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Autore: hennie    09/09/2013    0 recensioni
Crolloai sotto il peso del mondo, quando improvvisamente scoprì di essere forte abbastanza da sorreggerlo.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi girai intorno, la pioggia batteva ancora contro i vetri, zuppi, come i miei capelli.

A pensarci, non era importante;

Decisi di prendere i residui di caffé che erano rimasti nella macchinetta, con calma, sapendo che adesso ero al sicuro.

Guardai la casa spoglia,che era ornata solo da un vaso e poco più. Il vaso a cui ero tanto affezionata, e non ne conoscevo il motivo. Era il primo ornamento che mi decisi a comprare, per la mia casa. Era lì cupo, che mi fissava nella penombra, con addosso i riflessi della pioggia. Era di terra cotta. Maestoso. Poi poco più avanti lo vidi lì, appeso vicino alla finestra, che luccicava nella scarsa luce, l'acchiappa sogni. Che poi si dice porti via gli incubi, ma non ne ho mai tratto sollievo.

La cucina, ancora in disordine dalla mia uscita, stanca anch'essa di restare lì ferma, la imitai.

Mi lascai andare, lì a terra, nella mia cucina. Non riuscivo a sentire nient'altro che non fossero le mie ginocchia sul marmo freddo di quella casa vuota e gelida. Quanto tempo passò, non ne ho idea, nemmeno me ne accorsi. Ma lentamente sentì il gelido marmo che mi sfiorava il corpo, prima le gambe, poi le mani. Le mani che solo lì, trovai tremanti. Infine le guance. Le guance rigate da una strana roba ancora più gelida del marmo. Stavo combattendo, e non capivo. 

 

Mi svegliai, quando sentii  il picchiettare della pioggia sui vetri. L'odore della pioggia che tanto amavo, adesso mi sfiorava noncurante, ancora assonnata. Mi alzai, cercai la macchinetta del caffé, quando ricordai di aver finito tutto poche ore prima, indifferente, presa solo da un gesto abituale, mi trascinai sul letto.

Ancora vestita, ancora pizzicata dall'umidità della pioggia.

Guardai l'orologio, il ticchettare fastidioso delle lancette segnava le 5:17. C'è qualcosa di affascinante nella luce, alle 5 del mattino:
Fuori è giorno, e tu hai ancora la lampada accesa, perchè hai passato tutta la notte sveglio, o come nel mio caso hai passato la notte a scappare, vedendo che è giorno fuori però decidi di spegnere la luce.
Nel momento in cui la spegni, per quanto fuori sia giorno, all'interno è comunque buio, e in qualche modo sei costretto ad avere la luce accesa.
Mi rappresenta.
Per quanto fuori ci sia la luce, dentro di me, continua ad esserci il buio.

Pensai fosse l'ora di farmi una doccia. Trascinandomi in bagno lasciai dietro di me la scia di vestiti che avevo precedentemente addosso.

Vidi lo specchio, ne notai il riflesso.

Non era l'immagine che avrei creduto di trovare lì, di fronte a me.

Mi scrutaii, mi toccai in viso, tutto ciò che facevo io, era ripetuto da una ragazza, con aria d'agonia, con le occhiaie, spettinata.

Non mi riconobbi in quel ritratto raccapricciante. Mi abbassai verso il lavabo, e buttai addosso l'acqua gelida del rubinetto, rialzai il viso, e c'era ancora lì quella ragazza che mi scrutava. Decisi di lasciarmela alle spalle. Slacciai il reggiseno, tolsi lo slip, mi feci inondare da ciò che avrebbe dovuto lentamente lavare via tutte le paure, lasciandone solo il ricordo. Ma cosa potevo aspettarmi da una doccia, se non una sensazione di calore?

 

Lenta, inesorabile, pungente quasi. Il flusso della doccia, mi andava sul viso.

Mi lasciai cullare dal flusso dell'acqua, e pensavo. Pensavo, ma in realtà non capivo a cosa. Appoggiai i gomiti alla parete umida della doccia, e senza darmi tregua, passavo le mani sui capelli. Diventavano pesanti tra le dita, e sembravano sempre più numerosi.

Sfioravo il viso, mi sembrava di poter contare le gocce che mi picchiettavano le spalle, quasi a scandire un ritmo silenzioso, per poi scivolare via, rapide sotto i miei occhi, su tutto il resto del corpo.

In quel momento non pensavo, mi soffermavo solo a guardare le goccie.

Diventai tutt'uno con l'acqua, mi sentivo quasi soffocare dalla sua presenza, poi mi sconfisse.

Crollai sotto il suo peso, scivolai sotto al calore scottante, libera di poter mentire anche a me stessa.

Mi sedetti lì in terra, sul piatto-doccia bagnato, piegai le gambe verso il petto, e mi lasciai incolpare dalle gocce pesanti che zampillavano sull'esile schiena, di un male che da me non era stato provocato.

Mi illusi che l'acqua che scivolava sul viso fossero lacrime, in un momento in cui mi mancavano anche quelle.

Sentivo il flusso rado che diceva, che c'era spazio e tempo lì per me, da qualche parte. Ma non qui, non ora che mi sentivo così sola.

Vedevo la pioggia di gocce che agitavano un ramo, vicino alla piccola finestra. Sullo sfondo, il grigio delle grosse nubi mi fece capire che presto, impetuoso, il temporale sarebbe arrivato. Uscì dalla doccia, presi l'accappatoio, lo indossai. Legai in un asciugamano i lunghi capelli ramati,  e tamponai la pelle con cura. Andai in camera, presi la biancheria, la indossai, ancora infreddolita raccolsi i vestiti umidi da terra e li poggiai su una sedia.

Tutto come d'abitudine.

Gesti che duravano un nulla.

Senza curarmi di indossare altro, mi riparai sotto l'ingombrante piumone, ancora freddo e in buon ordine, per non avermi accolta nella nottata appena trascorsa, se non per qualche minuto. Mi copriva quasi completamente, mentre alle finestre iniziavano a lampeggiare i primi fulmini. Mi copriva dal freddo, dal mondo esterno, e dal ticchettio dell'orologio, che sembrava poter smettere da un momento all'altro, tenendo per sé l'arrivo del nuovo giorno.

Tirai un grosso sospiro.

Liberai la mente, e decisi che se quell'orologio non avrebbe fatto cominciare una nuova giornata, l'avrei fatto io.

 

In tutta fretta, stanca di restare rinchiusa in quella casa, indossai la felpa pesante, i primi jeans che trovai, ed uscii.Con la mia Malboro fra le labbra, e l'aria da dura sul volto, sfidai il quartiere, nella penombra mattutina, dove la pioggia si era ormai calmata, trasformandosi in gocce scarse, e pesanti.

Camminai, camminai, quando arrivata alla seconda sigaretta, mi ritrovai alla curva che portava verso la città, un portoncino nero, che mai avevo notato prima d'allora.

Ricoperto di rami, nascosto fra i cespugli, era lì davanti a me, un parco. Spostai l'erbaccia, ed entrai.

Il cancello era già aperto, chissà da quanto. Ed io ne approfittai.

Cammina lentamente, apparentemente in cerca di nulla, rassegnata al pensiero che fosse solo un parco abbandonato. Passeggiai al fianco di quelle che dovevano essere le panchine. Antiche in ferro battuto nero, con delle decorazioni sui poggia-braccia, come delle carezze nel metallo. Le fontane piccole, interrate. Verde ovunque.

Mi guardavo attorno, e vedevo alberi di ogni genere, stupendi, alti. Foglie di tutte le tonalità di verde.

Ad un tratto mi fermai.

La maestosità di un gazebo bianco mi stupì, nell'essenzialità di un piccolo parco come quello. Al punto che mi spaventò.

La sua bellezza, la sua eleganza. Splendeva di luce propria. Troppa luce. Un bagliore che mi spaventò e rese ancor più tetra la penombra in cui io mi trovavo. 

Così corsi verso l'entrata, ed inciampai nel ramo di una grossia quercia.

Fece ombra su di me e mi sentì rincorsa da qualcuno. O meglio da qualcosa. Appoggiai la testa alle ginocchia e per un momento mi rassegnai. Guardai in alto, e vidi il primo raggio della giornata.

 

Lo inseguii, e finalmente ne fui fuori.

 

Ero fuori, ma adesso dove sarei andata? Avevo il secondo turno alla caffetteria, ed ora non avevo voglia di tornare a casa e stendermi sul letto. Decisi di andare verso il portico, presi la terza sigaretta dal pacchetto, e l'accessi con il clipper bianco.

Impercettibili, le mie mani tremavano. Tirai lentamente, cercando di mandare via la tensione che avevo dentro. Mi diressi verso i gradini prima della porta di casa, e mi sedetti. Portai su il cappuccio, e poggiai la testa sul muro.

Tutto ancora così calmo, la città stava prendendo i suoi tempi per svegliarsi. 

La signora Teresa, quella che mesi prima mi aveva portato una torta di benvenuto, uscì lenta per vedere se c'era posta nel vialetto.

Rientrando, si mise a sbattere i tappeti fuori, approfittando dell'aria mattutina.

Poco dopo un signore stava scendendo dal letto, e svegliava la moglie e i suoi bambini, per farli andare a scuola. 

Tutti sembravano avere un obiettivo quella giornata, come se tutti sapessero cosa fare della propria vita, anche in quella giornata.

Quel giorno in cui stranamente, ancora non sapevo cosa fare. 

Le voci dei bambini che si lamentavano, perchè dovevano svegliarsi troppo presto, iniziarono a farsi sentire nel quartiere e con le loro anche quellei delle prime televisioni accese, per la falsa compagnia dei tipi più solitari, proprio come me. 

E anche lì mi stavo distinguendo.

Famiglie intere, padri, madri, si stavano svegliando, si stavano dando da fare per la nuova giornata.

Chi per l'interrogazione, chi per la promozione al lavoro. Chi per la ricetta della nuova torta da provare. Tutti erano impegnati, in quello che sembrava il caos più totale. Mi venne in mente, quello che era nemmeno l'anno precedente, il non volermi alzare dal letto, perchè non avevo studiato per l'interrogazione di chimica. Ed ora finalmente mi sentivo libera, da tutti quelli che erano gli impegni.

Ciò che non volevo fare, non lo facevo. Vivevo la giornata, così come la programmavo.

E non avevo uno scopo, un obiettivo, o qualsiasi altra cosa che gli assomigliasse. Pensavo che mi sarebbe bastato così e invece, ero ancora seduta lì, a prendere l'ennesima sigaretta. L'accesi. E ancora una volta tirai. Sentii il rumore lontano di pneumatici sull'asfalto che si avvicinava.

Mi chiesi chi poteva essere a quell'ora, che rientrava, e non che usciva di tutta fretta.

Un ragazzo, poco più grande di me, in una macchina. Immaginai fosse il mio vicino, quando aprì il garage e posteggiò la macchina. Si girò verso di me, e mi osservò, turbato. Scettico, quasi. Occhi sulla tonalità del nero, capigliatura sconvolta da chissà quale notte passata, era di un biondo scuro dalle mille sfumature, dal castano ramato, fino al biondo cenere. Non capì cosa vide in me, o sul mio volto in quel momento. Pensai, che forse vide ciò che io avevo visto, nel quadro raccapricciante, nel piccolo bagno di casa mia poche ore prima.

Ma mi importava sul serio? Non credevo che mi sarei mai data una risposta. 

 

Risposte, risposte. In realtà fino a dove volevo arrivare a sapere? Mi importava davvero, ciò che apparentemente importava agli altri? Non ne ero sicura. Ma del resto erano le otto del mattino, di cos'altro potrei essere stata sicura?

  
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