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Autore: Swish_    12/09/2013    2 recensioni
Il protagonista in questa storia non è un assassino. Non è un mostro. Non è un quaderno né un Dio sovrannaturale annoiato. Il protagonista in questa storia è una lei, una ragazza normale e semplice che si ritroverà ad un faccia a faccia con la mente più geniale, cinica e calcolatrice dell'intero mondo.
Un caso investigativo avrà proprio lei come punto focale e a farle capire quanto quella situazione sia pericolosa per lei quanto per il resto del mondo, non sarà un'amica, un parente, o un ragazzo bello ricco e famoso. A farle fare la pazzia più grande della sua vita, a farla cambiare, a farla addirittura innamorare sarà un piccolo genio cresciuto nella solitudine di un ruolo ambito e irraggiungibile. Un ragazzo nelle cui mani sono passati i casi più difficili e irrisolvibili dell'intero globo, tra cui anche l'impossibile caso del Death Note, il quaderno della morte.
Ebbene sì, quel ragazzo sarà proprio L.
Lo stesso L che è riuscito a sopravvivere a Light. Lo stesso che è restato a guardare cosa poi gli sarebbe accaduto.
Come avrà fatto a sopravvivere?
E soprattutto come si comporterà di fronte ai nuovi problemi del caso, tra cui l'amore?
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: L, Mello, Near
Note: AU, Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Tutto ebbe inizio l’estate scorsa, o meglio all’inizio di quel Giugno. Avevo da poco superato l’ultimo esame del primo anno nella facoltà di psicologia, a Roma. Mi ero trasferita lì un anno prima e condividevo il mio adorabile appartamento in affitto con una delle migliori compagne che la vita potesse presentarmi: Sarah.
Io e Sarah ci conoscevamo dal liceo, ed eravamo sempre state identiche sin dal primo istante. Ce ne accorgemmo in un attimo; e dopo innumerevoli avventure, esperienze e soprattutto risate isteriche, senza nemmeno reseci conto poi di aver già passato cinque anni assieme e quindi arrivate alla fine del periodo scolastico del nostro ultimo anno da liceale, decidemmo di scappare via insieme dalla monotonia asfissiante del paesino provinciale in cui eravamo state costrette a vivere fino a quel momento, e compiere la pazzia più grande e irragionevole che due giovani donne potessero mai concepire: andare a convivere nella capitale della propria nazione.
I primi due o tre mesi furono a dir poco difficili; trovata la casa, pagata la caparra ed altre spese, non ci rimaneva che lavorare per potercela mantenere.
- Un gioco da ragazzi… - disse Sarah, la sera dopo il nostro trasloco.
- Il posto di lavoro ce l’abbiamo già, ci basta solo mantenerlo per i prossimi cinque anni o poco più!– continuò, inspirando un’altra boccata di sigaretta con sguardo assorto.
Se ne stava lì, comodamente appollaiata sul nostro “nuovo” sofà, circondata da altri scatoloni che lei riusciva bene ad ignorare, a differenza mia.
- Sarah, vuoi darmi una mano? – le supplicai con tono stanco, ripiegando l’ennesimo scatolone appena svuotato. Mi passai una mano sulla fronte emanando un forte sospiro, cercando di asciugarmi il sudore che testimoniava tutta la fatica di quel giorno. Il trasloco mi aveva davvero sfinita.
- Mi senti o no? – insistette Sarah, ignorando ciò che le avevo appena chiesto.
- Sì, sì, ho sentito, lo so! – sbottai io, rinunciando anch’io all’ordine della casa, ancora ben lontano, e raggiungendola sul sofà. Ne avevo davvero abbastanza di scatoloni per quella giornata.
Sarah mi porse la sua sigaretta con un solo gesto della mano, che io accettai quasi subito.
- Non puoi davvero farmi credere che riuscirai a sopportare quel lavoro per così tanto tempo… - ripresi a dire io, espirando il fumo grigio intriso del sapore dei miei polmoni.
- Ce la posso fare! – protestò lei, riprendendosi con calma la sua sigaretta.
- Fare la cameriera in fondo non mi dispiace. Lavorando la sera ho la possibilità di frequentare i corsi universitari che mi serviranno… E poi, con la mancia posso lasciarmi scappare uno di questi sfizi ogni tanto! -
Sarah mi sorrise languidamente, porgendomi aperta la sua mano sinistra sotto i miei occhi per mostrarmi l’ennesimo anello gigante e psichedelico. Uno dei tanti, ormai era diventata la sua passione.
- Wow… - risposi divertita.
- Ottimo acquisto! – continuai, sorridendo.
- La prossima volta che qualcuno si rivela generoso con le mance, però, pensa pure alla tua nuova coinquilina… okay? – sogghignai.
- La solita egocentrica… - rispose lei, alzando ironicamente gli occhi al cielo mentre schiacciava la cicca consumata nel posacenere di metallo.
- Piuttosto non so come farai tu, con quell’impiego. Facendo la segretaria sarai impegnata quasi tutte le mattine. Come farai con l’università? -
- Me la caverò in qualche modo, non preoccuparti… - cercai di tranquillizzarla esibendo il migliore dei miei sorrisi, con tanto di occhiolino. Sarah reagì quasi subito, sorridendomi a sua volta; forse c’ero riuscita davvero.
- Quand’è che cominci, a proposito? – mi chiese poi, riponendo il posacenere sullo scatolone più vicino.
- Questo lunedì! – risposi rialzandomi, mentre pensavo a come sarei realmente riuscita a cavarmela nei prossimi mesi, se non anni. Sarei stata davvero capace di gestire lavoro e studio senza problemi? Ne dubitavo molto.
Mi stiracchiai lentamente, con tanto di sbadiglio, mentre Sarah restò a fissare il vuoto in silenzio, come incantata.  Era una giovane donna intelligente e perspicace, dal carattere non sempre piacevole, devo ammetterlo, ma d’altronde chi davvero può dimostrare di avere un carattere perennemente sopportabile? In compenso, stare con lei era sempre stato una pacchia assoluta, indipendentemente da come le girassero. Era chiara e sincera, senza peli sulla lingua, eppure riusciva sempre a mantenere una certa delicatezza nelle sue parole… Almeno fin quando per lei ne possa valere la pena. D’altro canto a volte se voleva davvero mandarti a ‘fanculo, lo faceva senza tanti giri di parole.
Avevamo sgobbato tutta la giornata quella volta, ripromettendoci di finire entro quel giorno, ma dopo aver cenato Sarah esibì bandiera bianca, posizionandosi sul sofà con la sua immancabile sigaretta… E così rimasi da sola a preoccuparmi di tutto quel casino, finché non issai anch’io la mia bandiera di resa e lascia perdere. In fondo non potevo darle tanto torto.
Io proprio non riuscii a capire come Sarah facesse a mantenersi così tranquilla nonostante tutti quei cambiamenti… La stessa persona che per il biglietto di un concerto era capace di urlare, piangere e sbraitare senza sosta almeno per un paio d’ore!
La osservai velocemente prima di “risvegliarla” dal suo stato di momentaneo limbo: i lunghi capelli castani legati con uno chignon, gli occhi scuri persi nel vuoto, canotta leggera bianca e pantaloncini neri sotto. Non so di preciso cosa avesse di così speciale, ma Sarah era di una bellezza rara, che non sono mai stata capace di rivedere in nessun altro.
- Sarah… -
Sarah balzò gli occhi su di me all’istante, con aria interrogativa.
- Benvenuta nella tua nuova vita. – le dissi, con tono dolce.
Rimanemmo così, a sorriderci in silenzio per qualche istante, dopodiché mi piegai veloce per riprendere il posacenere sullo scatolone e dopo averlo riposto al suo vero posto, me ne andai in camera mia, stanca ma curiosamente felice.

Un anno dopo le cose non erano cambiate poi così tanto. Sia io che Sarah eravamo riuscite a mantenere i nostri rispettivi posti di lavoro, anche se con non poca fatica. Dopo violenti litigi iniziali, alla fin fine eravamo riuscite con successo a stabilire un certo equilibrio in casa, da coinquiline rispettabili e civili quali volevamo essere. Quel preciso giorno, d’inizio Giugno, ero completamente in balia degli impegni asfissianti di una “giovane donna in carriera”, come Sarah amava tanto soprannominarmi. Ero la segretaria del vicedirettore di una grande impresa nel mondo della biochimica…
- Signor Bustri? – con molta cautela, sbirciai dietro la porta del suo studio. Era una grande stanza, illuminata e ariosa, con una devastante vetrata alle spalle della suntuosa scrivania che ospitava ogni giorno il fantomatico “Mister Ghiaccio”.
Vi fu un periodo abbastanza lungo in cui il signor Bustri veniva chiamato solamente con quel soprannome, tra i suoi dipendenti. Poco dopo essere arrivata qui però, venni a sapere anche che la donna che mi aveva preceduta come segretaria era stata licenziata proprio perché una volta sbagliò nome in sua presenza, invece che chiamarlo “signor Bustri”, lo chiamò “signor Ghiaccio”.
Da allora tutti i suoi impiegati ebbero il terrore totale di quel nome; addirittura arrivarono a sentirsi a disagio anche solo per chiedere il ghiaccio del tè ad alta voce.
Ovviamente ebbi modo di scoprire anch’io in prima persona quanto questo temibile uomo fosse “glaciale”, soprattutto quando qualche mese prima in vista di un grosso convegno a livello mondiale, mi fece sgobbare fino a notte fonda senza neanche l’ombra di un aumento.
Passai lo sguardo sulle larghe librerie per poi darmi coraggio e passare alla grande poltrona in pelle dove ormai ero abituata a ritrovarlo. Una piccola parte di me sperò vivamente di non trovarlo anche quella volta…
- Signorina De Ludi… Mi dica. - … ma ovviamente sapevo bene che era impossibile.
- Io avrei finito, quindi se a lei non dispiace, me ne vado… -
- Ha mandato tutti i fax che le avevo chiesto? -
- Certamente, signore. – “Altrimenti come avrei potuto dire di aver finito?” mi conservai mentalmente un’alzata d’occhi per quando sarei uscita.
- Va bene, allora… -
Tirai un lieve sospiro di sollievo e feci segno di richiudere la porta.
- Di nuovo in moto oggi? -
Mi bloccai all’istante, non riuscendo ancora a capire bene se avesse davvero parlato oppure me lo fossi sognata. Cercai di levarmi quell’espressione accigliata e risposi:
- Ehm, sì, signore. – mi sporsi di nuovo sull’orlo della porta per tornare a guardarlo, stentando automaticamente un sorriso imbarazzato.
Il signor Bustri d’altra parte non sembrò degnarmi nemmeno di un’occhiata, tenendo sempre gli occhi bassi sui suoi fogli.
- Capisco… - si limitò a rispondere, con tono vago.
Passarono lunghi istanti di terribile imbarazzo entro i quali rimasi lì impalata accanto alla suntuosa porta in legno intagliata del suo studio, non capendo se fosse tutto oppure non avesse ancora finito di parlare. Nonostante i secondi passassero lui non accennò ad altro, così mi decisi a chiudere di nuovo la porta.
- Faccia attenzione, stasera. – lo sentii dire poco prima del clic della serratura. Avrei dovuto riaprire quella porta e rispondergli? Rimasi immobile come un’imbecille dietro quella porta ancora per qualche secondo, indecisa. Fissai accigliata la mano ancora ben stretta alla maniglia di metallo dorato…
- Ooohh, ma vaffanculo! -
Girai i tacchi (da 165 euro) e me ne andai con passo svelto e deciso.
Il sole stava calando ma l’aria restò calda e afosa tutto il tempo. La città  era ancora viva e le strade brulicavano ancora di persone d’ogni genere. Mentre mi allontanavo dalla grande e anonima entrata dell’edificio per dirigermi verso il parcheggio, sentii il mio cellulare strimpellare “New Born”.
- Oh, cavoli! -
Incespicai con la borsa per un bel po’ prima di trovarlo, tanto che nel frattempo ero già arrivata alla mia adorabile e perfetta Ducati appena comprata.
- Pronto? – il mio tono fu tanto minaccioso e infastidito da farmi sembrare quel “pronto” un’ingiuria.
- Ehi tigre, tutto bene? -
- Sarah! Scusami ma vado di fretta, sono appena uscita da lavoro e stavo giusto per tornare a casa…-
- Oh, d’accordo. Volevo solo avvisarti che non mi troverai a casa al tuo ritorno, sono ancora in giro con amici e… -
- Non preoccuparti! Divertiti… - sentii Sarah sorridere all’altro capo del telefono.
- Va bene. E tu non correre col tuo nuovo missile! -
- Ci proverò! -
Staccai la chiamata con il sorriso sulle labbra. Sentire anche solo la voce di Sarah mi tranquillizzava… E proprio non riuscivo a capire il perché. Forse perché ormai associavo la parola “casa” a lei, e non più ai miei asfissianti genitori immaturi.
Riposi velocemente il telefono nella borsetta, la indossai a tracolla  e passai alla giacca di pelle e al casco. Indossati anche quelli, salii e misi in moto. Lasciai rombare il motore una, due, tre volte… Assaporando quelle vibrazioni che raggiungevano ogni punto focale del mio corpo. Ne era valsa la pena di aver fatto la fame per mesi pur di risparmiare qualcosa e comprarsela. Potrei definirla uno dei miei migliori obiettivi raggiunti, tra le soddisfazioni più grandi d’un’intera esistenza. Sognavo questo momento sin da piccola, e finalmente, adesso…
Partii decisa e veloce come un razzo, entrai in strada come un missile e puntai dritto verso casa.
Se solo avessi saputo cosa mi stesse aspettando dietro l’angolo…
Quando salii sulla strada statale, mi accorsi con non poca sorpresa di essere seguita. Me ne resi conto con certezza dal fatto che non appena effettuavo un sorpasso, una macchina di lusso bianca faceva altrettanto, e puntualmente me la ritrovavo dietro.
Cominciai a spingere ancora più veloce, preoccupata anche dal fatto che il buio era già calato e il tratto di strada che dovevo ancora superare era sempre poco trafficato.
Nonostante l’alta velocità la macchina bianca non ebbe difficoltà a starmi dietro, e fu proprio lì che cominciarono i miei veri problemi.
Sta’ calma e concentrati sulla strada…” ingranai la settima marcia con tutta l’energia e l’adrenalina che sentivo scorrermi nelle vene in quel momento, e per me fu come aver dichiarato appena guerra a chiunque stesse guidando quell’auto.
Concentrati sulla strada…” sgranai gli occhi fissi davanti a me. Sentivo il cuore balzarmi in petto con forza, come mai prima d’allora.
Sta’ calma…” feci balzare fugacemente gli occhi sullo specchietto retrovisore, e un altro tonfo mi colpì in pieno petto: la macchina era ancora lì dietro di me, anzi era addirittura avanzata.
Tutto ciò che accadde dopo quel preciso momento fu breve e conciso, e allo stesso tempo, tutto quello che riuscii a ricordare fu un lampo improvviso che mi accecò gli occhi, dopodiché un tonfo assordante, simile al suono di uno schianto, un dolore insopportabile, e poi… il buio.

- Smithers, basta con la morfina. -
- Signore, le ferite sono ancora ben profonde… -
- Non si sveglierà mai, se continua a dargliene. -
- Ma… Signor… -
- Smithers. -
- Va bene, signore. -
C… Cos… Dove sono? Cosa mi è successo? Chi parla?” in un primo momento ero davvero convinta di aver detto ad alta voce quelle parole, ma poi realizzando il fatto di sentirmi ancora persa nel buio e di non aver percepito nessuna risposta dall’altra pare, capii chiaramente che i miei sensi erano ancora ben lontani dalla mia vera e propria coscienza.
Dopo quell’attimo in cui riuscii a ricollegarmi alla realtà, anche se per poco, ritornò il buio assoluto e la completa incoscienza. Finché poi…
- C… Com… Cos… -
- Smithers! Smithers! Venga subito! -
Con uno sforzo che in quel momento mi parve sovrumano, finalmente fui di nuovo capace di riaprire gli occhi. La vista era ancora annebbiata, ma la luce bianca e accecante della stanza riuscì comunque a stordirmi. Cercai di sbattere il più possibile le palpebre per riuscire a vederci meglio qualcosa.
- Dove… Dove… - non riuscivo neanche a formulare più di una parola. Ero totalmente confusa e stordita, e per di più sentii i sensi del mio corpo ritornare lentamente,e di conseguenza  anche dei dolori acuti e insopportabili.
- Ahio… - cercai di toccarmi la gamba, che mi doleva da morire, ma appena provai a muovere il braccio sentii una fitta di dolore ancora più forte percuotermi per tutto il corpo.
- Ah! -
- Stia calma, signorina. Come si sente? -
Guardai l’uomo anziano che era improvvisamente apparso al mio fianco e che mi aveva appena posto quella domanda così terribilmente stupida, e lo fissai come se mi avesse appena detto che i pinguini avevano da poco imparato a volare.
E’ davvero stupido, o cosa?
- L… Lei… Che cosa dice? – sussurrai, irritata.
L’uomo sembrò abbastanza imbarazzato da quella risposta. Bene, una piccola vincita per me, dopotutto.
L’uomo in questione era sulla cinquantina, ma riuscii a capirlo solo dai capelli grigi e da qualche piccola ombra di rughe sul suo viso pallido; per il resto avrei potuto dire tranquillamente che se li portava bene i suoi anni. Non indossava un camice o alcun vestito professionale capace di farlo riconoscere come un dottore. Indossava un semplice maglioncino di cotone blu scuro e pantaloni classici bianchi. Lo vidi sbattere le palpebre giusto due volte, prima di eliminare ogni traccia del suo imbarazzo:
- Capisco. Sente molto dolore? -
Ma questo ci fa o ci è!?” schiusi le palpebre per risparmiarmi una sicuramente maleducata alzata d’occhi, anche se in quel momento avrei tanto voluto poterla fare.
- Si… - mi limitai a rispondere.
- Cerchi di resistere, signorina. Tra poco le somministrerò un’altra dose di morfina. -
- D… Dove mi trovo? C… Che cosa è succes… -
- Sei in un quartiere generale a capo delle indagini sulla Liebel&Co. -
Sentii la voce di chi mi aveva appena riposto ben lontana da me. Non era stato quell’uomo a parlare, ma qualcun altro che io non riuscivo a vedere.
- Chi… -
- Smithers, può andare, grazie. – gli sentii dire di nuovo. Dalla voce ero sicura che fosse un uomo… Un ragazzo. Ma dov’era? Provai a sporgermi piegando il collo, ma non feci altro che infliggermi da sola un’ennesima fitta di dolore lancinante.
- Ah! -
Voltai di nuovo lo sguardo verso l’uomo che avevo di fianco… Ma era sparito. Non c’era più. Per qualche istante sentii solo silenzio, dopodiché udii un piccolo clic, e il mio letto cominciò a vibrare.
Ma che cazz…
Sentii la parte superiore del mio corpo alzarsi lentamente, fino a farmi assumere una posizione eretta con la schiena, come se fossi seduta, dopodiché si fermò. Una volta messa in quella posizione, riuscii ad avere una visuale ben più chiara della stanza in cui mi ritrovavo.
Le pareti erano bianche e sobrie tranne che per quella alla mia destra, che per la sua metà superiore esibiva una larga vetrata che dava su grattacieli metallici e possenti che io non riuscivo a riconoscere. Di fronte a me invece, vi era un divano di pelle nero da dodici posti, e proprio al centro vi era un ragazzo. Aveva dei capelli lunghi e lisci, neri, lucidi ma scompigliati come quelli di un bambino. I suoi occhi, appena visibili sotto le sue lunghe ciocche ribelli, erano dello stesso colore del carbone, e mi fissavano con fin troppa concentrazione. Quel suo sguardo indagatore quasi mi spaventava. Era seduto su quel divano con una gamba stretta in petto, e l’altra a penzoloni. Sul ginocchio della gamba rialzata, inoltre, ci teneva poggiato un gomito, e con la mano di quello stesso braccio si premeva le labbra schiuse con un pollice.
- Ciao. – mi disse, con un tono dalla difficile interpretazione.
Io d’altro canto riuscii a distogliere lo sguardo fisso nei suoi occhi solo dopo qualche momento, e intravidi allora il telecomando che teneva stretto nell’altra mano, ancora puntato verso di me… O meglio, verso il mio letto.
- Chi sei…? -
Il ragazzo abbassò il telecomando e lo poggiò al suo fianco, senza però staccare mai i suoi occhi spalancati da me, nemmeno per un secondo.
- Strano… - rispose lui, con tono basso.
- Con chissà quante domande che ti staranno assalendo la testa in questo momento, perché la prima a cui dai voce è proprio questa? -
Sentii l’imbarazzo invadermi il viso e sperai con tutta me stessa di non stare arrossendo.
- I… Io… -
- Non sforzarti adesso, e ascoltami. Tutto ciò che sto per dirti ti sembrerà assurdo. Sempre ammesso che tu sia davvero stata all’oscuro di tutto fino ad oggi… Ma ad ogni modo, per adesso accontentati di questa… Sciocca domanda. Tu conosci… L, Sofia? -





 
   
 
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