Era stata una mattina pesante, avevo finalmente
spostato Zingaro nelle scuderie di Kristine (il lavoro al Bayern rendeva
piuttosto bene!) e avevo finito di sistemare sella, finimenti, cassone da viaggio, tutto
insomma! Per di più il mio dolce stallone aveva stabilito che rotolarsi
nel fango era proprio un bel gioco. Ne ero uscita un disastro!
Lo stavo riportando nel box
dopo averlo accuratamente strigliato, quando mi trovai la strada sbarrata da
una ragazza alta, mora, le gambe lunghe e ben tornite fasciate da candidissimi
pantaloni da equitazione. Una maglietta rossa attillata metteva in
risalto il seno piccolo e la vita stretta. Era perfettamente truccata, i lunghi e
serici capelli neri raccolti in un’elegante crocchia appena sotto la nuca.
Mi squadrò da capo a piedi facendomi sentire, se possibile, ancora più intimidita: la
maglietta bianca che indossavo, larga e un po' sformata, era macchiata
e coperta di peli di cavallo mentre alcune ciocche erano sfuggite dal mollettone
che stentava a raccogliere la massa ribelle dei miei capelli. Inoltre ho sempre
avuto la vita stretta, ma le gambe non sono e non saranno mai perfettamente
modellate…
Abbassai lo sguardo chiedendo
permesso.
“Ma prego!”esclamò e si profuse in
un inchino tanto cerimonioso quanto fasullo “E così tu saresti l’ amichetta di Benji Price…”
Il tono ed il significato delle parole mi fecero infuriare. Alzai gli
occhi ad incontrare i suoi “Io non sono l’amichetta di Benjiamin! Sono sua amica.
Punto!”
Un
sopracciglio scattò in alto con fare altezzoso “Già… L’amica del
cuore che monta lo stalloncino salvato dal macello nella speranza di portarlo
nei Grand Prix…”
Misi Zingaro nel box, chiudendo piano la porta e mi preparai ad
affrontare l’arpia. Non l’avevo mai vista prima d’allora di persona ma sapevo
di chi si trattava: Pamela Klein.
“Ma chi sei? Solo perché ti fai
suo cugino e ti vanti di aver mollato tu Benjiamin, chi diavolo ti credi di
essere?!”
Mi si avvicinò, tanto da sovrastarmi di tutta la testa, gli occhi
stetti come un gatto furioso “Chi ti credi di essere tu! Guardati! Pari uscita da
una fattoria! Ma sai cosa vuol dire essere la compagna di un Price? Ti rendi
minimamente conto di cosa significhi? Sai chi è Benjiamin Price? Non solo
un giocatore di fama internazionale, no! E’ anche l’erede di una delle più
importanti multinazionali nipponiche! Sai cosa vuole dire essere la sua
donna?”
Mi sentii morire. Quelli, anche quelli, erano i motivi per cui avevo
rifuggito il bacio a Zurigo.
“Non capisco perché tu stia facendo
questo discorso a me!” Mi piantai davanti a lei a braccia conserte, lo sguardo dritto
nel suo.
Gli occhi castano verdi mandarono
un lampo malizioso “Vi ho visti giocare tre settimane fa, sai? Giocare… Sì,
certo! Ho visto come ti stringeva, ho visto come vi sorridevate, ho visto come
si comporta con te! Lo conosco, sai…”
La interruppi. Non volevo sentire. Non volevo che dicesse la frase che temevo "Piantala!"
urlai furibonda "Ma se anche fossi la sua ragazza, a te che cosa importa?! Saranno
affari suoi!”
Mi si accostò di più, sul viso perfetto cattiveria e alterigia “Ti sbagli, ragazzina!
Sono eccome affari miei! Kevin sarà a capo di un’importante sezione della
Price ed è intollerabile che il suo diretto superiore possa avere accanto a
sé una ragazzetta scialba ed inadeguata, assolutamente impreparata ed inadatta a
quel ruolo! La Price non si può permette di accogliere una Cenerentola
qualunque!”
“E’ inutile che ne parli con me! Io non sono la ragazza
di Benjiamin!” Di nuovo, avevo quasi urlato.
Sbuffò allontanandosi ma
continuando a fissarmi
“Bene. Spero sia per me che per te che la situazione resti tale…”
Si avviò verso l’uscita delle scuderie, fermandosi accanto al box di Rouge e voltandosi mi lanciò
l'ennesima occhiata altera “Ah, scordavo! Se hai intenzione di darti sul serio al dressage, sarà il caso che
ti compri un cavallo vero! Dubito che con quel coso tu possa mai partecipare ad
un Gran Prix!”
Mi aveva stesa moralmente ma a quell’insulto rivolto
a Zingaro sapevo come rispondere “Io, almeno, il mio cavallo sono in grado di
montarlo. Tu, il tuo?”
Si voltò con un sorrisetto strafottente “Rouge è un investimento.
Per mio conto, lo monta Alan Letterman. Sai chi è, non è vero? Con
lui in sella vincerà certamente sia il Gran Prix di Lucerna che quello di
Colonia. Tu, piuttosto: non mi pare di averti mai vista in gara, o sbaglio?” e
così dicendo si voltò, andandosene senza darmi occasione di ribattere.
Rimasi
immobile, aggrappata con una mano all’inferriata del box, incapace di muovermi.
Incapace di pensare. Solo dopo parecchi minuti mi accorsi che stavo piangendo.
Aveva ragione. Aveva dannatamente ragione.
A Zurigo l’avevo rifiutato
soprattutto per quello. Per quello l’avevo scaraventato tra le braccia di
Marjorie. Lei, così bella, così aristocratica, così adatta al bel mondo. Poi
dolce, intelligente, sensibile. Stavano tanto bene insieme!
Io mi ero rifugiata nelle braccia di Karl. Lui non mi
spaventava. Ne ero sempre stata attratta, mi piaceva.
Ma il nostro rapporto stentava a decollare, e non solo a causa delle
mie indecisioni; anche il capitano era vittima di paure che non voleva
ammettere. Né con me, né con sé stesso.
C’era un motivo per cui quello splendido ragazzo
non aveva mai avuto una storia vera in quasi trent’anni di vita. Ma non lo
ammetteva e io, ormai, l’avevo capito. Ci crogiolavamo a vicenda in un bel rapporto di
amicizia e complicità, mascherato da storia d'amore, per fuggire dalle nostre
realtà, dalle nostre paure.
Stavamo bene così.
Apparentemente.
“Eccolo lì, a centro campo, fiero come sempre. E l’altro? Esattamente
di fronte a me, lo sguardo sereno e impassibile da karateka. Ma so bene
quale fuoco arda in quel petto.
L’ho voluto io. Sapere che questa sarà la mia
ultima Champions, l’ultima occasione per sfidarmi e battermi, ha acceso in quei
due il sacro fuoco della vendetta. E’ esattamente quello che volevo!”
La finale stava per cominciare. Ironia della sorte, proprio
in quella città che mi suscitava tanti ricordi. Era destino che dovessi giocare
la finalissima della mia ultima Champions proprio al Meazza di Milano. Elena era
euforica. Adorava quel posto, per lei era lo stadio più bello del mondo.
Sorrisi. Avrei vinto anche per
lei quella sera, glielo dovevo…
Karl e Lenders si fronteggiavano. Levin, purtroppo, ci
seguiva dagli spalti. Accanto al capitano il francese Martinì, poca esperienza
ma parecchia grinta. Al fischio dell’arbitro Mark partì come una furia. Aveva
trovato un ottimo sostituto di Mellow nell’italiano Salvini. I due si diressero
decisi verso la nostra area. Karl li lasciò alle cure di Kalz e Shuster, i quali
non lo delusero. Hermann soffiò la palla alla coppia d’oro avversaria
rilanciandola direttamente sul capitano. Non era al massimo della forma,
l’infortunio col Paris non era andato del tutto a posto ma la sua regia fu
perfetta. Rapidi scambi con Schieffer e Martinì ed il Kaiser si trovò in area,
di fronte a Warner.
Caricò il tiro.
Vidi Ed spostarsi. L'avrebbe presa. Infatti, come prevedevo,
il Fire Shot finì tra le braccia del mio rivale che, rialzandosi, incrociò
lo sguardo col mio. Per tutta risposta gli sorrisi, abbassando la tesa
del cappello. Dopo pochi minuti Schneider gli era nuovamente di fronte. Di
nuovo Warner non venne colto impreparato. Vidi Karl complimentarsi con lui. Negli
occhi di Lenders passò un lampo furbo e l'istinto mi disse che dovevo
aspettarmi qualche sorpresa.
Al trentaduesimo finalmente Mark arrivò a
sfidarmi direttamente. Precedentemente avevo vanificato tre suoi splendidi
assist per i compagni Salvini e Gregari. In quegli anni aveva imparato cosa
significa gioco di squadra.
Negli occhi aveva lo sguardo della Tigre.
Voleva battermi, a tutti i costi. Lo osservai muoversi. Non era un Tiger
Shot, era troppo prevedibile e lo sapeva! Il piede strisciò sull’erba, quasi
bruciandola. La palla schizzò roteando verso di me, potente e velocissima. Se mi
fossi lanciato su di essa non l’avrei potuta bloccare e sarebbe quasi
sicuramente finita in rete. Feci mezzo passo all’interno della linea. Il Raiju
Shot effettua un’impennata appena prima di entrare in porta, perdendo velocità e
potenza. Giusto quel poco che mi avrebbe consentiti di prenderla. E infatti la
bloccai. Solo un millesimo di ritardo e la sfera si sarebbe impennata,
sfondando la rete alle mie spalle.
Avevo utilizzato la tecnica che
già aveva neutralizzato il tiro di Levin per annientare la veloce rotazione di
quello di Lenders.
Mark mi guardò furioso mentre Ed era esterrefatto. Per lui
il Raiju Shot era quasi imprendibile. Feci per rimandare lungo, ma Karl
e Martinì erano marcati. Mi affidai a Kalz. Il mio vecchio amico capì l’intenzione
e partì a razzo. Quando voleva era anche un ottimo attaccante. Si liberò
agilmente di un paio di avversari ma evitò lo scontro con Lenders, disimpegnandosi
verso il francese. Louis creò una bellissima azione, riscendo a trascinare in
area sia Karl che Schieffer. Warner si trovò una notevole ressa
davanti, ma ne uscì abilmente rinviando in angolo un tiro al volo improvvisato
dal francese, il quale si apprestò a battere il corner. Chiunque avrebbe pensato
che quello era un passaggio perfetto per Karl, invece la palla effettuò un
arco perfetto in aria, veloce, preciso anche se non potentissimo, diretto all’incrocio opposto
dei pali. L’avevamo perfezionato in quei mesi ma Ed ci
arrivò comunque. Non si fece ingannare dal movimento dei giocatori in
area e con un colpo di reni magistrale, da maestro di arti marziali quale è,
deviò la palla per uno dei suoi difensori. Dovetti ammettere che era migliorato moltissimo, forse
più di quanto mi aspettavo.
Mancava una manciata di
secondi alla fine del primo tempo. Vidi Mark avventarsi sulla palla con la
grinta di sempre. Il suo vecchio modo di giocare, violento e solitario. I miei
ragazzi non lo fermarono. Era impossibile.
Di nuovo gli occhi della Tigre.
Di nuovo il Raiju Shot.
Warner ne blocca uno su tre.
E di nuovo lo
fermai.
“Tira quanto vuoi, Lenders! Tanto di qui non passi!” dissi, rinviando per Louis, mentre Mark
mi fulminava con gli occhi. Il fischio dell’arbitro ci mandò in spogliatoio
carichi come non mai, anche se sapevo che i successivi quarantacinque minuti sarebbero
stati un inferno.
Nel secondo tempo Lenders e la sua squadra non ce
le mandarono a dire. Attaccarono come ossessi, martellando la nostra area.
Ma anche noi non eravamo da meno.
Ogni rilancio di Kalz era un invito a nozze per Schneider e Martinì che ingaggiarono battaglie
serrate con la difesa bianconera. Karl e Ed si fronteggiarono tre
volte direttamente. Due Fire Shot ed una rovesciata da manuale. Niente
da fare. Anche io e Mark avemmo i nostri bei duelli. Il mio connazionale
riprovò col suo tiro ad effetto e con la mia vecchia conoscenza, il Tiger
Shot. Mi tolse il fiato. Per bloccarlo in sicurezza lo presi in pieno petto
e non fu piacevole, ma lo fu meno per lui.
Il risultato languiva su uno
zero a zero sofferto. Eravamo a più di metà del secondo tempo. Salvini era
penetrato in area ma il suo cross era stato deviato in angolo da Shuster.
Davanti a me c’era ressa. Mark mi controllava con la coda dell’occhio. Salvini
battè il corner, Lenders saltò ed io bloccai, rinviando fulmineamente ad
Hermann. Il quale si vide portar via la palla da Warner! Ed non era nuovo a
queste cose. Il suo tiro si diresse potente verso la porta. Lo ribattei ma lo
intercettò Gregari per Mark, di testa. Saltai, una frazione di secondo dopo che
aveva effettuato il tiro, impedendogli di segnare. Mi rovinò addosso, facendomi
sbattere violentemente con la spalla destra contro il palo.
“Tutto ok,
portiere?” chiese mentre tendeva la mano abbronzata verso di me.
“Price, tutto
a posto?” l’arbitro si era avvicinato, soppesando il gioco pericoloso.
“Tutto a posto! Nulla di rotto!” mi allungai ad afferrare la mano del mio compagno
di nazionale. Mark mi sorrise “Voglio batterti sano…”
“Non mi
batteresti neanche se fossi infortunato…” gli risposi di rimando.
Il gioco riprese. La spalla mi
faceva piuttosto male ma non ci feci caso. Mi preoccupava l’atteggiamento
assolutamente calmo del mio avversario. Lenders macchinava qualcosa. Quattro
minuti dopo le sorprese vennero a galla. Nuovamente una giocata veloce di
Salvini, la difesa di Kalz e Shuster che andava a farsi benedire, di nuovo Mark
in area.
Quell'atteggiamento e quella posa particolare mi gelarono il
sangue: mille volte avevo visto quel tiro, e non era un bel regalo
davvero. Nei tiri dall’area, solo due giocatori avevano una media di
successo contro di me superiore al cinquanta percento: Karl e Oliver.
E
quello era un Drive Shot, l'arma quasi infallibile del capitano della mia
nazionale.
Mi spostai meccanicamente. Conoscevo quella tecnica. Oliver mi
aveva giocato più di una volta a quel modo.
Sentii il sudore gelarmisi
addosso e la paura, per un istante, attanagliarmi lo stomaco.
Ma fu solo un
istante.
Kim.
Elena.
Marjorie.
Karl.
La mia carriera, la mia
vita e i miei sogni…
Sapevo parare quel tiro, ne ero in grado! Anche se
calciato da Mark sarebbe stato mille volte più potente e veloce di quello
di Oliver.
La sfera partì, rapida, alta, effettuando la sua bella traiettoria
ad arco verso il cielo.
Feci un passo indietro
e caricai il salto, aspettando che la palla iniziasse la parabola
discendente, quindi mi avventai su di essa con tutta la mia forza
ed il mio peso, afferrandola stretta e ruotando, rotolando a terra per
vanificare l’effetto. La spalla urlò, ma l’avevo presa! Lessi ira negli occhi di
Lenders.
Spettava a noi in quel momento sorprendere gli avversari.
Scambiai un cenno d’intesa con Karl, che annuì. Mark non era l’unico ad aver
affinato tiri non suoi. Mi portai col pallone al limite dell’area rinviai con un
lancio potentissimo, direttamente sul Kaiser il quale corse a raggiungere la
palla nella area avversaria. Ed lo stava aspettando. Ma non poteva sapere cosa
aveva in serbo per lui il capitano. Schneider non stoppò il mio rinvio, dal
limite dell’area si limitò ad uno splendido tiro al volo. Warner uscì ma la
palla colpì la traversa e tornò direttamente al Kaiser.
Warner era
sbilanciato. Karl fece un passo in area, preparò il tiro e Ed gli si parò
davanti pronto per un Fire Shot. Invece la palla partì
velocissima con una traiettoria ad arco ampio, assolutamente imprendibile
dalla posizione in cui si trovava il portiere avversario.
Warner battè il pugno a terra, furioso.
Un minuto.
Di
nuovo lotta a centro campo e subito Lenders e Schneider a confronto.
Il capitano ne uscì vincitore ma il suo passaggio a Martinì fu vanificato da una
scivolata di Salvini. Quindi Lenders, di nuovo a pochi secondi dalla
fine.
Era al limite dell’area. Di tentò nuovo il tiro di Oliver.
Sapevo che non sarei riuscito a bloccarlo, la spalla era indolenzita
ed il pallone mi sarebbe sfuggito di certo. Così rischiai. Mi lanciai a pugni
uniti. Sentii la pelle delle nocche spaccarsi nonostante i guanti, ma la sfera
non entrò.
Il fischio dell'arbitro sovrastò per un attimo il boato del
pubblico.
Era finita, avevo vinto la mia ultima Champions.
Vidi Karl esultare, il
pugno destro a cielo mentre Kalz gli saltava al collo. Warner scoteva il
capo, le braccia conserte e le labbra strette. Lenders teneva i
pugni serrati lungo i fianchi e lo sguardo diretto in quello del mio
amico.
Lo vidi rialzarsi.
Lo vidi esultare.
Lo vidi rivolgere gli
occhi al cielo per poi chiuderli e chiamare piano quel nome che teneva
nel cuore. Quando li riaprì, mi cercò con lo sguardo e mi sorrise.
Poi di
nuovo la gioia, la festa, l’abbraccio con i compagni di squadra e con gli amici
di sempre.
E con gli avversari di sempre.
Lo stadio era esploso: luci,
colori, coriandoli, fumogeni. I ragazzi si dispersero un attimo a salutare e
ringraziare pubblico, allenatore, la gente del team.
Mi trovai accanto Karl. Mi abbracciò, tenendomi
stretta. Dopo poco anche qualcun altro aveva scavalcato gli striscioni di bordo campo.
Mi guardava, le braccia spalancate, il viso illuminato da uno splendido
sorriso, gli occhi neri splendenti come non mai “Posso?”
Sospirai appoggiandomi con un braccio alla macchina sul cavalletto “Va beh, visto
che hai vinto…te lo concedo!” Mi ritrovai in aria, stretta per la vita dalle sue
grandi mani. Mi fece fare quattro giri velocissimi, tenendomi sopra la sua testa
tra le risate dei ragazzi Nella foga il cappellino era volato via, rivelando la
felicità nei suoi occhi. Quando si fermò, mi tenne ancora un poco sollevata, il
viso non distante dal mio.
“Ok” gli dissi trafelata “nel caso remoto che
tu vinca i Mondiali, vedrò di trovarmi un rifugio post partita!”
Il
sorriso si allargò ancora di più “Allora comincia a cercarlo, signorina! E comunque
stà certa che ti troverò ugualmente!”
I festeggiamenti continuarono.
Venne portata la Coppa, i giocatori vennero premiati nello stadio in
delirio.Tutto quel chiasso mi attirò. Presi in mano il mio tele e scarrellai sugli spalti di
fronte a me, così, giusto per curiosità. C’era di tutto: adolescenti, ragazze,
uomini di mezza età, famiglie. Ad un tratto il mio cuore si fermò, gelato.
Nelle file in basso, nei posti dedicati ai disabili, un paio di occhi verde
smeraldo fissavano il campo.
“Ehi, tutto ok?” Paul, accanto a me, si era
reso conto della mia reazione.
“S-si, tutto bene” mi riscossi e per un istante
non seppi cosa fare.
Poi presi una decisione, lì, su due piedi, dettata dalla speranza,
dall'amicizia o forse da qualcos'altro “Paul, prenditi cura della mia attrezzatura per favore! Portamela
in albergo da Sonya! Io…devo fare una cosa importante!” e mi allontanai.
“Ma ai ragazzi cosa dico?” mi urlò dietro.
“Dì loro che ho visto un mio vecchissimo
amico e che gli sono andata in contro!” e fuggii via.
Attraversai lo stadio in un lampo.
Dovevo
sapere. Magari era solo un’allucinazione, magari solo una coincidenza, ma
dovevo sapere. Mi affacciai alla tribuna dove avevo visto la ragazza.
Nulla. Mi voltai e vidi un giovane che spingeva una carrozzina. La
ragazza che la occupava si voltò a parlargli. Era lei. Corsi loro
dietro.
“Kim!”
gridai mentre ancora correvo.
L’uomo si voltò, e così
pure l’occupante della carrozzella. Era magra, quasi trasparente. Il viso glabro ed
il capo coperto da un bandana rosso rubino. Ma gli occhi erano gli stessi
che avevo visto in quella foto mesi prima.
“Come fai a sapere
chi sono?” mi chiese con un filo di
voce.
“Mi ha parlato di te…”
Vidi lo sguardo smeraldo velarsi di lacrime
mentre accennava al giovane di voltare la carrozzina verso di me.
Mi avvicinai e
lei mi osservò sorridendo gentile “Sei la ragazza che ha sollevato e abbracciato
prima, vero? Sei la sua ragazza?”
Scossi il capo.
La tristezza le velò
il viso “E’ solo a causa mia?”
“No!” la rassicurai “No, non è solo…
Ma ti ha sempre nel cuore.”
“Anche io…” sospirò “Ti andrebbe di
parlare un poco?”
Ci ritrovammo in uno dei bar dello stadio, ormai
semivuoto.
“Come sta?”
“Bene…”
“E’ innamorato della donna che gli
sta accanto?” Benjiamin aveva ragione: Kim andava sempre diretta al
sodo!
“No.”
Sospirò, sollevando gli occhi al cielo “Perché?”
Le dissi la verità, non avevo motivo
per mentirle “Perché sei stata un amore troppo grande per lui. Perché non è facile
infrangere quella corazza e conquistare il suo cuore. Perché ha paura di amare.
Esattamente come l’aveva prima di conoscere te!”
“Vorrei che fosse
felice…”
“Anche io. Ma non è triste ed è già qualcosa!”
La feci
sorridere “Vedi sempre le cose così rosee, tu?”
Mi
strinsi nelle spalle “Cerco solo di non vederle
nere. Benjiamin non è innamorato ma sta bene con Marjorie. E’ già un
grande passo avanti. Ha deciso finalmente che può pensare di riaprire il suo cuore a
qualcuno…”
“Hai detto che ti ha parlato di me: cosa ti ha detto?”
“Mi ha raccontato la vostra storia: quando vi siete conosciuti, quando ti ha
chiesto di sposarlo, quando ti sei ammalata e…quando l’hai lasciato.” Ripensai a
quella notte, alla sofferenza nelle parole di Benjiamin “Era furioso con sé
stesso...”
Alle mie
parole la vidi tendersi sulla sedia “Perché?” chiese.
“Perché diceva di non esserti stato sufficientemente
accanto. Mi ha fatto leggere la lettera. Ti ho
capita. Ne abbiamo parlato con calma e il suo dannatissimo orgoglio ha
ceduto. Sa che non l’hai tradito, ha compreso perché te ne sei andata. Forse
lo ha sempre saputo, ma era troppo doloroso ammetterlo.”
“Non ne ha parlato con
nessuno, vero? Mi ha fatto credere morta…”
“Solo perché non sopportava di saperti
viva e lontana da lui! E comunque non ti hai mai dimenticata, non ha mai scordato
le promesse che ti fece. La vittoria di oggi era per te…”
“Lo so…”
il suo volto era triste, lo sguardo perso nella tazza di the che aveva davanti,
nel ricordo di anni perduti.
“Ha molta fiducia in te, vero?” di nuovo una
domanda diretta, dritta dritta al punto.
“Sì. Direi di sì.”
Un sorriso, dolce, splendido, le illuminò il
viso “Se lui ha fiducia in te, ne devo avere pure io.” Prese fiato, come a
cominciare un discorso vitale “Io non so veramente più quanto mi resti. In
questi due anni ho sofferto le pene dell’inferno in Irlanda, passando da un
ospedale all’altro, da una cura all’altra. Non mi sono arresa. Ma una vita del
genere avrebbe stroncato sia la carriera che l’esistenza di Benjiamin. Lo amo.
L’ho sempre amato e l’amerò per sempre! Per questo stasera sono qui: sono uscita
in via speciale dalla clinica dove sono ricoverata. Ho ragione di credere che
sarà il mio ultimo viaggio da viva fuori di là. Volevo vederlo vincere. Volevo
vederlo trionfare. Sapevo che ce l’avrebbe fatta. Questo è il suo ultimo anno,
vero?”
Annuii in risposta e lei continuò accennando un
sorriso “Immaginavo che non avrebbe abbandonato suo padre. Non dirgli
che ci siamo incontrate, non voglio che mi cerchi. Lasciami il tuo indirizzo.
Quando mancherò, farò in modo che qualcuno ti avvisi. Se e quando lo riterrai
necessario lo porterai da me. Non devo essere il fantasma che infesta la sua
vita per sempre! Deve essere libero di amare serenamente. Lascio a te questo
compito. Mi fido come si fida lui.”
Benjiamin aveva ragione: era
piccola, debole, indifesa eppure forte, decisa, sprigionava un'energia alla
quale non si poteva restare indifferenti. Era una donna davvero fantastica e non
fu difficile capire per me, in quella mezz'ora in cui parlammo, come la scorza
ghiacciata del cuore del SGGK si fosse sciolta come neve al sole davanti a quel
sorriso.
“Farò
come vuoi." risposi assentendo seria "Ma…”
“Ma?”
“I Mondiali? Ti promise
anche quelli!” La mia fu una reazione stupida, dettata più dall'istinto che dalla
ragione. O dal desiderio che lei potesse avere abbastanza tempo per vedere il
trionfo del suo grande amore.
Scosse il capo, comprensiva e
mi sorrise “Li vedrò, non ti preoccupare. Non da qui, ma li vedrò! E gioirò
della sua vittoria!”
Le lacrime mi salirono agli occhi. Perché dovevano
accadere cose del genere? Perché un amore tanto bello doveva essere
spezzato in modo tanto tragico?
Ci salutammo. Mentre mi avviavo lungo
il corridoio udii la sua voce chiamarmi “Elena!”
“Dimmi...”
Mi squadrò con
occhio critico da
capo a piedi e mi sorrise inclinando il capo da un lato “Mi spiace molto che non sia tu la
sua compagna…”
E' di dovere l'angolino dei
ringraziamenti^^
A Kitiara, Akuma, Valentina78, Ammy e a tutte coloro le
quali hanno messo "Angelo" tra i preferiti, grazie di cuore!
E grazie anche a
chi legge, anche senza commentare. Spero che comunque la storia vi stia piacendo
almeno un po' ^^
Siamo ormai a pochi capitoli dalla fine, spero di non essere
né troppo melensa, né troppo calcistica.
Questo Benjiamin è quello che ha
fatto da "base" per la caratterizzazione nelle altre ff da me scritte, sia etero
che yaoi. E' cresciuto con me e, per quanto mi renda conto essere piuttosto
imperfetto, lo adoro proprio per questo.
Grazie ancora a
tutte,
Eos75