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Autore: everlily    12/09/2013    22 recensioni
Damon ed Elena si conoscono quando sono solo adolescenti.
Non hanno niente in comune, se non i casini e la confusione che entrambi si portano dentro. E' un'amicizia improbabile la loro, in cui i confini si confondono, a volte sofferta, ma di cui nessuno dei due riesce a fare a meno.
Anni dopo, entrambi si sono costruiti una propria vita lontani l’uno dall’altra: ma l'inatteso ritorno di Damon a Mystic Falls può ancora mandare all’aria molti piani e finire per rimettere tutto in discussione.
Dalla storia. “Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no."
AU/AH
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3. efp

3.

Miserable Lie


- And love is just a miserable lie -

(The Smiths, Miserable Lie)


Damon


Sono in anticipo di circa dieci minuti quando arrivo nell’ufficio di mio padre, dove tra poco dovrei incontrare Stefan.

Per ingannare l’attesa, sollevo di un poco le semplici veneziane bianche della finestra dietro la scrivania, quella che sulla sinistra lascia intravedere uno scorcio della piazza principale, permettendo ad un po’ di luce mattutina di entrare nella stanza.

Sposto lo sguardo sull’arredamento sobrio ed essenziale, in cui niente è fuori posto e tutto è sempre uguale a come lo ricordavo.

Prendo in mano la vecchia fotografia di mio padre, ad una qualche raccolta fondi mentre stringe la mano all’ex governatore della Virginia, che ancora campeggia in bella vista in un angolo della scrivania. Certe cose, penso con una smorfia, non cambiano mai.


“Cosa vuoi, Damon?”

Al suono secco della domanda di mio padre mentre entrava nella stanza, rimisi a posto la cornice che mi stavo rigirando fra le mani e mi distesi all’indietro sulla sedia. Lo osservai prendere posto dietro la scrivania, di fronte a me, senza che mi rivolgesse neanche mezzo sguardo.

“Una volta qua c’era una foto di Charlotte,” feci notare, ben consapevole di quanto lo avrebbe fatto irritare quell’osservazione.

Ma fu a malapena un piccolo lampo quello che attraversò la sua espressione impassibile.

“Le cose cambiano.”

Repressi una smorfia, considerando che tanto ormai non valeva neanche più la pena tirare fuori l’argomento, e puntai dritto al vero motivo per cui mi trovavo lì.

“La mia carta di credito è stata rifiutata ieri.”

“Questo è perché l’ho fatta revocare,” mi informò nell’aprire un cassetto per tirarne fuori alcuni fogli che si fece scorrere velocemente tra le dita, prima di schiacciare con decisione un pulsante sull’interfono. “Janine, ho bisogno di quei rapporti trimestrali entro due ore.”

Il suo tono non cambiò dopo aver chiuso la conversazione, tanto che impiegai qualche secondo prima di rendermi conto che stava di nuovo parlando con me. “C’è dell’altro?”

“Perché lo hai fatto?” domandai aggrottando la fronte con un filo di frustrazione, leggermente confuso ma al tempo stesso nient’affatto sorpreso che, per spese che ammontavano al massimo ad un paio di cd e qualche pieno di benzina, stessi ricevendo lo stesso trattamento di una qualsiasi ragazzina viziata drogata di vestiti e gioielli in preda ad un attacco di capricci.

“Hai quasi diciotto anni,” rispose alzando per la prima volta lo sguardo verso di me ed osservandomi come se fossi una fallimentare colonna in cui i conti non tornavano nei suoi tanto amati rapporti trimestrali. “Quando avevo la tua età, avevo già due tirocini estivi nella compagnia e l’ammissione a Dartmouth. Non c’è bisogno di dire che tu non hai nulla di queste cose.”

“Io non sono te.”

Un accenno di sorriso amaro gli passò sul volto. “Ne sono ben consapevole.”

“Cosa ti aspetti che faccia?” domandai cercando di non far vacillare la voce per la rabbia e l’umiliazione.

“Che ti prenda le tue responsabilità, tanto per cominciare,” disse inchiodandomi con lo sguardo nell’appoggiarsi all’indietro conto lo schienale. “Se questo un giorno questo dovrà essere tuo …”

“Non voglio la tua stupida azienda,” lo interruppi bruscamente.

“Allora farai meglio a trovarti in fretta qualcos’altro, o nessuno ti prenderà mai sul serio.”

Con una smorfia talmente impercettibile che sarebbe sfuggita ad un occhio meno allenato del mio, riprese a dedicare la sua attenzione a ciò che aveva interrotto, chiara indicazione che non considerava più quella conversazione come degna di nota.

“Nessuno, o tu?”


Un rumore di passi e voci nel corridoio mi riscuote dai miei pensieri.

Stefan apre la porta, tenendola ferma con una mano per far entrare qualcuno che non ho mai visto prima d’ora, un uomo distinto che trasuda professionalità dagli orli del suo impeccabile vestito fino alle punte degli altrettanto impeccabili capelli.

“Damon, ti presento Elijah Mikaelson. Elijah, mio fratello Damon.”

Elijah si avvicina e mi stringe la mano con una presa decisa ed un accenno di sorriso cordiale.

“E’ un piacere Damon, ho sentito molto parlare di te.”

“Non penso di poter dire lo stesso,” rispondo reciprocando la stretta.

“Elijah è un avvocato finanziario ed è nel consiglio degli azionisti,” spiega Stefan, invitando tutti a prendere posto con un gesto della mano, prima di accomodarsi lui stesso in una delle due poltroncine che fronteggiano la scrivania. Elijah si siede nell’altra, io invece preferisco restare in piedi, appoggiato a braccia incrociate contro la scrivania. “E’ entrato qualche mese fa in accordo con papà, nell’intento di aiutarci a riprenderci da questa situazione.”

Alzo le sopracciglia e non riesco a trattenere un’espressione sarcastica.

“Senza offesa, ma non sembri aver fatto un buon lavoro fino a adesso.”

Elijah non si scompone e mi osserva con interesse mentre tamburella distrattamente le dita contro il bracciolo della poltrona.

“Fidati, Damon, non saremmo neanche qua a parlare, se io non avessi fatto il mio lavoro.”

Gli rivolgo un sorriso tirato ma prima che io abbia il tempo di ribattere, Elijah prosegue con fare deciso.

“Andrò dritto al punto. Immagino che siate già a conoscenza della situazione lasciata da vostro padre. Damon, tu adesso di fatto possiedi la maggioranza relativa con il 40%, Stefan ne ha il 30 ed il restante rimane sempre diviso tra gli altri azionisti. Qualche mese fa, quando si è rivolto a me,” Elijah afferra la sua ventiquattrore, ne tira fuori un documento e me lo porge, “ha deciso che, in caso di una sua dipartita in condizioni aziendali ancora precarie, la mia carica di manager generale avrebbe garantito stabilità attraverso la possibilità di poter esercitare il veto su tutte le decisioni prese dal consiglio degli azionisti, comprese quelle a maggioranza assoluta.”

Sconcertato, impiego qualche secondo per realizzare a pieno il significato delle sue parole. Sposto lo sguardo dal foglio tra le mie mani a mio fratello che è ancora in silenzio in attesa di una mia reazione, ed infine su Elijah, con il quale mi scambio una lunga occhiata.

Devo fare uno sforzo incredibile per trattenermi dal non scoppiare a ridere.

“Mi state prendendo in giro? E’ uno scherzo?” domando infine, una parte di me che ancora spera che lo sia. “Mi state dicendo che quel bastardo ha trovato il modo di lasciarmi il controllo della compagnia, senza darmene … il controllo?”

“Non la metterei esattamente in questo modo ….” prosegue Elijah, una mano distesa sul bracciolo e l’altra che si muove elegantemente nell’aria, come se stesse cercando le giuste parole. “Pensala più come ad un … ‘sistema di garanzia’.”

“Grandioso,” commento aspro, posando il documento sulla scrivania e soffocando un moto di frustrazione repressa da anni, che subito riprende a bruciarmi in petto.

Nonostante tutto, devo dargliene atto: la fantasia di mio padre nell’incasinarmi l’esistenza davvero non conosceva limiti.

“Il primo consiglio sarà tra due settimane, a Richmond. Possiamo contare sulla tua presenza?”

Annuisco con una smorfia, perfettamente conscio di non avere molta scelta, mentre Elijah si alza, si riabbottona la giacca e mi porge la mano che stringo senza molta convinzione.

“Immagino che ci vedremo anche venerdì a cena?” mi domanda accennando di nuovo un sorriso, per nulla scalfito dal mio atteggiamento, “Niente affari, solo piacere.”

“Cena?” chiedo, guardando Stefan con fare interrogativo. Mio fratello si passa una mano tra i capelli ed in quel gesto mi sembra di notare un vago disagio.

“Elijah è nostro ospite su invito di Caroline,” mi spiega sbrigativo.

“A quanto pare, è lei che devo conquistare, per poter serenamente sposare la sua migliore amica,” aggiunge Elijah, una battuta che forse ha l’intento di distendere l’atmosfera, ma che su di me ha l’effetto di una secchiata di acqua gelida.

Nei brevi secondi che il mio cervello impiega per scartare la fugace illusione che stia parlando di quella piccola sputasentenze di Bonnie Bennett, prima di fare inevitabilmente due più due, Stefan

si è già affrettato a salutarlo e ad accompagnarlo verso la porta.

No,” è l’unica cosa che dico, allibito, dopo che Stefan ha chiuso la porta con un colpo secco.

“Damon …” inizia muovendo qualche passo nella mia direzione.

“No, no, no, e no,” ribadisco furioso andandogli incontro, incredulo che mi abbia davvero tenuta nascosta una cosa del genere. “L’ho già detto? No.”

Stefan scuote la testa e si stringe le braccia al petto, fronteggiandomi con altrettanta decisione.

“Lo sapevo che non saresti stato ragionevole.”

“Ragionevole? Quello …” prendo un profondo respiro, cercando con scarso successo di mantenere la calma, “Il tizio che ci sta fottendo l’azienda in cinquanta sfumature di assurdo, quel tizio, è il fidanzato di Elena? Non pensavi di dirmelo?”

“Non ci sta fottendo l’azienda. Ci sta aiutando,” ribatte lui, “E se te lo avessi detto in anticipo saresti partito prevenuto nei suoi confronti e lo avresti detestato a prescindere.”

“Già, perché invece adesso lo adoro.”

“Damon,” prosegue, “Lo so che hai un punto debole quando si tratta di Elena, ma non puoi davvero lasciare che questo comprometta ciò per cui papà ha lavorato così tanto. E’ bravo, è molto bravo, è uno dei migliori nel suo campo. Ha salvato situazioni molto più disperate della nostra, e se papà lo ha scelto c’è un motivo. Lo sai anche tu che non avrebbe mai lasciato tutto in mano al caso.”

“Ha lasciato la maggioranza della sua quota in mano a me, è evidente che la sua capacità di giudizio aveva iniziato a fare le valigie da un pezzo.”

“Pensa quello che vuoi,” Stefan si stringe nelle spalle, “Mi fido del suo giudizio. E mi piacerebbe che per una volta lo facessi anche tu.”


Non sono neanche lontanamente d’accordo con Stefan, ma al momento non vedo molte vie di uscita alla situazione in cui mi sono cacciato mio malgrado.

Certo, un’altra opzione ci sarebbe: fare di nuovo le valigie, partire con il primo aereo e sbattermene delle conseguenze. Quello sì che sarebbe un buon modo di ripagare mio padre.

Così controllo i voli, lascio perdere, mi maledico, mi ripeto che lo faccio per Stefan e qualche giorno dopo sono ancora lì, pronto ad una cena in cui dovrò ingoiare rospi uno più grande dell’altro.

“Stanne fuori, Care.”

E’ la voce di Stefan quella che avverto provenire dalla cucina, mischiata ad un rumore di stoviglie e all’inconfondibile aroma del pollo alla parmigiana di Caroline.

“Perché?” sento Caroline ribattere in tono più acuto, intanto che mi dirigo verso di loro, “Non è un diritto sacrosanto quello di impedire alle persone a cui teniamo di fare degli errori? Passami il prezzemolo, per favore.”

“No, le persone devono poter fare da sole le proprie scelte.”

“Oh, ma sul serio?” replica lei sarcastica, “Adesso vuoi davvero dirmi che tu non hai tentato in tutti i modi di convincere tuo fratello a cambiare idea e a sistemare le cose con vostro padre?”

Devo ammettere che il mio grado di simpatia nei confronti della biondina si alza notevolmente ogni volta che riesce a mettere mio fratello di fronte a tutte le stronzate che dice. Ma la soddisfazione dura poco, quando vengo colpito dalla tristezza nel sospiro rassegnato con cui Stefan risponde.

“Sì, e alla fine ha fatto comunque di testa sua.”

“State parlando alle mie spalle?” domando entrando in cucina, le teste di entrambi che scattano nella mia direzione.

“Solo un pochino,” risponde Stefan tornando ad affettare pomodori.

“Ehi! Metti giù quelle mani,” mi rimprovera Caroline puntandomi contro un mestolo grondante di salsa, mentre tento di sottrarre uno degli invitanti crostini già pronti accanto al piano cottura, “Questo è per la cena di stasera.”

“Oh, giusto,” alzo teatralmente gli occhi al cielo, “La grande cena con il grande uomo venuto a salvarci da tutti i nostri guai e dalle nostre miserabili esistenze.”

“Nessun pregiudizio, Damon, hai promesso,” mi ricorda mio fratello rivolgendomi uno sguardo eloquente.

“Sì, come no. Devo andare, ci vediamo dopo,” taglio corto.

Prima di andarmene mi chino per dare un bacio veloce sulla guancia di Caroline, sperando con quel gesto di passarla liscia per il furto di un po’ di mozzarella tagliuzzata da sotto alle sue mani.

“Guarda che ti ho visto!” mi urla dietro, “Alle otto, e vedi di essere puntuale!”


Caroline non ha di che preoccuparsi.

Sono puntuale, puntualissimo, quando due ore dopo si tratta di aprire la porta all’unica ragazza che abbia mai avuto un vero potere su di me e ritrovarmela davanti mano nella mano al suo esemplare fidanzato, perfetto ed elegante anche in maniche di camicia.

Non c’è bisogno di dire che è perfetta, e bellissima, anche lei, nel suo vestito dal taglio semplice, bianco e celeste, che mette in risalto l’incarnato olivastro e le scende a meraviglia lungo la curva dei fianchi.

Elena incrocia il mio sguardo, che si è appena soffermato sulla sua figura probabilmente un po’ più a lungo del dovuto, con un accenno di sorriso titubante ed un’ombra indecifrabile negli occhi. Mi costringo a scostare la mia attenzione da lei per passare a salutare Elijah, che nel frattempo mi porge una, ad occhio e croce, costosissima bottiglia di vino rosso italiano.

Per tutta la mezzora successiva, Stefan e Caroline fanno un lavoro eccellente per mantenere la conversazione nel territorio sicuro delle chiacchiere senza molta importanza.

“Damon, Stefan mi ha detto che hai una compagnia per conto tuo, a San Francisco,” osserva ad un tratto Elijah, seduto di fronte a me, posando il bicchiere di vino dal quale ha appena preso un sorso misurato.

“Nella Valley, in realtà,” preciso, “E non è ancora nulla più che una piccola start-up di software di protezione informatica.”

“Interessante. Non sapevo che avessi competenze in quel settore.”

“Non ce le ho, infatti,” chiarisco scrollando le spalle, “Quello è l’ambito del mio socio Alaric. Io l’ho solo aiutato a dare forma alle sue idee quando nessun’altro era intenzionato a farlo.”

“Davvero? Come mai?” continua Elijah con evidente interesse.

“Alaric è …” cerco le parole adatte per definire colui che ormai considero a tutti gli effetti un amico, “… Particolare.”

“Particolare in che senso?”

Questa volta è Elena a porre incuriosita la domanda, ed il mio sguardo scatta automaticamente nella sua direzione. Un lampo di occhi castani è subito nei miei, ma lei è più brava di me a distoglierli in fretta.

“Ha una piccola … passione, se così vogliamo dire, per le teorie cospirazionistiche. Diciamo che a volte è un po’ difficile da tenere a bada,” spiego incerto, corrugando la fronte, mentre mi torna alla mente la volta che abbiamo perso un contratto da decine di migliaia di dollari solo perché si era convinto che il cliente fosse una spia mandata dai servizi segreti.

“Che cosa molto alla Zuckerberg da parte vostra,” commenta Elijah con altro sorrisino, “Quindi quale college hai frequentato? Qualcosa nella stessa area, Stanford magari?”

Quasi mi strozzo con un boccone di pollo.

“No,” scuoto la testa, “Ero solo nei paraggi, tirando avanti per lo più con lavori saltuari e qualche classe di straforo.”

Per la prima volta, noto con una certa soddisfazione che Elijah sembra essere stato preso completamente in contropiede.

“Quindi …” inizia confuso, e nella sua voce non può fare a meno di inserire una sottile nota di biasimo, “Vuol dire che non sei neanche andato al college?”

“Neanche io sono mai andata al college.”

Questa volta sono io ad essere preso alla sprovvista dal tono fermo e risoluto con cui Elena ha risposto ad Elijah. La osservo sostenere il suo sguardo con un atteggiamento di sfida, e non riesco a non sentirmi improvvisamente piuttosto orgoglioso di lei.

“Steve Jobs non è andato al college,” osserva Caroline, con l’aria pensierosa di chi sta giocando alla lista di “personalità che non sono andate al college”, spezzando così i brevi secondi di teso silenzio che sono seguiti alla replica di Elena.

“Scusate,” scuote la testa Elijah, sinceramente dispiaciuto, “A volte tendo ad essere un terribile snob pretenzioso.” Prende la mano di Elena, seduta accanto a lui e se la porta alle labbra, posandoci un bacio e mimandole un “mi dispiace” tutto per lei.

Sono fortunatamente distratto da quella toccante scenetta grazie alla vibrazione del mio cellulare. Ne approfitto per scusarmi, alzarmi ed allontanarmi, anche se il nome di Ric sul display preannuncia già che anche quella non sarà una conversazione piacevole.

“Ehi, amico,” rispondo quando ho infine raggiunto lo studio, del quale lascio la porta socchiusa.

“Non chiamarmi amico” replica seccato, “Sono giorni che ti chiamo e tu continui ad ignorarmi. Avevi detto che saresti rimasto solo un paio di giorni ed invece è quasi una settimana che non ti fai vivo. Si può sapere cosa diavolo sta succedendo?”

“Lo so, non ci sono scuse,” rispondo portandomi due dita a massaggiare la radice del naso. “Sono solo sopraggiunte alcune cose.”

“Tipo cosa?”

“Tipo mio padre che riesce a trovare il modo di complicarmi la vita anche dall’aldilà, tanto per dirne una,” gli faccio sapere con una smorfia che tanto non può vedere,.

C’è un lungo silenzio, prima che giunga la risposta dall’altro del telefono.

“E’ così brutta?”

“Sto cercando di capirlo.”

“Mi servi qua, Damon,” mi dice infine, ed io sospiro, sapendo che ha ragione.

“Ok, senti, mandami tutto ciò di cui mi hai parlato nei tuoi messaggi e stasera farò in modo di lavorarci. Promesso.” Sento un rumore di passi provenire dal corridoio e proseguo prima che abbia il tempo di protestare, “Devo andare, ci sentiamo più tardi.”

Quando esco dallo studio trovo Elijah, intento a guardarsi intorno.

“Stavo cercando la toilette,” mi fa sapere con un sorriso di scuse.

Gliela indico e mi ringrazia con un cenno della testa, ma all’ultimo minuto, quando sto già per tornare in sala, cambia idea, mi richiama e torna sui suoi passi.

“Voglio che tu sappia che spero davvero di poter lavorare bene insieme,” mi dice schiettamente. “A dispetto di quanto puoi credere, Damon, non sono qua per ostacolarti.”

“No, sei qua per salvare il sedere a tutti quanti. Questo l’ho capito,” replico con un sorriso tirato, l’ennesimo ormai.

“Lo sai,” prosegue, facendo finta di non aver colto l’ironia nella mia voce, “Elena mi ha parlato di quello che c’è stato tra voi due.”

E’ un pugno dritto nello stomaco quello che mi colpisce al pensiero di Elena che parla di me con il tizio che le ha infilato quel maledetto anello al dito.

“Prima di venire qua, lei … Elena temeva che ci sarebbe stata un po’ di tensione. Insomma, visto che in passato siete usciti insieme …”

Stringo lo sguardo su di lui, nel tentativo di intuire dove stia cercando di arrivare.

“Usciti insieme?” ripeto perplesso.

Elijah mi guarda altrettanto stranito, e per un attimo vedo il dubbio attraversare il suo sguardo.

“Sì, mi ha detto che avete avuto un paio di appuntamenti e che non ha funzionato, che è stato molto tempo fa e, a quanto ho capito, anche una cosa di poca importanza. Quindi, come ho detto a lei, davvero non vedo in che modo possa creare tensioni, non sei d’accordo?”

Una cosa di poca importanza.

L’idea che questo sia ciò che Elena pensa di me è come acido corrosivo versato giù per la gola. Mi fa strozzare qualsiasi parola, perlomeno prima che io mi renda conto di cosa comporti tutto ciò: Elena ha mentito.

Insomma, almeno una cosa è certa, tra tutte le descrizioni fantasiose che poteva tirare fuori, quella di essere usciti ad un paio di appuntamenti, è la più lontana dalla realtà che potesse trovare. Quindi, perché diavolo ha mentito?

Ricaccio indietro l’amaro che ho ancora in bocca e metto su la mia migliore faccia tosta.

“Certamente,” rispondo tranquillo, decidendo di assecondarlo, “Una cosa da niente, di sicuro nessun motivo per creare tensioni.”

“Ottimo,” risponde sollevato. Guardo la sua mano posarsi brevemente sulla mia spalla, e quindi se ne va verso il bagno, lasciandomi a domandarmi confuso cosa diavolo sia appena successo.


Non ero mai stato un tipo dedito agli appuntamenti seri.

O forse, sarebbe stato più esatto dire che non ero mai stato attirato dall’idea di poter frequentare la stessa ragazza per più di un paio di settimane, periodo oltre il quale iniziava a manifestarsi la fastidiosa tendenza a richiedere un grado maggiore di attenzioni, un atteggiamento direttamente proporzionale soltanto alla velocità con cui diminuiva il mio interesse a concederle.

Non era neanche una questione di riservarsi la possibilità di saltare di letto in letto.

Molto più semplicemente, se mi piaceva mantenere le cose su un piano strettamente casuale era perché c’era una cosa che avevo capito fin dal principio: frequentare ragazze nel lungo periodo richiedeva un grado di impegno che io non avevo alcuna intenzione di dedicare né a quella né tantomeno a qualsiasi altra cosa.

Ecco perché non so cosa mi fosse saltato in testa la mattina che incrociai Elena Gilbert - la ragazzina con cui avevo piacevolmente flirtato la sera del falò di fine anno, la stessa ragazzina che a malapena aveva alzato lo sguardo su di me quando qualche sera prima mi ero offerto di riaccompagnarla a casa insieme al padre ubriaco - mentre camminava frettolosamente verso scuola guardando in continuazione l’orologio per l’evidente timore di essere in ritardo.

Anzi, il problema non fu neanche quello. Del resto, io le offrii lo stesso passaggio che avrei proposto ad una qualsiasi altra ragazza in grado di incuriosirmi, e lei, come la volta precedente, accettò più che altro per mancanza di valide alternative.

Il problema semmai furono i giorni successivi, quelli in cui ci ritrovammo ad incontrarci sempre allo stesso orario e allo stesso posto, finendo per rendere quei passaggi una tacita abitudine molto meno casuale di quanto entrambi fossimo disposti ad ammettere.

“Cosa stai facendo?” le domandai un giorno, irritato, dopo che ebbe buttato distrattamente la borsa ai suoi piedi e si fu sistemata sul sedile della Camaro con il naso ancora completamente immerso nel libro che teneva in una mano.

“Sto ripassando,” rispose senza alzare lo sguardo, sfogliando una pagina del libro adesso in bilico sulle sue ginocchia.

“Non quello,” sbuffai, “Quello.”

Staccai un attimo lo sguardo dalla strada per scoccare un’occhiataccia in direzione della mela che aveva appena addentato nella sua mano sinistra.

Si voltò verso di me con gli occhi resi ancora più grandi dalla sua espressione disorientata.

“Non hai mai visto qualcuno mangiare una mela?”

“Nessuno mangia nella mia macchina,” ribadii secco.

“Ma é una mela, non conta, guarda, non sbriciola neanche!”

Me la mise sotto al naso, gesto al quale mi sottrassi con una smorfia, ma quando mi voltai a guardarla, sbatteva le ciglia con una tale aria innocente che fu un’impresa trattenermi dal non sorriderle.

“Cosa stai leggendo, in ogni caso?” le domandai tanto per sviare l’attenzione dalla mia poco onorevole capitolazione.

“Ho un test sulla guerra civile alla terza ora, e nei giorni passati non ho avuto tempo di studiare,” rispose riportando lo sguardo sul libro e scostandosi la ciocca di capelli che immancabilmente le finiva sugli occhi ogni volta che eseguiva un movimento troppo brusco con la testa.

“C’è qualche modo in cui posso darti una mano?”

“Sai niente sulle vicende del fronte orientale?”

“No, è Stefan quello bravo con le date. Intendevo ...” esitai lasciando scivolare le dita sul volante, “Posso dare un mano al Grill?”

Si voltò di scatto, il volto attraversato da un’espressione a dir poco stupita.

“Mio padre vuole che mi trovi un lavoro,” le spiegai stringendomi nelle spalle, “Beh, in realtà vuole che lavori per lui, perciò presumo che lavorare in un bar dovrebbe essere un’alternativa in grado di farlo uscire di testa al punto giusto.”

“Non lo so,” mormorò con fare improvvisamente distante, spostando nervosamente lo sguardo altrove, fuori dal finestrino. “Dovrei chiedere a papà.”

Divenne silenziosa per tutto il resto del tragitto, anche a dispetto di tutti i miei tentativi di conversazione che finirono miseramente in nient’altro che una serie di monosillabi. Tanto che quando arrivai a parcheggiare davanti a scuola mi stavo ancora domandando cosa diavolo avessi detto per farla reagire così.

“Beh, ci vediamo,” la salutai, dopo che ebbe raccolto le sue cose, compreso il torsolo di mela che infilò momentaneamente in una tasca esterna della borsa.

Ma quando si voltò per salutarmi di rimando, il suo sguardo si fissò su un punto alle mie spalle e le sue sopracciglia si corrugarono in un’espressione contrita.

Mi girai e notai Alison, una ragazza del penultimo anno che avevo frequentato per un po’ durante l’estate, parlottare con una sua amica nella nostra direzione.

“Ti sei dato alle scopate per pietà, adesso?” mi apostrofò indicando Elena con un cenno della testa.

“Con quelle ho chiuso dopo che ho smesso con te,” replicai sorridendole imperturbabile.

Serrò le labbra in uno sberleffo e scrollò le spalle, ma di fatto se ne andò senza aggiungere altro. Tornai a scrutare Elena, che però continuava a non guardarmi e ad avere il volto contratto in una smorfia amareggiata.

“Non é la sola a dirlo, sai?” mi disse piano, “Sento cose simili tutti i giorni. É vero, é così? Sei gentile con me perché vuoi portarmi a letto?”

Rimasi ad osservarla, senza sapere bene cosa dire. Avrei mentito se avessi detto di non averci mai pensato, ma avrei mentito anche se avessi detto che era solo quella la ragione che mi spingeva a cercare la sua compagnia.

Di fronte al mio silenzio, Elena scosse la testa ed allungò la mano per aprire la portiera, pronta ad andarsene.

“No, non é così” mi precipitai subito a rassicurarla. Si bloccò e si girò nuovamente verso di me, incrociando incerta il mio sguardo. “E poi non é vero che sono gentile con te, non ti faccio neanche mangiare nella mia auto.”

“Mi hai fatto mangiare la mela,” osservò.

“Quella non conta, l’hai detto anche tu,” mi strinsi nelle spalle.

“Quindi …” esitò, scrutandomi dal sotto delle ciglia scure, “… Questo significa che … siamo solo amici?”

Esitai anch’io.

Non sapevo cosa stesse succedendo con lei, ma c’era qualcosa nel modo in cui mi pose quella domanda, la prospettiva di poter trovare una sorta di appiglio, che finì per farmi fregare con le mie stesse mani. In ogni caso, mi dissi, era solo una ragazzina, troppo piccola perché potessi davvero considerarla in altri modi.

“Certo,” le sorrisi, “Solo amici.”

E quello, in quel preciso istante, fu l’inizio della sola e unica menzogna che ci saremmo raccontati anche negli anni a venire.


Quando torno in sala, Elena sta ridendo ad un racconto di Caroline, qualcosa che coinvolge Carol Lockwood, una sciarpa e una rana, e che in teoria è roba classificata come altamente top secret all’interno del Consiglio Cittadino. Queste sono le cose che ci nascondono i governi, mio caro Ric.

Elena solleva lo sguardo verso di me nel sentirmi rientrare. Noto con piacere che la traccia di quella risata è ancora lì a piegare gli angoli delle sue labbra e che non solo non svanisce, ma anzi per un breve attimo, quello in cui i miei occhi incontrano i suoi, si estende e sembra ravvivarsi ancora un po’ di più.

E’ in quel momento che ripenso a ciò che mi ha detto Elijah poco fa, a ciò che lei gli ha raccontato, e rifletto che, forse, per lei posso riuscire a mentire anche questa volta.

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Spazio autrice.


Eccoci qua, svelata l'identità, svelato il mistero. :)

Siete state proprio in tante ad ipotizzare il nome di Elijah, ma come ho detto a qualcuna non era tanto importante l'identità in sè, quanto il ruolo che avrà nei confronti di Damon ... ecco perchè ho pensato che fosse più divertente farlo scoprire attraverso i suoi occhi (sì, lo so: ho uno strano concetto di divertente).

Lo so che la parte "finanziaria" sono questioni pallose (tranquille che rimarrà completamente sullo sfondo), ma sopportatemi un attimo perchè è bene che la situazione in cui si trovano sia chiara: in pratica, anche se l'azienda è per la maggior parte in mano a Damon (e, in misura minore, Stefan), non muove foglia che Elijah non voglia. So che potrebbe sembrare assurdo, ma qualcuno che ne sa più di me mi ha assicurato che sì, sono situazioni che possono davvero capitare. E intanto il nostro Damon fa i salti di gioia.


Spero che, anche se siamo ancora agli inizi, il capitolo vi sia piaciuto e che non siate rimaste deluse. Non fatevi problemi, davvero, a farmi sapere qualsiasi dubbio o qualsiasi critica.

Vi ringrazio tutte di cuore per il seguito e per tutte le vostre bellissime recensioni! Apprezzerò moltissimo se volete lasciarmi anche solo due righe.

A presto!

un bacio


   
 
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