chiama Grox.»
«Conduca la sua
gente in un luogo sicuro, perché presto qui si scatenerà l’inferno.»
«Ma… il portone è
sorvegliato…»
«Ci ho già pensato
io. Andate ora».
Senza dire altro,
e dopo aver immobilizzato i briganti che avevano aggredito Cily in modo che non
potessero scappare, l’Angelo Bianco corse verso il municipio, situato in cima
ad una collinetta al centro del villaggio. Chiunque si mettesse sulla sua
strada veniva abbattuto con rapidità ed efficienza, e malgrado il portone del
municipio fosse stato sbarrato alle prime avvisaglie di pericolo, con l’agilità
di una pantera lui, saltando da una parete a quella adiacente con una serie di
grandi balzi, raggiunse una finestra del secondo piano, la sfondò e fece
irruzione.
Non so dire di
preciso cosa accadde lì dentro, perché i racconti dei briganti catturati erano
più fantasiosi delle stramberie di un bambino, ma posso immaginare che l’Angelo
Bianco abbia fatto irruzione nella sala dei ricevimenti che Grox aveva
trasformato nella sua stanza di piacere, e che questi, rimasto solo, abbia
sfoderato la sua enorme ascia a doppio filo.
Quello che accadde
in seguito fu lui a raccontarmelo.
«E tu chi diavolo
sei?» chiese Grox vedendo l’Angelo Bianco fare irruzione nella stanza
«Il tuo punitore.»
aveva risposto lui.
Grox gli era corso
contro cercando di colpirlo con l’ascia, ma l’unica cosa che colpì fu il
pavimento di legno perché lui, correndo letteralmente sulla parete, gli arrivò
alle spalle, ma il brigante, a dispetto della sua enorme stazza, si girò in
tempo e attaccò di nuovo, e allora l’Angelo Bianco fu costretto a sguainare la
sua spada.
Malgrado l’ascia
di Grox fosse cinque volte più grossa, non riuscì a scalfire neanche
minimamente la lama specchiata di quella spada, ed anzi era l’arma del brigante
a scheggiarsi ad ogni colpo.
Approfittando di
un suo istante di distrazione, l’Angelo Bianco oltrepassò le sue difese e lo
colpì al braccio destro con la punta della sua arma, una ferita non tanto grave
da ucciderlo che però recise i tendini, impedendogli così di tenere in mano
l’ascia nel modo corretto; il sangue e il dolore non sembrarono essere
sufficienti per farlo desistere, tanto che cercò di combattere usando solo la
mano sinistra, e allora lui non ebbe altra scelta che recidere anche i tendini
dell’altro braccio, e a quel punto per Grox non ci fu più niente da fare.
Caduto in ginocchio cercò di tenersi le ferite, ma le mani ormai erano del tutto
insensibili e non obbedivano ai suoi comandi.
«Non sono ferite
mortali, ma comunque vada non sarai più in grado di impugnare un’arma in vita
tua.»
«Tu… maledetto…
uccidimi!».
Ma lui non lo
fece, e pulita la sua spada in una bacinella d’acqua la ripose nel suo fodero.
«Io non uccido
indiscriminatamente. Non più. La giustizia farà il suo corso. Sarà lei a
giudicarti».
Quando una pattuglia di soldati reali che erano stati
mandati a chiamare entrò nel villaggio, i briganti erano già stati tutti imprigionati
all’interno di un capanno per gli attrezzi; il loro comandante, una giovane
donna di nome Aria, domandò chi fosse l’artefice della liberazione del
villaggio.
«L’Angelo Bianco.»
avevano risposto tutti «È stato l’Angelo Bianco!».
Ma io sapevo.
Sono passati tre
anni da quel giorno; sono cresciuta, qualcuno dice anche troppo per la mia età,
e se davvero è così è stato l’incontro con lui a cambiarmi a tal punto.
Fin dal primo
momento che l’ho visto ho capito che lui era diverso da tutti noi; forse non
era un dio o un messo celeste, ma qualcosa nel suo essere sapeva di unico, e
forse, come il signor Pete andava dicendo, lui proveniva davvero da un altro
mondo.
Chissà, forse mi
sono addirittura innamorata, e se un giorno dovessi incontrarlo di nuovo credo
che non resisterei alla tentazione di abbracciarlo.
Allora la sua
figura, per quanto attraente, mi incuteva un senso di timore e riverenza, e
ancora oggi se ripenso al suo volto non posso fare a meno di percepire dentro
di me un misto di ammirazione e paura.
Quando, nascosto
dalla nebbia, fece per lasciare il nostro villaggio, io lo raggiunsi, ma tutto
quello che fui in grado di dire fu un semplice: «Grazie».
Lui mi guardò, si
inginocchiò e prese dalla tasca il ciondolo di mia madre; per un attimo pensai
che volesse indossarlo, ma poi lo legò dietro al mio collo con un sorriso.
«Tua madre non
avrebbe voluto che questo oggetto passasse a qualcun altro. Conservalo con
cura».
La catenella che
portava ondeggiò nell’aria, esercitando su di me, con la sua bellezza,
un’attrazione quasi ipnotica.
«Ti piace? Anche
questo è un pegno d’amore.»
«Un pegno
d’amore?... Allora… la storia è vera.»
«Diciamo di sì».
Lui allora mi
raccontò una storia incredibile, a cui nessuno avrebbe creduto ad eccezione di
chi lo aveva incontrato e conosciuto come me.
Raccontò di
provenire davvero da un altro mondo, come diceva la leggenda, un mondo lontano
e sconosciuto chiamato Terra, su cui aveva lasciato la sola donna che avesse
mai amato. Disse di aver compiuto persino un viaggio nel mondo dei morti, una
sorta di prova spirituale per dimostrare il suo valore, al termine della quale
fu messo di fronte ad una scelta.
Da una parte c’era
la possibilità di tornare a vivere una vita felice, dall’altra di continuare in
quel viaggio che aveva iniziato molto tempo prima, e che si sarebbe compiuto
solo con l’adempimento del suo destino. Era stato costretto a scegliere alla
ceca, ma alla fine il suo cuore aveva deciso per la prosecuzione del viaggio e
così era finito nel nostro mondo.
Io allora gli
chiesi cosa custodiva di così importante il nostro mondo, e lui mi rispose che
in esso risiedevano conoscenze di magia e di combattimento quasi inarrivabili
per
Il suo era dunque
un viaggio, un viaggio verso il momento della verità, e più il tempo passava
più quel giorno si faceva vicino; lui ne era consapevole, ma sapeva anche che
corrergli incontro non serviva a nulla, perché alla fine, in un modo o
nell’altro, esso si sarebbe comunque rivelato a lui. Per questo aveva scelto di
fare solo ciò che riteneva più giusto, e di utilizzare le conoscenze che
avrebbe appreso nel nostro mondo per aiutare tutti coloro che ne avessero avuto
bisogno.
«Questo» disse
«Servirà anche a ripagarmi, in minima parte, di tutti gli errori commessi in
passato».
Mentre lo vedevo
sparire nella nebbia, per un attimo ebbi l’impressione di scorgere due grandi
ali bianche dietro la sua schiena, e allora ebbi la conferma: lui era davvero
l’Angelo Bianco, l’eroe descritto dalle leggende, ma anche se era così che gli
anziani lo chiamano ancora oggi nelle loro storie io conosco il suo vero nome,
perché me lo ha detto, con la promessa di non rivelarlo mai a nessuno.
Toshio.