▪ CAPITOLO 05 ▪
«l’arena ha i suoi segreti», aveva detto. [PT. 2]
Salirono le scale in un
silenzio assordante, anche in quell’occasione gli insetti non mormoravano e Lyosha si chiese se ci fosse un qualche stratega che comandava
il canto di quelle bestiole, giusto per rendere più frustrante il tutto.
Fece salire prima Ariel,
iniziando ad arrampicarsi sulle scale dopo di lei, scale malmesse, anche, e un
paio di volte qualche gradino minacciò di rompersi sotto i pesi comunque
leggeri di entrambi.
Durante quella salita Lyosha riuscì a percepire sulle sue ossa la fatica di
quella mezza giornata, la colonna vertebrale sembrava arrotolata su sé stessa,
le dita delle mani intorpidite e di tanto in tanto scosse da vari tremori. Arrivato
in cima, però, quello che sentì fu nient’altro che sollievo: puro e semplice.
I colori che li circondavano
non erano più forti, quasi accecanti, come quelli che li avevano circondati per
gli istanti precedenti, l’aria era letteralmente bagnata e non ci volle molto
ai due per capire che un discreto velo di nebbia li circondava – fortunatamente
non era troppo fitta e riuscivano a vedere ben oltre il loro naso.
«E’ così diverso, qui…» mormorò la più piccola, stringendosi nelle spalle e
scostandosi i ciuffi ormai sudici dagli occhi, si guardava intorno come se
fosse stata trasportata nelle foreste buie e minacciose delle favole che
sentiva da bambina, lo stupore che la circondava come un’aurea di sotto era sparita, scivolata di dosso
dal suo corpo. Lyosha le strinse piano la mano e
cercò con lo sguardo l’acqua che alimentava la cascata, scoprendola con un
grosso senso di conforto ad accompagnarlo a pochi metri da loro. Si avvicinò a
passo abbastanza sicuro, e quella sua sicurezza lo portò ad inginocchiarsi
vicino al liquido, con veloci e precisi gesti disse ad Ariel di tirare fuori
una pastiglia in modo che questa fosse pronta nel caso il fratello più grande
si procurasse un’altra intossicazione.
L’arena
ha i suoi segreti, si sentiva ripetere da una
voce lontana, dentro la sua testa. E lui pensava di averla capita, quest’arena
dei sessantatreesimi Hunger Games.
Era divisa in due in modo visibile, come il bianco e nero. La prima parte,
quella in cui si trovava la Cornucopia, apparentemente fornita di tutto ciò che
serviva per sopravvivere… e poi quella di adesso:
sciatta, buia e silenziosa, fatta di alberi troppo alti perché si vedesse se
avessero qualcosa di commestibile sui rami e nebbia.
Qualcosa non quadrava. Non
poteva essere così semplice, si ripeteva. Probabilmente anche quell’acqua era
avvelenata. Si parlava sempre della stessa identica acqua, alla fine, no?
Si sfilò lo zaino dalle spalle
e allungò i palmi verso il fiumiciattolo, le mani sparivano sotto l’acqua non
più limpida come quella sotto di loro su cui si infrangeva la cascata, era
fredda da raggelare le ossa e per un momento Lyosha
penso di ritrarre le dita e asciugarle con la coperta che giaceva ammucchiata
nello zaino pregando che non fossero diventate viola per la temperatura. Ma non
fece niente di tutto ciò, chiuse leggermente i palmi a conca e si portò alle
labbra il liquido soffuso, biancastro e sempre meno convincente.
Un sorso, e sentii nelle
orecchie il sussulto spaventato di Ariel.
Due sorsi, l’acqua gli scendeva
giù per la gola.
Tre sorsi, le mani gli facevano
male per il freddo.
Si pulì le labbra con il
braccio e rimase a fissare il torrente davanti a lui, si aspettava di vedere
tutto appannato o di sentire formicolio,
il senso di vomito farsi strada e la morte impossessarsi del suo corpo. Eppure
passavano i minuti ma l’unica cosa che Lyosha
percepiva era il battito del suo cuore, la terra sotto le unghie e le foglie
accatastate sotto le sue ginocchia indolenzite.
Si girò piano verso Ariel,
ancora dietro di lui in trepidante attesa, come se aspettasse qualcosa che non
arrivava mai, un treno non segnato nell’orario. Quello che le si presentò
davanti era il volto del suo fratellone, sporco da un lato, le labbra bagnate e
le guance rigate da due sottili linee di lacrime sporche. Piangeva, ma era un
pianto liberatorio, felice – non il pianto a cui si era abbandonato mentre la
madre li stringeva entrambi, prima di partire per Capitol
City.
Era buona.
L’acqua era buona.
Il sollievo di aver trovato
dell’acqua bevibile però, non aveva del tutto sedato l’adrenalina di essere
dentro i Giochi. Lyosha si era lavato con impeto il
volto rabbrividendo per la temperatura gelida, facendo poi avvicinare la
sorella per pulirle il viso, le fece sciogliere i capelli e le bagnò i fili
d’oro, legandoli poi nel modo più sistemato possibile, mettendole dietro le
orecchie quei pochi ciuffi che sfuggivano alla presa dello stretto elastico.
La più piccola tirò fuori dallo
zaino il cilindro in cui erano conservate dei doni e lo passò a Lyosha che, quasi gonfiato d’orgoglio per la sua scoperta,
lo aveva immerso nell’acqua riempiendolo fino all’orlo, per poi chiuderlo con
il coperchio, sorridendo ad un sonoro click
che assicurava che il liquido non si sarebbe riversato.
Erano sul punto di alzarsi e
riprendere a camminare, ma lo stomaco di Ariel brontolò rumorosamente facendo
sorridere Lyosha, a gesti le chiese se avesse fame,
lei annuì e, prima dicesse che poteva aspettare, il suo Thahn
aveva già tirato fuori il tupperware in cui vi era
della splendida mela tagliata a fette. Prese una porzione tra le due dita
sottili e la porse ad Ariel che, per tutta risposta, se la portò alle labbra
azzannando metà del trancio. Il ragazzo posò il contenitore per terra notando
con la coda dell’occhio la mano di Ariel allungarsi ed afferrare dell’altra
mela, Lyosha le prese lo zaino cercando quello che
gli ricordavano le ostie del suo distretto, con uno dei due coltelli che
avevano spezzò il filo che teneva intatto quella torre di dischetti candidi,
attento a non farli cadere sulla terra. Mise tutti i cerchi bianchi nel
contenitore delle mele, tenendo tra le dita solamente uno di questi, aprì la
bocca e posò sulla lingua il composto di farina e acqua – questo si sciolse
lentamente e senza sapore, e il tributo si ritrovò a mandare giù un qualcosa
che avrebbe definito pappetta di acqua e farina se avesse potuto
parlare.
Ma quello che si ritrovò a
scoprire fu entusiasmante: non aveva più fame.
Sorrise come aveva fatto poche volte
in vita sua e schioccò più volte le dita per catturare l’attenzione della
sorella che ingurgitava il quarto pezzo di mela, con le dita la informò della
sua nuova, esaltante, scoperta.
«Le ostie…?
Cioè, quelle cose ti riempiono come un pasto vero?» ripeté lei, incredula e un
po’ diffidente, probabilmente – si diceva – il fratello non aveva fame e quindi
aveva l’impressione che fosse pieno, ma lo stomaco della piccola reclamava
ancora nutrimento e quindi, presa dalla curiosità, afferrò uno dei dischi in
questione, lo spezzò a metà e lasciò che si sciogliesse sulla sua lingua per
poi mandarlo giù.
Lyosha
aveva ragione.
«Liv,
dov’è Kabe?» Fraser stava chinato su di lei, mentre Lexi si guardava attorno e scambiava profondi sguardi con
uno strano uccello su uno dei rami bassi di quei alberi, la ragazza del quattro
invece era seduta su una radice e faceva roteare il tridente.
Si
erano accorti dopo non molto che Kabe era sparito
dalla circolazione, ed era evidente che la sua compagna di distretto ne sapesse
qualcosa. E lei avrebbe volentieri detto che l’acqua della Cornucopia era
avvelenata ma avere Fraser così vicino a lei da sentire il profumo di lui
proprio sotto il naso la deconcentrava terribilmente, un altro po’ e i suoi
capelli le avrebbero sfiorato la fronte. Lei se ne stava lì, con le mani
strette sulle ginocchia che cercava un modo gentile e soprattutto che non la
facesse sentire un’imbecille e colpevole per annunciare la morte del ragazzo e
i grandi occhi blu del tributo maschio, bellissimi e inquisitori la fissavano
senza battere ciglio.
«Beh…» iniziò, grattandosi la guancia e affondando il tacco
dello stivale nella terra che inabissò appena sotto la pressione.
Ines
sospirò pesantemente e Lexi si girò verso i due con
un colpo di chioma – sempre splendida per le sue splendide telecamere. «Beh?»
domandò la ragazza dell’uno.
«Fraser,
prova ad allontanarti un po’, la tua bellezza le toglie il respiro e finisce
che arriviamo a sera che stiamo ancora qui cercando di cavar fuori delle parole
da quella» sbottò la Sirenetta,
alzandosi in piedi e piantando il tridente per terra, con un braccio spinse
Fraser all’indietro che girò su sé stesso allontanandosi platealmente
biascicando un “donne!”. «Allora, è
semplice: o Kabe è morto oppure si è staccato dal
gruppo, e non ci credo che si è perso. La prima o la seconda, Liv?», il tributo
del quattro parlava in una maniera che lasciava intendere quanto fosse
infastidita.
Gli
altri tre capirono quanto lei potesse essere letale, in realtà, perché se prima
Liv non riusciva a parlare per colpa dell’inebriante presenza di Fraser, ora
era la decisa superiorità di Ines a bloccarla sul posto facendole dire solo dei
monosillabi.
«Prima»
mugugnò quella del due.
«Bene!»
Ines era visibilmente irritata da quella risposta, si girò verso il suo
tridente alzando le braccia al cielo, «i Giochi sono iniziati da meno di un
giorno e abbiamo già perso un uomo, fantastico. Dovremmo essere in sei e invece
siamo in quattro, a meno di dodici ore dall’inizio».
Nella
mente di Liv si proiettò l’immagine di Ines che trapassava da parte a parte la
gola di lei, Lexi e Fraser nel mezzo della notte con
il suo dannato forcone. Ed ebbe una paura che l’alimentò così tanto da farle
giungere ad una conclusione: farsela amica, o comunque alleata. Un’alleanza dentro
un’alleanza.
«E’
morto perché ha bevuto l’acqua della Cornucopia, era avvelenata», si alzò,
tentando di dare la parvenza di una persona che riesce a reggersi sulle proprie
ginocchia, cercava negli occhi di Fraser un’approvazione che c’era, ma nascosta
da un’ironia sottile.
Lexi,
che prima si annoiava ispezionando il posto, ora sembrava preoccupata, impugnò
saldamente la spada e fece dietro front, ritornando
sui suoi passi, «allora dobbiamo tornare alla Cornucopia e prendere le caraffe
d’acqua, ce n’erano molte».
Nessuno
osò contestare il suo piano – si era affermata capo del gruppo ancora prima che
iniziasse la competizione. A seguirla subito dopo vi era Ines, Liv fece qualche
passo incerto per seguirle ma Fraser la fermò, tenendola per la manica, «dovresti
stare attenta, Liv» le sussurrò all’orecchio suadente, ma a lei sembrò che la
sua voce sembrasse più il sibilo di un serpente, «l’amore è un’arma a doppio
taglio. Pensavo che una del due, il distretto dei Pacificatori, lo sapesse
meglio di chiunque altro».
Lyosha
vedeva rifiorire il suo futuro, forse, la strategia di tenere in vita Ariel non
era destinata a fallire. Avevano delle pastiglie contro i veleni dell’Arena,
della mela e delle ostie che te ne bastava una per sentirti pieno, avevano
smascherato l’Arena e sapevano come usarla a loro vantaggio. Dulcis in fundo,
avevano una coperta per ripararsi durante la notte che di lì a poco avrebbe
fatto capolino tra gli alberi coperti dalla nebbia.
Sua
sorella poteva vincere, pensava, poteva davvero farlo.
Si
erano allontanati dalla cascata memorizzando il percorso per ritornare
all’acqua facilmente, Lyosha ricordava di varie
edizioni dove alcuni tributi si avvicinavano troppo al campo di forza che
delimitava l’Arena ed era abbastanza sveglio da aver compreso che andare troppo
oltre non dava mai nulla di buono. Avevano deciso quindi di camminare per
qualche tempo, trovare un rifugio laddove la vegetazione era più fitta e
avevano anche raccolto delle foglie abbastanza grandi con cui coprirsi per
darsi l’illusione di essere ben nascosti.
Avevano
srotolato la coperta e accatastato foglie più piccole per fare dei cuscini, il
sole brillava di rosso oltre la nebbia e il freddo iniziava a farsi sentire
sulle braccia scoperte di lui. Rimase seduto mentre la sorella beveva un po’
d’acqua dalla loro borraccia improvvisata e poi qualcosa dietro un albero si
mosse.
Un animale, fu la prima cosa che venne in mente
a Lyosha, ma poco dopo una chioma bronzea fece
capolino con le mani alzate vicino alla nuca, da dietro la schiena spuntava una
lancia. Era Sean, il volontario del distretto tre.
«Ragazzina,
dì a tuo fratello che non voglio farvi del male» aveva detto, e sembrava
sincero.
Ariel,
che cercava di togliersi la terra da sotto le unghie spezzate senza farsi male,
lo guardò con un lieve broncio, «guarda che capisce quello che diciamo, non sa
parlare, non è scemo, pensa che sa anche scrivere!». Ed era una cosa che si
ritrovava a dire spesso, anche al distretto.
«D’accordo,
d’accordo…» mormorò lui, sfilandosi l’arma dalla cinghia
e buttandola per terra, ai piedi di Lyosha, «ho visto
quello che hai fatto, otto, e ti ho
seguito abbastanza da lontano perché volevo proporti un’alleanza», si sedette
piano, a gambe incrociate, con sé aveva solo l’arma e un taglio aveva sgualcito
il pantalone dalla parte destra, mostrando una linea rossa di sangue secco. «Lo
sai che ne hai bisogno, non avete brillato agli allenamenti».
Per
quanto gli costava ammetterlo, Lyosha dovette annuire
in sua ragione. Né lui né Ariel avevano imparato ad usare un’arma
brillantemente durante quelle due settimane, eppure Lyosha
aveva già ucciso un tributo e avvelenato un secondo. Ma non poteva andare
avanti così.
Quindi
mosse le mani in modo che Ariel comprendesse quanto Lyosha
aveva da dire, nonostante fosse contraria, socchiuse le labbra pronunciando le
parole dell’altro, «d’accordo, ma se ti diciamo che te ne devi andare, te ne
vai». La più piccola avrebbe voluto mandarlo via e basta.
Ma
non ci fu bisogno di cacciare via Sean perché, dopo i dieci colpi dei tributi
morti, il freddo della notte, le mani di Ariel che premevano contro la sua
schiena e il chiarore pallido e confuso della mattina nebbiosa che li
attendeva, il ragazzo del tre non c’era più, e con lui erano sparite le pillole
per il veleno, lo strano liquido ambrato, il tupperware
con il loro cibo.
Era
iniziato il loro secondo giorno in quell’Arena, quella dannata Arena, e loro armati solo di una coperta, dell’acqua e un
coltello che teneva ancora stretto in pugno.
Un
coltello che, pensò con gran stupore Lyosha –
inorridendo all’idea di aver ponderato una cosa simile – avrebbe voluto
affondare nel cuore di Sean.
« So che è un segreto, perché lo sento sussurrare dappertutto.»
[WILLIAM CONGREVE; tratto da “Amore per amore”]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Eccomi miei baldi giovani! Sarò molto
breve perché non ho molto da dire, assolutamente no. u.u
Inanzitutto mi dispiace per non aver aggiornato dopo
più o meno una settimana come al solito, ma questo capitolo non voleva saperne
di venirne fuori ed infatti sono stata parecchio diffidente durante la sua
stesura :/ ma ve lo do comunque con il cuore in mano, sperando che vi piaccia
nonostante tutto ♡
Alla fine l’Arena è stata scoperta da Lyosha, questa è una foresta pluviale divisa in due: la
parte inferiore è tropicale ed ogni cosa risulta velenosa, indipendentemente
dal fatto che sia commestibile o meno, se ingerita, porta alla morte. La parte
superiore (a cui si può accedere in diverti punti contrassegnati dalla presenza
delle cascate a cui Lyosha aveva prestato attenzione
alla Cornucopia) è invece una foresta nebulosa, dove l’acqua è potabile ma il
cibo commestibile scarseggia. Inoltre è popolata da uccelli, alcuni serpenti e
insetti, ma non ci sono mammiferi o cose del genere (sarebbe un po’ troppo, non
credete?)
Ho cercato di fare qualcosa di diverso
ma che non si discostasse troppo dal “dimenticabile”, ed è uscito fuori
questo. Spero che sia comunque di vostro
gradimento. ~
Di seguito, i dieci tributi morti in
questa prima giornata (otto nel bagno di sangue e due successivamente): M-2;
F-3; M-5; F-5; F-6; F-7; M-10; F-11; M-12; F-12.
E dal loft(?) è tutto, ringrazio il
seguito che pian piano cresce motivandomi sempre a continuare! ;3; non sapete
quanto mi fate felice.
Probabilmente gli errori di battitura
– e non solo – saranno leggermente più numerosi del solito, ma non sono
riuscita a rileggere con troppa attenzione causa forze esterne 3 e capitemi
se vi dico che voglio disfarmi di questo capitolo.
EDIT: (16/09) inserita nuova grafica, testo
ancora da revisionare e aggiunta citazione finale. Enjoy
~
Alla prossima!
radioactive,