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Autore: Carlos Olivera    15/03/2008    3 recensioni
Ogni cosa ha un suo corso.
I regni sono come gli uomini; nascono, vivono, ed infine muoiono.
Ad ogni impero ne succede sempre un altro, in un ciclo senza fine.
La profezia a lungo dimenticata sta per avverarsi, e la guerra che molti credevano finita è prossima a ricominciare, ma questa volta ci sarà spazio solo per un vincitore.
Gli eroi scelti dal destino, a loro insaputa, si sono imbarcati in un'impresa che li porterà a varcare le porte di una realtà ignota, incredibile, ma anche piena di pericoli, pericoli sconosciuti e letali.
Buona Lettura.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Millennium War'
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PROLOGO

PROLOGO

 

 

Fin dalla mia nascita, non ero mai uscita dai confini del mio villaggio.

  Attorno alla palizzata di legno che aveva sempre delimitato il nostro piccolo mondo si estendevano fitte foreste e montagne innevate, dove, a sentire i racconti degli anziani, dimoravano mostri spaventosi e animali feroci.

  Tuttavia, pochi mesi prima, qualcosa era riuscito scuotere la monotonia e la triste quotidianità della nostra comunità, e durante una bufera di neve assistemmo ad uno spettacolo incredibile. Le nuvole nere sembrarono aprirsi sotto la spinta di una grande luce dai mille colori che, scendendo lentamente, giunse a lambire il terreno, come una porta collegata con il paradiso, e così rimase per almeno due minuti prima di scomparire nuovamente inghiottita dalla tempesta.

  Il grande bagliore aveva toccato terra a circa dieci miglia dall’ingresso del villaggio, lungo la grande dorsale a ovest; in quella zona si trovava un lago, e sulle sue rive una casetta abbandonata. Si raccontava che fosse stata la dimora di un pescatore e della sua famiglia, che però erano stati assaliti e divorati dal mostro del lago per aver osato violare il suo territorio.

  Voci e dicerie cominciarono a girare sul conto di quel misterioso quanto incredibile avvenimento: qualcuno diceva che era il presagio dell’imminente fine del mondo, qualcun altro che fosse segno di un prossimo, sconvolgente cambiamento.

  Da bambina di otto anni quale ero, dentro di me ero convinta che dovesse trattarsi di lui, dell’Angelo Bianco. Il vecchio Pete mi raccontava quella favola da sempre, e ogni volta che la sentivo qualcosa sembrava accendersi dentro di me, ma pensandoci ora credo che fosse solamente il frutto della mia immaginazione.

  Purtroppo, qualcosa di ben peggiore stava per sconvolgere la nostra esistenza.

  Una mattina di metà inverno, una banda di briganti che da tempo imperversava nella regione giunse al nostro villaggio; eravamo sempre stati gente pacifica, nessuno di noi aveva neanche mai impugnato una spada o utilizzato un incantesimo, quindi non fummo minimamente preparati a respingerli.

  Loro però non si accontentarono di saccheggiare le nostre case; il loro capo, un certo Grox, brutto come un orco, con il volto devastato da una orrenda cicatrice e grasso come un maiale, aveva preso possesso della casa del sindaco, trasformando di fatto il nostro villaggio nel suo quartier generale, da cui pilotava tutte le sue scorrerie.

  I suoi uomini si aggiravano sempre per le strade facendo tutto quello che più gli andava di fare: rubavano dai pollai, depredavano i granai, e se solo qualcuno osava sollevare una parola di protesta veniva picchiato selvaggiamente fin quasi a morire.

  In quel clima di rassegnazione e di sottomissione nessuno aveva voglia di pensare che un giorno sarebbe arrivato qualcuno a liberarci da quell’incubo, ma io invece volevo continuare a crederci, nonostante tutto, e quindi mi recavo sempre più spesso a casa del signor Pete per ascoltare le sue storie di audaci cavalieri e potenti stregoni che difendevano la gente comune dalla tirannia.

  Da giovane aveva servito nell’esercito reale e aveva girato tutto il continente, una cosa molto insolita per la gente del nostro villaggio, che invece si accontentava di esplorare quelle quattro o cinque miglia oltre la palizzata.

  Una sera, sedevo come al solito assieme a lui davanti al fuoco del camino sorseggiando una tazza di latte caldo, l’ideale per scacciare il freddo dell’inverno.

  «Signor Pete.» chiesi ad un certo punto «Potrebbe raccontarmi di nuovo la storia dell’Angelo Bianco?»

  «Ti piace proprio quella storia, eh?».

  Furono le mie guance rosse a rispondere per me.

  «D’accordo.» mi rispose lui, sorridendo sotto la sua folta barba grigia «Si racconta che, migliaia di anni fa, quando era ancora un piccolo principato, il nostro regno fosse costantemente attaccato da tutti i suoi vicini. Il principe non poteva fare nulla per opporsi a così tanti nemici, quando un giorno, dal cielo, giunse un misterioso visitatore proprio nel suo palazzo. Disse di essere giunto fino a lì per guidare il regno di Fiya ad una nuova e grandiosa rinascita. Il principe gli concesse il comando di tutti i suoi eserciti, alla testa dei quali riportò innumerevoli vittorie, così grandi e così schiaccianti che i soldati nemici scappavano alla sua vista, rifiutandosi di combattere. In meno di un anno Fiya fu libero, e l’Angelo Bianco, così era stato chiamato, scomparve come era venuto, promettendo però che sarebbe ritornato ogni qualvolta che i molti avessero minacciato i pochi con la loro prepotenza.»

  «Ma chi era questo angelo? Era forse un inviato del cielo?»

  «Chi può dirlo? Chi lo ha conosciuto raccontava che era un uomo qualsiasi, come te e me, ma che vi fosse sempre una parvenza di tristezza sul suo viso. Qualcuno sostiene che provenisse da un altro mondo, un mondo distante e irraggiungibile, e che l’unica cosa a cui davvero aspirava era di poter ritornare a casa.»

  «Quindi, quella luce che abbiamo visto… poteva essere lui. L’Angelo Bianco che è venuto per liberarci.»

  «Forse. Chi può dirlo. È certo però che fino a quando ci saranno delle popolazioni oppresse dal giogo della prepotenza e della paura, la leggenda dell’Angelo Bianco non morirà mai».

  A quel tempo ero solo una bambina, e volevo credere con tutto me stessa a quella storia, ma più il tempo passava più i miei compagni perdevano la speranza, diventando pessimisti e irascibili anche fra di loro.

  «Quando ti deciderai a crescere?» mi disse un giorno Cily, una ragazza di sedici anni «Ma vuoi metterti in testa sì o no che l’Angelo Bianco è solo una favola? Non c’è nessun Angelo Bianco che verrà a salvarti! Siamo soli!».

  Ormai anche io cominciavo a perdere la speranza, ma un sogno che feci in una notte di fine inverno riaccese in me nuove speranze. Sognai una giovane donna di grande bellezza dai lunghi capelli turchesi; indossava un’armatura bianco sfavillante sormontata da una corona, una tunica chiara e recava in mano un lungo scettro d’oro tempestato di pietra preziose.

  La riconobbi: ricordava molto la statua presente in molti villaggi che personificava il nostro regno.

  Mi disse di andare sulla grande dorsale, alla casetta in riva al lago, perché lì avrei potuto incontrare l’Angelo Bianco che ci avrebbe finalmente liberati dal giogo dei briganti.

  Mi svegliai alle prime luci dell’alba e decisi subito di non attendere oltre; avrei raggiunto quella casa e avrei chiesto aiuto all’Angelo Bianco a qualunque costo.

  Scesi dal letto in punta di piedi, e senza svegliare mio padre presi da uno scaffale della cucina un ciondolo a forma di cuore, l’unica cosa che mi restava di mia madre.

  Il vecchio Pete mi aveva raccontato che l’Angelo Bianco non concedeva i suoi servigi gratuitamente; in cambio di ciò che faceva chiedeva al suo committente la cosa a cui teneva di più al mondo. Perché questa insolita richiesta? Pete sosteneva che l’Angelo Bianco soffrisse per amore, un amore lontano, e che quindi cercasse di colmare il dolore che aveva dentro circondandosi delle manifestazioni di affetto altrui.

  Indossai gli abiti più pesanti che mi riuscì di trovare ed uscii. In un angolo nascosto della palizzata c’era una trave che poteva essere rimossa, rivelando un passaggio abbastanza grande da far passare una bambina di corporatura minuta come ero io; questo mi permise di aggirare l’ostacolo del portone chiuso e perennemente sorvegliato dai briganti, per evitare che qualcuno di noi potesse evadere.

  Corsi a perdifiato lungo i fianchi della montagna, attraverso gli alberi, incurante del freddo e della fatica; per ogni istante che passava mio padre e tutti i miei amici soffrivano terribili umiliazioni, e se c’era una possibilità anche minima di poterli salvare volevo coglierla ad ogni costo.

  Molto presto però le mie speranze andarono a infrangersi contro una fortissima tempesta di neve che si abbatté su di me dopo neanche quattro miglia di cammino.

  Il vento era fortissimo, gelido, la neve mi entrava negli occhi, congelandomi il naso, screpolandomi le labbra; più il tempo passava più faticavo a muovere i piedi, e mi sentivo sempre più stanca. Già allora conoscevo gli effetti che il freddo poteva avere sulle persone, quindi sapevo che qualunque cosa fosse accaduta per nessun motivo al mondo avrei dovuto addormentarmi, perché questo avrebbe significato senza ombra di dubbio la morte.

  Purtroppo però ero impotente di fronte alla forza della natura, e quando credevo che i miei problemi fossero già insormontabili ne sopraggiunse un altro, molto più spaventoso.

  Dapprima erano solo ombre, poi occhi scintillanti, ma alla fine uscirono dai loro nascondigli fra i cespugli e mi circondarono.

  Lupi giganti, molto più grandi dei normali lupi, generalmente schivi e riservati, che però il freddo dell’inverno trasforma in mostri affamati di carne di qualsiasi tipo. Si spostano in branchi, che arrivano a contare anche trenta esemplari, e quello che mi aveva quasi circondato era composto almeno da una ventina di individui.

  Per qualche istante rimasi immobile a tremare di paura, ma non appena accennai una fuga uno di loro mi saltò addosso, spingendomi giù da un crinale. Rotolai sulla neve per diversi metri, e quando finalmente un albero arrestò la mia caduta capii che dovevo essermi slogata una caviglia.

  I lupi tornarono alla carica, ed io, sempre più incosciente, mi augurai solo di essere già priva di sensi quando avessero iniziato a divorarmi. Pensai a mio padre, al signor Pete, a tutte le persone che mi avrebbero cercata, e che io avevo deluso.

  Quegli animali intanto mi avevano nuovamente attorniata, ma quando il capobranco cercò di aggredirmi un’ombra comparve dalla tempesta dinnanzi a me.

  Tutto ciò che mi riuscì di distinguere fu una spada bellissima, dalla lama specchiata, con un un’impugnatura d’avorio a forma di testa d’aquila.

  La spada saettò velocissima nell’aria e il lupo si accasciò a terra con il torace squartato. I suoi compagni indietreggiarono leggermente, ringhiando e digrignando le fauci, ma poi si lanciarono a loro volta all’attacco verso la loro nuova vittima; e lui ne fece strage con incredibile agilità, tingendo la neve di sangue, e quando il decimo lupo cadde senza vita i superstiti si diedero alla fuga.

  L’ultima cosa che vidi prima di svenire fu il volto di un giovane, contornato da capelli scuri, che, inginocchiandosi davanti a me, mi chiese.

  «Stai bene?».

 

Non so per quanto tempo rimasi priva di conoscenza; ore forse, o magari un giorno intero, ma quando mi risvegliai la prima cosa che avvertii fu il caldo tepore di un caminetto acceso.

  Ero distesa su di un letto morbido all’interno di quella che sembrava una capanna, in cui il mobilio si limitava ad un tavolo, un paio di sedie e un ripiano; qua e là erano accatastate pile di libri, sulla parete invece erano appesi, tramite dei ganci, la spada che avevo visto in mezzo al bosco e un magnifico arco scintillante.

  Mettendomi a sedere sul letto fui in grado di guardare oltre la finestra, così scoprii che mi trovato proprio nella casetta sulle rive del lago.

  Ce l’avevo fatta. Avevo raggiunto la casa, ma… chi mi aveva aiutato ad arrivare fin laggiù?

  Avevo dei ricordi molto vaghi di quello che era successo nel bosco, e l’unica cosa che ricordavo era quel volto gentile, bellissimo.

  Cercai di alzarmi, ma non mi riuscì di muovere il piede, e guardando sotto le coperte mi accorsi che la caviglia che mi ero slogata era stata accuratamente fasciata e immobilizzata con una stecca.

  Stavo ancora cercando di ricordare bene cosa era successo quando la porta si spalancò; dapprima, spaventata, mi tirai addosso le coperte, ma quando vidi entrare un giovane dal viso gentile, abbellito da una folta capigliatura nera, subito mi calmai.

  Indossava degli abiti molto strani, e strani era dire poco; non sembravano fatti di pelle o di un qualche genere di tessuto che io conoscessi, soprattutto i pantaloni, lisci alla vista ma ruvidi al tatto, di un colore azzurro scuro.

  Anche le sue scarpe erano curiose. Al collo portava una catenella con un pendente a forma di stella circondato da un serpente che si mordeva la coda.

  Se era strano ciò che indossava, ancor più strana era la sua espressione; sembrava triste, proprio come Pete aveva detto parlando dell’Angelo Bianco; tuttavia, si poteva scorgere una grande gentilezza nei suoi occhi.

  Appena entrato si volse a guardarmi.

  «Ti sei svegliata».

  Non riuscii a rispondere; lui si avvicinò a me e mi tastò la fronte.

  «Per fortuna la tua temperatura è tornata normale. Stavi per morire di freddo, sai? Ma cosa ci facevi in mezzo alla foresta con un tempaccio simile?».

  Di nuovo rimasi in silenzio, un po’ per paura un po’ per sconcerto. Lui allora si rialzò, si avvicinò al camino e sollevò il coperchio della pentola che ardeva sul fuoco, riempiendo la stanza di un piacevole odore di cereali, un bene raro in quella stagione.

  Non riuscivo a capire; per la bambina che ero mi ero immaginata l’Angelo Bianco come un uomo ai limiti del divino, e invece sembrava proprio un ragazzo come chiunque altro; però, qualcosa dentro di me mi diceva che era proprio lui la persona che stavo cercando.

  Dopo aver preso una ciotola di terracotta vi versò un po’ della zuppa che stava cuocendo e me la porse.

  «Tieni, mangia. Immagino che avrai fame».

  I briganti al villaggio si erano portati via tutto quello che avevamo, e ci eravamo ridotti a mangiare miglio come gli animali, e non appena mi portai alla bocca il primo cucchiaio mi sentii in paradiso, ma il poter gustare una simile prelibatezza riportò subito alla memoria il motivo per cui ero arrivata fin lì.

  Senza curarsi della propria parte di cena si sedette e cominciò a leggere avidamente un vecchio libro; doveva essere un volume di magia, a giudicare dalle figure che vi erano riportate.

  Alla fine mi feci coraggio e parlai senza fermarmi, per evitare che la paura potesse bloccare a metà il mio discorso.

  «Vi prego.» dissi «Salvateci. Liberate il mio villaggio dai briganti. Sono pronta a darvi ciò che ho di più prezioso, ma vi prego, aiutateci».

  Dopo aver pronunciato queste parole gli porsi il pendente che avevo portato con me. Lo guardò.

  «Era di mia madre. È morta due anni fa. Questo ciondolo è tutto ciò che mi rimane di Lei. Ma sono pronta a darglielo se accetterà di aiutarci».

  Lo prese e lo osservò attentamente, rigirandoselo tra le mani.

  «È un oggetto molto prezioso. Perché vuoi darlo a me?»

  «Dicono che Lei, in cambio dei suoi servigi, vuole la cosa che per una persona ha il maggior valore.»

  «Davvero dicono questo?»

  «Beh… sì.»

  «Capisco».

  Lui posò sia il libro che il ciondolo, si alzò dalla sedia e prese la spada appesa al muro, sguainandola.

  «La vedi? Questa spada ha sparso tanto sangue. Ho fatto a me stesso una promessa. Ho giurato su questa spada e su colui che me l’ha donata, che mai più avrei ucciso qualcuno se non in caso di estrema necessità. Quindi ora, rispondimi sinceramente. Vuoi davvero che io combatta quegli uomini, col rischio di ucciderli?».

  Ripensandoci adesso, credo che la mia risposta fu dettata in gran parte dal pensiero di tutte le sofferenze che sia io che i miei amici avevamo vissuto, e comunque già allora, per quanto piccola e ingenua, consideravo briganti e simili più bestie che esseri umani, degni solo di morire.

  «Sì!» fu la mia sola parola.

 

Nel frattempo, al villaggio, i briganti continuavano imperterriti nelle loro angherie, e un brutto giorno a subirne le conseguenze fu la mia amica Cily. Stava portando in casa l’acqua presa dal pozzo quando tre brutti ceffi la circondarono, iniziando a molestarla, dapprima con parole pesanti, poi con la forza.

  Afferratala, la gettarono a terra, e mentre due la tenevano ferma il terzo si slacciava lo spago dei pantaloni.

  Cily gridava con tutta la sua voce, ma la gente che in quel momento era fuori all’aperto non osava intervenire; qualcuno si limitava a guardare stando a distanza, qualcun altro invece la ignorava totalmente continuando a svolgere le proprie occupazioni.

  Il brigante si era quasi abbassato i pantaloni quando una freccia ad energia lo colpì in pieno, stordendolo, uccidendolo sul colpo. I suoi compagni, attoniti, mollarono Cily e sguainarono le spade, ma prima che potessero usarle l’Angelo Nero calò su di loro dal cielo e li sconfisse senza nemmeno servirsi delle sue armi, a mani nude.

  Quando arrivai sul luogo dell’aggressione, sempre passando per il mio percorso segreto, lui li aveva già sconfitti tutti, e stava aiutando Cily a rialzarsi.

  «Tutto bene?» le chiese «Sei ferita?»

  «Io… ecco…»

  «Lia!» disse mio padre

  «Papà!»

  «Ma dov’eri finita? Ero così in pensiero.»

  «L’ho trovato papà. Esiste davvero.»

  «Di che stai parlando?»

  «Lui è l’Angelo Bianco!»

  «Cosa!? L’Angelo Bianco!?».

  Molti dei presenti rimasero senza parole, ed un brusio confuso cominciò a diffondersi; purtroppo però, la maggior parte dei commenti erano tutt’altro che favorevoli a quanto era appena successo.

  «Perché lo ha fatto? – Ora si vendicheranno – Ci uccideranno tutti».

  Non mi sembrava possibile che le persone con cui avevo vissuto fin dalla nascita fossero cadute così in basso; lui aveva salvato una loro compagna, e loro, invece che ringraziarlo, sembrava quasi che volessero punirlo.

  «Questo ci costerà caro!» disse infine una donna «Adesso quei briganti vorranno vendicarsi!».

  A lei si unì presto un coro di voci.

  «Ha ragione! Non avresti dovuto intrometterti!»

  «Vattene da questo villaggio!»

  «Lasciaci in pace!».

  Improvvisamente, dal folto della folla qualcuno scagliò una grossa pietra in direzione dell’Angelo Bianco, che rimase immobile e non fece nulla per evitarlo. All’ultimo istante, veloce come il vento, sguainò la spada che teneva dietro la schiena e con un solo fendente tagliò il sasso in due metà perfettamente uguali.

  Il silenzio piombò nell’intero villaggio.

  «Vi sta bene vivere come schiavi?» disse lui con voce severa «Siete felici di continuare ad abbassare la testa di fronte ai soprusi e agli atti di prepotenza di gente priva di scrupoli? Questo villaggio vi appartiene, vi è sempre appartenuto. Ha davvero così poco valore per voi, abbastanza da cederlo al primo avanzo di galera che passa da queste parti? La libertà, la giustizia, vi spettano di diritto come esseri umani! Siete sempre stati uomini liberi, ha nessuno ha il diritto di privarvi della vostra libertà! Ma la libertà è una cosa che va’ conquistata e difesa con tutte le proprie forze, perché ci sarà sempre qualcuno che tenterà di rubarvela! Ricordatelo sempre!».

  Nessuno rispose, e molti sguardi caddero verso terra per la vergogna; dopo poco, dal folto della folla, uscì il signor Pete, che avvicinatosi all’Angelo allungò la mano sfoggiando il suo gentile sorriso. Lui la strinse, e anche altri a quel punto si avvicinarono, fra i quali mio padre e la stessa Cily.

  «Chi di voi è il sindaco?»

  «Io.»

  «Dov’è la base dei briganti?»

  «Al municipio. Il loro capo si chiama Grox.»

  «Conduca la sua gente in un luogo sicuro, perché presto qui si scatenerà l’inferno.»

  «Ma… il portone è sorvegliato…»

  «Ci ho già pensato io. Andate ora».

  Senza dire altro, e dopo aver immobilizzato i briganti che avevano aggredito Cily in modo che non potessero scappare, l’Angelo Bianco corse verso il municipio, situato in cima ad una collinetta al centro del villaggio. Chiunque si mettesse sulla sua strada veniva abbattuto con rapidità ed efficienza, e malgrado il portone del municipio fosse stato sbarrato alle prime avvisaglie di pericolo, con l’agilità di una pantera lui, saltando da una parete a quella adiacente con una serie di grandi balzi, raggiunse una finestra del secondo piano, la sfondò e fece irruzione.

  Non so dire di preciso cosa accadde lì dentro, perché i racconti dei briganti catturati erano più fantasiosi delle stramberie di un bambino, ma posso immaginare che l’Angelo Bianco abbia fatto irruzione nella sala dei ricevimenti che Grox aveva trasformato nella sua stanza di piacere, e che questi, rimasto solo, abbia sfoderato la sua enorme ascia a doppio filo.

  Quello che accadde in seguito fu lui a raccontarmelo.

  «E tu chi diavolo sei?» chiese Grox vedendo l’Angelo Bianco fare irruzione nella stanza

  «Il tuo punitore.» aveva risposto lui.

  Grox gli era corso contro cercando di colpirlo con l’ascia, ma l’unica cosa che colpì fu il pavimento di legno perché lui, correndo letteralmente sulla parete, gli arrivò alle spalle, ma il brigante, a dispetto della sua enorme stazza, si girò in tempo e attaccò di nuovo, e allora l’Angelo Bianco fu costretto a sguainare la sua spada.

  Malgrado l’ascia di Grox fosse cinque volte più grossa, non riuscì a scalfire neanche minimamente la lama specchiata di quella spada, ed anzi era l’arma del brigante a scheggiarsi ad ogni colpo.

  Approfittando di un suo istante di distrazione, l’Angelo Bianco oltrepassò le sue difese e lo colpì al braccio destro con la punta della sua arma, una ferita non tanto grave da ucciderlo che però recise i tendini, impedendogli così di tenere in mano l’ascia nel modo corretto; il sangue e il dolore non sembrarono essere sufficienti per farlo desistere, tanto che cercò di combattere usando solo la mano sinistra, e allora lui non ebbe altra scelta che recidere anche i tendini dell’altro braccio, e a quel punto per Grox non ci fu più niente da fare. Caduto in ginocchio cercò di tenersi le ferite, ma le mani ormai erano del tutto insensibili e non obbedivano ai suoi comandi.

  «Non sono ferite mortali, ma comunque vada non sarai più in grado di impugnare un’arma in vita tua.»

  «Tu… maledetto… uccidimi!».

  Ma lui non lo fece, e pulita la sua spada in una bacinella d’acqua la ripose nel suo fodero.

  «Io non uccido indiscriminatamente. Non più. La giustizia farà il suo corso. Sarà lei a giudicarti».

 

Quando una pattuglia di soldati reali che erano stati mandati a chiamare entrò nel villaggio, i briganti erano già stati tutti imprigionati all’interno di un capanno per gli attrezzi; il loro comandante, una giovane donna di nome Aria, domandò chi fosse l’artefice della liberazione del villaggio.

  «L’Angelo Bianco.» avevano risposto tutti «È stato l’Angelo Bianco!».

  Ma io sapevo.

  Sono passati tre anni da quel giorno; sono cresciuta, qualcuno dice anche troppo per la mia età, e se davvero è così è stato l’incontro con lui a cambiarmi a tal punto.

  Fin dal primo momento che l’ho visto ho capito che lui era diverso da tutti noi; forse non era un dio o un messo celeste, ma qualcosa nel suo essere sapeva di unico, e forse, come il signor Pete andava dicendo, lui proveniva davvero da un altro mondo.

  Chissà, forse mi sono addirittura innamorata, e se un giorno dovessi incontrarlo di nuovo credo che non resisterei alla tentazione di abbracciarlo.

  Allora la sua figura, per quanto attraente, mi incuteva un senso di timore e riverenza, e ancora oggi se ripenso al suo volto non posso fare a meno di percepire dentro di me un misto di ammirazione e paura.

  Quando, nascosto dalla nebbia, fece per lasciare il nostro villaggio, io lo raggiunsi, ma tutto quello che fui in grado di dire fu un semplice: «Grazie».

  Lui mi guardò, si inginocchiò e prese dalla tasca il ciondolo di mia madre; per un attimo pensai che volesse indossarlo, ma poi lo legò dietro al mio collo con un sorriso.

  «Tua madre non avrebbe voluto che questo oggetto passasse a qualcun altro. Conservalo con cura».

  La catenella che portava ondeggiò nell’aria, esercitando su di me, con la sua bellezza, un’attrazione quasi ipnotica.

  «Ti piace? Anche questo è un pegno d’amore.»

  «Un pegno d’amore?... Allora… la storia è vera.»

  «Diciamo di sì».

  Lui allora mi raccontò una storia incredibile, a cui nessuno avrebbe creduto ad eccezione di chi lo aveva incontrato e conosciuto come me.

  Raccontò di provenire davvero da un altro mondo, come diceva la leggenda, un mondo lontano e sconosciuto chiamato Terra, su cui aveva lasciato la sola donna che avesse mai amato. Disse di aver compiuto persino un viaggio nel mondo dei morti, una sorta di prova spirituale per dimostrare il suo valore, al termine della quale fu messo di fronte ad una scelta.

  Da una parte c’era la possibilità di tornare a vivere una vita felice, dall’altra di continuare in quel viaggio che aveva iniziato molto tempo prima, e che si sarebbe compiuto solo con l’adempimento del suo destino. Era stato costretto a scegliere alla ceca, ma alla fine il suo cuore aveva deciso per la prosecuzione del viaggio e così era finito nel nostro mondo.

  Io allora gli chiesi cosa custodiva di così importante il nostro mondo, e lui mi rispose che in esso risiedevano conoscenze di magia e di combattimento quasi inarrivabili per la Terra, che in futuro gli sarebbero servite per adempiere al suo destino.

  Il suo era dunque un viaggio, un viaggio verso il momento della verità, e più il tempo passava più quel giorno si faceva vicino; lui ne era consapevole, ma sapeva anche che corrergli incontro non serviva a nulla, perché alla fine, in un modo o nell’altro, esso si sarebbe comunque rivelato a lui. Per questo aveva scelto di fare solo ciò che riteneva più giusto, e di utilizzare le conoscenze che avrebbe appreso nel nostro mondo per aiutare tutti coloro che ne avessero avuto bisogno.

  «Questo» disse «Servirà anche a ripagarmi, in minima parte, di tutti gli errori commessi in passato».

  Mentre lo vedevo sparire nella nebbia, per un attimo ebbi l’impressione di scorgere due grandi ali bianche dietro la sua schiena, e allora ebbi la conferma: lui era davvero l’Angelo Bianco, l’eroe descritto dalle leggende, ma anche se era così che gli anziani lo chiamano ancora oggi nelle loro storie io conosco il suo vero nome, perché me lo ha detto, con la promessa di non rivelarlo mai a nessuno.

  Toshio.

 

  
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