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Autore: rosie__posie    13/09/2013    7 recensioni
Sherlock e John si conoscono e si innamorano in Paradiso. Il primo è un'anima non ancora nata, il secondo è l'anima di un soldato rimasto ucciso in guerra. Sul tetto del Bart's, scesi sulla Terra, Sherlock non è capace di salvare la vita a John, che muore e torna nuovamente in Paradiso. Ma John non accetta di rimanere separato da Sherlock e fa un patto con Jim, il Diavolo: riceverà 5 vite in cui reincarnarsi. Se alla fine di queste vite non riuscirà a ritrovare Sherlock, la sua anima diventerà di proprietà di Jim. Per l'eternità.
Note: reincarnation!AU, da teen!lock a retirement!lock, wing!lock – Crossover con Sherlock Holmes Gioco di ombre, Dr House, Elementary
Due occhi grandi, incantevoli, d’una sfumatura indefinita che correva dal grigio medio all'azzurro più chiaro, quasi di ghiaccio. Erano occhi pieni di vita, quelli, come non ne aveva mai visti. Brillavano come due piccoli, grandi soli attorno ai quali ruota ogni cosa. Sul volto di quel ragazzino era dipinto un broncio delizioso. John stentava a crederci: aveva tra le mani un'anima.
Genere: Angst, Fluff, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty , John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes , Victor Trevor
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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UN PERIODO DI TEMPO IMPRECISATO PRIMA DELLA NASCITA
 
 
 
Mrs. H non avrebbe mai dimenticato il giorno in cui fu chiamata a dare per la prima volta il benvenuto a John Watson. La prima di molte...
Era corsa al Tunnel con trepidazione e il fiato corto, ripetendosi Non devi spaventarlo con le tue ali! Non devi spaventarlo con le tue ali! Probabilmente la sua agitazione era dovuta al fatto che sapeva che avrebbe dovuto accogliere un'anima deceduta precocemente. Un giovane uomo, il quale, nei suoi ventitré anni, era solo poco più d’un ragazzino nel momento in cui incontrò la morte. Ma forse, in cuor suo, qualcosa le sussurrava che sarebbe stato diverso.
 
Che John era diverso.
 
 
 
§§§
 
 
 
L’anziano angelo femmina incrociò le mani al petto, morsicandosi il labbro inferiore con nervosismo mentre osservava le due metà che costituivano il portone del Tunnel celeste aprirsi con lentezza estrema, rivelando pian piano un cono di luce che diveniva sempre più intensa.
 
Se ne stava lì, a chiedersi chi mai fosse stata in vita l’anima che si preparava ad accogliere. Un giovanotto spirato dopo una lunga malattia, una di quelle che non lasciano scampo? O che dire della vittima di un brutale omicidio, magari tra bande? Scosse con decisione il capo a quel pensiero: non stava bene sentire il sangue pompare poderosamente nelle vene a certi pensieri, lì in Paradiso.
 
E poi, ecco la sorpresa: erano due. Le anime di due poveri ragazzi, che serbavano come immagine eterea l’aspetto ultimo dei loro corpi al momento del trapasso. Mrs. H osservò di nuovo il foglio di carta bianca con l’effige dorata di due ali che teneva tra le mani: l’ordine di smistamento di quel giorno prevedeva un arrivo e uno soltanto. Sospirò di tristezza al pensiero di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Le sue ali (ben celate) provarono una morsa di amarezza nel vedere l’aria smarrita e terrorizzata dipinta sui volti dei due giovani. I figli di qualcuno, i promessi sposi di qualcun altro. Appallottolò l’ordine di smistamento e lo nascose in una delle tasche del suo abito color lavanda.
 
“Benvenuti, ragazzi miei!” esordì, esibendo il più caloroso dei suoi sorrisi mentre si avvicinava ai due nuovi arrivati, che ancora si guardavano in giro con il naso all’insù e gli occhi vuoti.
 
Indossavano entrambi la tuta mimetica; non sarebbe stato facile asserire che cosa le rendesse più sporche: se la polvere scura o il sangue rappreso. Avevano tutti e due i capelli biondi tagliati molto corti e gli occhi azzurri. Ciò che li distingueva erano proprio questi ultimi: uno dei due li aveva più blu, l’altro più acquamarina ed esibiva inoltre una vistosa cicatrice poco al di sopra dell’occhio destro.
 
“Dove siamo? Questo luogo non ha nulla a che vedere con Mossul...” [1] mormorò il soldato dagli occhi blu, cibandosi di tutto ciò che lo circondava con sguardo famelico e ansioso al contempo. “Non ne ho un cazzo di idea, Watson, ma qualunque cosa sia è mille volte meglio persino del Bagatelle!” [2] gridò il ragazzo con la cicatrice, mettendosi a fischiettare allegramente.
 
Mrs. H sorrise e, per un attimo, presa dalla tenerezza, rischiò di palesare le sue ali, ravvedendosi e nascondendole all’ultimo istante. “Siete in Paradiso, ragazzi!” comunicò loro, allargando ancor di più il suo sorriso tipico di nonnina.
 
Il giovane che rispondeva al nome di Watson si bloccò di colpo per lo sgomento, a metà strada tra l’uscita del Tunnel e i Cancelli celesti. “In... In Paradiso?” ripeté con un fil di voce. Mrs. H sospirò annuendo, mentre raccoglieva le mani in grembo, e non aggiunse altro.
 
“Ma questo vuol dire...” “Che siamo morti, sì, Watson! Ma ti posso assicurare che con il buco che ho lasciato nel petto di quel figlio di buona donna iracheno, anche lui presto verrà qui a tenerci compagnia” si rallegrò l’altro ragazzo. E, con un grande balzo, fu al di là dei Cancelli.
 
Ma poi accadde l’inimmaginabile. Si udì un sibilo assordante, che costrinse i due ragazzi a coprirsi le orecchie (non Mrs. Hudson, poiché l’angelo femmina sapeva fin troppo bene cosa stesse per accadere). D’improvviso si spalancò una botola sotto i piedi del biondino con la cicatrice, inghiottendolo con la velocità di un fulmine. In un attimo e con un urlo agghiacciante, il giovane scomparve nel buio, lasciando dietro di sé uno sbuffo di fumo grigio e una manciata di cenere.
 
“Sebastiaaaaaaan!” urlò il ragazzo dagli occhi blu grandi e sinceri. In un attimo, cercò di buttarsi in salvataggio del commilitone allungando una mano laddove il terreno era franato inghiottendolo, ma arrivò troppo tardi: la botola si era già richiusa, portando con sé ogni ricordo del giovane che rispondeva al nome di Sebastian.
 
Watson, allora, si inginocchiò in quel punto, accarezzando con mani tremanti il suolo ora tornato bianco e soffice. “Seb, amico mio...” bisbigliò, mentre lacrime silenziose rigavano la sua guancia e finivano a solleticare il dorso delle mani. Poi, dita rugose ma gentili si insinuarono tra le sue, esortandolo con dolcezza ad alzarsi.
 
“Vieni, John, non c’è più nulla che tu possa fare per lui...” sussurrò Mrs. H rimettendolo in piedi. Il ragazzo annuì, incapace di fronteggiare lo sguardo di colei che ai suoi occhi appariva semplicemente una donna. Tuttavia, fu altrettanto incapace di lasciare andare la sua mano ferma e rincuorante.
 
“Che cosa gli è capitato? Dov’è finito?” domandò il giovane soldato, guardando stoicamente ancora il punto dove un attimo prima si trovava Sebastian. “Oh, si trova nelle Tenebre, adesso!” cinguettò Mrs. H, come se fosse la più naturale delle affermazioni. “Nelle Tenebre?” “Oh, hanno tanti di quei nomi! Forse tu le conosci come Inferi...”
 
John deglutì a vuoto. Due volte. “Riceverà... Riceverà la dannazione eterna? Verrà torturato sino alla fine dei tempi?” Mrs. H soppesò le domande, prima di rispondere. “Ebbene, non è detto che vada proprio così. Dipende…” “Da che cosa?”, insistette il giovane, ancora visibilmente sotto shock. “Da quanto andrà d’accordo con Jim, suppongo... E ora vieni, caro, andiamo a fare due chiacchiere nel mio ufficio!”
 
E quando John Watson, membro dell’Esercito di Sua Maestà e deceduto a Mossul alla giovane età di ventitré anni, mise piede al di là dei Cancelli celesti, un campanello trillò per tre volte, annunciando lietamente il suo ingresso in Paradiso.
 
 
 
§§§
 
 
 
“Gradisci per caso una tazza di the?” disse Mrs. H, sedendosi nella sua grande poltrona di vimini e azionando il ventilatore a pale appeso sul soffitto con un semplice schiocco di dita.
 
John si guardò attorno. Si era immaginato diverse volte il Paradiso e ne aveva visto diverse interpretazioni in numerosi film, ma non si ricordava nessuna che lo dipingesse come avente veri e propri uffici. Né tanto meno che questi avessero l’aspetto di un vecchio bar a L’Avana.
 
“Oh, sì grazie, signora. Grazie... Sono inglese, o, meglio, ero. Una bella tazza di the è sempre ben gradita. Ma, mi scusi, sono ali vere quelle ?” disse John, tutto d’un fiato. L’anziano angelo femmina borbottò qualcosa (che a John parve simile a un Se lo venisse a sapere Siger…) e subito si preoccupò di nasconderle.
 
“Preferisci forse una tranquilla saletta da the inglese?” Il ragazzo non rispose e Mrs. H decise di interpretare quel silenzio come un sì. “Oh, ovvio che lo preferisci! Che sciocca... Vuoi sentirti a casa!” Un ennesimo schiocco di dita e lo scenario attorno a John mutò. I lunghi banconi di legno ruotarono su se stessi sino a scomparire, così come i ventilatori a pale; al loro posto si sostituì la deliziosa atmosfera tranquilla e riservata delle sale da the inglesi di fine Ottocento, con decorazioni, stampe e mobili risalenti a quel periodo, che scesero dal cielo come per magia. Un lieve crap spinse John a trasalire e voltarsi: dietro di lui c’era un grande camino con un bel fuoco che scoppiettava allegramente.
 
“Potete rendere reale tutto ciò che immaginate?” chiese John con un fil di voce mentre si accomodava, ritrovandosi tra le mani una tazza di the fumante dall’aroma invitante e tipicamente invernale. “Oh, sì, caro! Tutto quello che immagini esiste. E tutto quello che è in Paradiso prima o poi ritorna sulla terra: non si perde niente, capisci? [3] Tutto grazie ai ricordi maturati sulla Terra. E, ovviamente, più volte sei stato sulla Terra, più ricordi utili hai!” spiegò Mrs. H, senza mai smettere di sorridere.
 
John sgranò tanto d’occhi, le labbra che sfioravano appena la tazza. “Si può tornare indietro?” domandò, la speranza tradita dal tono di voce.”Oh sì, le anime sono qualcosa di troppo prezioso per sprecarle! Ma non è per tutti uguale. Alcuni si fermano solo un giorno, altri anni. Altri non tornano più... Ogni storia è diversa, caro!”
 
John annuì, decidendosi finalmente di bere un sorso. Ma non sentì nulla sulla lingua: aggrottò la fronte e provò a rovesciare la tazza, ma il liquido ambrato rimase lì, incollato alle pareti. “Non riesco a berlo” si lamentò.
 
“Accidenti, mi dimentico sempre...” borbottò l’anziana, scuotendo la testa. Poi si chinò verso John, imponendo entrambe le mani all’altezza delle tempie. “Devo prima attivare la modalità riciclo-ricordi, altrimenti non puoi fare proprio nulla, ragazzo mio!”
 
John percepì una leggera scossa e strizzò gli occhi. “Ecco fatto, ora puoi bere senza problemi!” cinguettò l’angelo, tornando a rilassarsi nella sua poltrona. Il giovane s’azzardò a un secondo tentativo e questa volta riuscì a percepire la carezza calda della bevanda scorrergli lungo la gola e il sapore lievemente affumicato che gli stuzzicava il palato. Sorrise rasserenato tra sé e sé: si sentiva come se avesse appena compiuto il passo più importante della sua intera esistenza. “Devo avvisare mia madre? Che sto bene, intendo” bisbigliò poi, tra un sorso e l’altro. “Sarà preoccupata...”
 
Le labbra dell’anziano angelo si addolcirono in un sorriso triste. “A voi anime semplici non è concesso interagire con gli umani, mio caro, salvo in casi rarissimi per i quali è richiesta l’autorizzazione del Grande Capo in persona e di tutti i cori degli angeli.” Il viso del giovane si rabbuiò. “Ma forse, se chiudi gli occhi e pensi intensamente al viso di tua madre, allora potresti riuscire a mandarle delle vibrazioni positive e, se sei davvero fortunato, farle sentire che stai bene!” disse poi Mrs. H, facendo scivolare dolcemente una mano sul polso di John e stringendolo con dolcezza.
 
“Prenditi tutto il tempo che credi, ragazzo mio. Scegli un angolo di Paradiso e fallo tuo. Arredalo con i tuoi ricordi più belli e, se credi, anche con quelli meno piacevoli, poiché hanno contribuito anch’essi alla tua esistenza. Puoi fare tutto ciò che ti piaceva fare sulla Terra e anche molto di più!”
 
“Una volta mi piaceva scrivere...” iniziò John, i begl’occhi azzurri che si accendevano al ricordo. “Scrivere storie, intendo. Ma mi sono arruolato subito dopo l’università, così non ho mai avuto modo di pensare seriamente alla scrittura” concluse, con una scrollata di spalle densa di rammarico.
 
“Dunque, quale miglior ragione per non provarci ora, con l’eternità a tua disposizione?” cinguettò giuliva Mrs. H. Tuttavia, l’uso della parola eternità non sortì l’effetto desiderato: un’ombra di terrore puro scese negli occhi del giovane. “E ricorda che tutto ciò che imparerai e farai qui potrebbe poi tornarti utile un domani, qualora tornassi sulla Terra. Puoi anche provare a sperimentare qualcosa che non hai mai provato prima. Ma non tentare subito di volare o potresti farti davvero male!” lo redarguì Mrs. H, oscillando un dito così minacciosamente da spingere John a ritrarsi, spalmando la schiena contro lo schienale della poltrona. “Esattamente come è accaduto al piccolo Sherlock, povera anima...”
 
“Sherlock?” Un nome davvero buffo, pensò John. Forse una tipologia di angeli a lui sconosciuta, visto che sino a quel momento tutte le sue conoscenze in merito a Inferno e Paradiso si erano rivelate errate.
 
“Sherlock, sì…” Mrs. H sospirò più volte, i lineamenti addolciti già solamente da quel nome. “La giovane anima figlia del principato Siger. Beh, non è più tanto piccolo, in realtà; credo che dalle vostre parti lo definireste un teenager. E per essere del tutto onesta non credo nemmeno che si sia fatto poi un gran male, visto che è atterrato su una delle nuvole più soffici... Ma il suo orgoglio deve aver subito un bel contraccolpo, però!”
 
Poi Mrs. H si chinò in avanti, abbassando il tono della voce come se stesse per rivelare un importante segreto. “Suo padre è un angelo e penso che Sherlock credesse che, provando a buttarsi nel vuoto, le ali sarebbero cresciute subito anche a lui. Ma ovviamente così non è stato...”
 
Gettarsi nel vuoto per imparare a volare: John la vedeva un po’ come una metafora in cui racchiudere tutto il senso della vita. “È una cosa molto dolce e coraggiosa” si sorprese a dire. L’anziano angelo femmina sbatté più volte le palpebre in segno di sorpresa. “Che Lucifero Jim mi porti! È la prima volta che sento associare l’aggettivo dolce a Sherlock!” borbottò, non senza un sorriso.
 
“Cercare di imitare il proprio padre, prendere esempio da lui. Buttarsi... La trovo una cosa molto dolce. E coraggiosa” spiegò John con decisione. “Povero Sherlock...” continuò Mrs. H senza quasi porre attenzione alle parole del giovane, “lui non è ancora stato sulla Terra, non è ancora nato. Quindi non ha ricordi. Passa le giornate a studiare e a fare esperimenti per prepararsi al meglio per quando verrà il suo momento...”
 
C’erano dunque anime, pensò John, che non avevano mai messo il naso fuori dal Paradiso, se così si poteva dire, e anime come lui che invece lo stavano conoscendo solo dopo la morte. Sembrava tutto così assurdo, ma questa cosa lo elettrizzava. Quasi quasi poteva dire di sentire l’adrenalina scorrergli nel sangue e quest’ultimo pompargli al massimo dentro il suo corpo. Proprio come il primo giorno nell’esercito.
 
“Bene, credo ti abbia annoiato già fin troppo, per oggi!” disse l’angelo femmina alzandosi in piedi e riportandolo così alla realtà. “Io mi chiamo Mrs. Hudson, ma tutti qui mi chiamano Mrs. H, oppure Martha. Come preferisci. Quando desideri parlarmi, è sufficiente che chiudi gli occhi, pensi a me molto intensamente e pronunci il mio nome. Come per incanto, verrai trasportato subito qui!” spiegò, allargando le braccia. “Oh, come… come il teletrasporto?” domandò John, a metà strada tra sentirsi smarrito e un po’ stupido. La vecchina lo guardò senza comprendere. “Teletrasporto?” “Già, come in Star Trek.” L’angelo femmina continuava a fissarlo senza capire e John fece un cenno stanco con la mano, come per scacciare il tutto. “Non importa…”
 
“Se in quel momento sono occupata, verrai messo in sala d’attesa e sarò da te il prima possibile...” concluse Mrs. H, suggellando il concetto strizzando l’occhio. “Hai qualche altra domanda, mio caro?” “Ecco, io... Non so...” tentennò John. “Allora io ti lascerei andare. Sentiti libero di darti un’occhiata in giro, poi ci incontreremo uno dei prossimi giorni e mi dirai come è andata!” e, con uno schiocco di dita, gli oggetti che componevano l’ufficio di Mrs. H sparirono l’uno dopo l’altro.
 
Il ragazzo balzò prontamente in piedi, ora che la comoda poltrona sotto il suo sedere non c’era più. “Come faccio a sapere quando è passato un giorno?” domandò. “Oh, qui il sole sorge e tramonta esattamente come sulla Terra. Ovviamente non si tratta di un vero sole ma della luce degli angeli. Ed è molto più bella! A presto, John Watson, è stato un vero piacere!”
 
E, così dicendo, l’angelo femmina sparì, con tutta la sofficità della sua apertura alare.
 
Rimasto solo, il giovane soldato si guardò intorno, mille volte più smarrito di prima. I suoi occhi non notarono nulla all’infuori di uno spazio sconfinato, una luce bianchissima e un numero pressoché infinito di nuvole di tutte le dimensioni e di tutti i colori pastello.
 
“Bene, John Watson. Ora sei morto, ti trovi in Paradiso e davanti a te hai ben più di soli tre miseri continenti...” bisbigliò a se stesso. Si voltò a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra. Ogni punto, ogni scorcio di vista sembrava essere esattamente identico al precedente. Come in un labirinto.
 
Peggio di un labirinto…
 
“Va bene, capiamoci, Watson. Sei un soldato, non puoi lasciarti sconfiggere dalla morte!” ordinò a se stesso. “Ora vediamo un po’ come funziona questa storia dell’immaginazione...”
 
Allora John chiuse gli occhi e serrò le mani a pugno, ma nulla accadde. Li riaprì e, borbottando qualcosa di incomprensibile anche a se stesso, si scompigliò i capelli con entrambe le mani. “Va bene, riproviamoci. Non l’avrete vinta voi!”
 
Il giovane strinse ancor di più le palpebre, arrivando addirittura a vedere piccoli lampi di luce davanti agli occhi, e questa volta qualcosa accadde: si trovò davanti a un piccolo parco giochi, fatto solo di un paio di altalene e di uno scivolo. Lo riconobbe subito: era il parco giochi del quartiere in cui abitava quando era piccolo, poco lontano da casa sua.
 
Sorrise, John, gli occhi sempre intensamente serrati. Quanti ricordi affioravano pian piano alla mente... I primi amici, le prime ginocchia sbucciate, i primi baci umidi...
 
D’improvviso, un forte senso di vertigine portò John a sbilanciarsi in avanti, ritrovandosi a posare di scatto una mano e un ginocchio al suolo per non cadere. Si guardò le punte degli stivali e poi di nuovo attorno a sé: il ricordo era scomparso. C’erano di nuovo solo nuvole a perdita d’occhio.
 
“D’accordo, la prossima volta andrà meglio...” borbottò, cercando di tirarsi in piedi. Ma poi un grido giunse al suo orecchio: “Viaaaaaaa di lì!” Il ragazzo guardò a destra e a manca senza riuscire a capire da dove provenisse quella voce e quando ci riuscì era troppo tardi. Sentì qualcosa di pesante cadergli rovinosamente addosso con la stessa potenza di un uragano: un intreccio di braccia, lunghe gambe, una cascata di capelli e... un aquilone. In un attimo, si ritrovò sdraiato a terra, di schiena, immerso in una nuvola di fumo azzurro alla stregua del migliore dei cartoni animati da manuale.
 
Tossì un paio di volte e si stropicciò gli occhi brucianti e, quando il fumo si dissolse, notò che ciò che lo aveva appena investito era una persona. Una persona che adesso era sdraiata sopra di lui. “Ehi, che modi! Dovresti guardare dove vai, la prossima volta...” si lagnò John, ma poi si ricordò che si era rivolto così rudemente a un’altra anima – con tutta probabilità a qualcuno morto come lui – e se ne dispiacque.
 
“Non per sottolineare l’ovvio, ma sei tu quello ad aver intralciato il mio cammino” borbottò l’altro, cercando a tentoni l’aquilone poiché, nell’impatto, la cascata di riccioli lunghi e scuri si era riversata sulla fronte, finendo per coprirgli gli occhi.
 
“Aspetta, ti do una mano...” disse poi il biondo, scostando una ciocca di capelli dal viso dell’altro. E lì si bloccò. Stupito.
 
Ammaliato.
 
Era appena più d’un ragazzino colui che lo aveva atterrato con la stessa furia che avrebbe avuto un pilone [4] in una squadra di rugby. Un ragazzino che indossava pantaloni corti al ginocchio e una deliziosa camicia blu alla marinara. Ma furono gli occhi ciò che lo incantarono. Ebbene sì, incantarono.
 
Due occhi grandi, ammalianti, d’una sfumatura indefinita che correva dal grigio medio all’azzurro più chiaro, quasi di ghiaccio. Erano occhi pieni di vita, quelli, come non ne aveva mai visti. Brillavano, come due stelle nella notte. O come due piccoli, grandi soli attorno ai quali ruota ogni cosa. Sul volto di quel ragazzino era dipinto un broncio delizioso. La fronte aggrottata, un sopracciglio appena inarcato all’insù e l’arco di Cupido del labbro superiore atteggiato a una deliziosa espressione di disappunto.
 
John aveva tra le mani un’anima. Non poteva di certo dirne di averne viste altre da quando aveva messo piede in Paradiso, fatta ovviamente eccezione per l’angelo femmina che lo aveva accolto dopo il trapasso; tuttavia, se gli fosse consentito giurare, non avrebbe avuto dubbi: quella era la creatura più bella e, soprattutto, interessante su cui il suo sguardo si fosse mai posato.
 
In quella vita e nella precedente.
 
Sarebbe rimasto volentieri a contemplarla per l’eternità, visto che probabilmente sarebbe stata tutta a sua disposizione. Se solo glielo avesse concesso. Se solo...
 
“Allora, che ne diresti di spostarti e lasciarmi passare?” sentenziò la bocca di quella giovane anima, mentre aggrottava ancor di più la fronte. “Oh, sì, sì. Certo...” farfugliò John, riscosso dai suoi pensieri. Poi si guardò indeciso a destra, quindi a sinistra. Nuvole. Nuvole ovunque.
 
“Uff, spostati e basta!” lo incalzò ancora il ragazzino. Senza ribattere, John scivolò verso destra e si tirò in piedi, facendo di nuovo leva su mano e ginocchio. L’altro fece altrettanto, scivolando dalla parte opposta.
 
Poi John notò l’aquilone, dimenticato poco più in là, e si chinò a raccoglierlo. Lo contemplò per un attimo, pensando in realtà a tutt’altro, prima di lisciare le ali spiegazzate. Era un’ape. Un aquilone a forma di ape. Curioso, pensò il ragazzo biondo.
 
“Vuoi darmelo o pensi di tenertelo per te?” La voce petulante ma profonda della giovane anima lo fece nuovamente trasalire. “Ma certo, tieni...” John arrossì sulla punta delle orecchie mentre porgeva l’aquilone al legittimo proprietario, che ne attendeva la restituzione con il braccio allungato e un piede in fermento. Le dita lunghe e aggraziate del ragazzino sfiorarono quelle più corte e paffute del soldato mentre si riprendevano ciò che apparteneva loro. Fu un tocco lieve, ma John lo sentì come reale. E, per la prima volta da quando era morto, si sentì di nuovo vivo.
 
“Tu sei... Sei morto anche tu” mormorò poi. L’altro gli scoccò il più torvo degli sguardi. “Che cosa vorresti dire?” chiese. “Beh, siamo in Paradiso...” rispose John, iniziando a sentirsi a disagio con se stesso e tutto quanto. “È da sciocchi supporre che io sia morto solamente perché mi trovo qui. Bisogna disporre di tutti i fatti prima di formulare una teoria!” spiegò la giovane anima con una punta di fierezza negli occhi mentre raddrizzava il corpo esile. John arrossì ancora di più.
 
“Perdonami, sono... Arrivato da poco” addusse il biondo come scusa. “Lo vedo!” ribatté il ragazzino, con il piede sempre più pronto per scattare. John lo osservò in preda allo stupore: avrebbe voluto chiedergli come aveva fatto a dedurlo, ma si trattenne. Lungi da lui lo spauracchio d’apparire nuovamente scortese o inadeguato.
 
Ma il moro parve intuire molto facilmente ciò che gli stesse passando per la mente in quell’istante e parlò di conseguenza. “Quella che hai ancora indosso è inequivocabilmente la tua ultima immagine da vivo, quella completa di ombra” John dette un rapido sguardo a terra: ed eccola là, la sua vecchia ombra, che ancora seguiva fedelmente ogni suo movimento. Poi spostò lo sguardo verso i piedi del ragazzino che aveva di fronte: non c’era ombra alcuna. Non seppe se sentirsi rassicurato o totalmente inquietato dalla cosa. “Chiaro segno che non sei ancora pronto per trapassare del tutto e lasciarti alle spalle la tua vita terrena” continuò l’altro, con naturalezza e tracotanza assieme.
 
Il ragazzo biondo decise per la prima soluzione: i suoi occhi si illuminarono e sgranarono al contempo. “Oh, sapete addirittura leggere nel pensiero, voialtri!” bisbigliò ammirato. Ma di tutta risposta le labbra della giovane anima si piegarono all’ingiù in una smorfia di disgusto. “Non essere ridicolo. La lettura del pensiero esiste solo per chi crede nella stregoneria e altre baggianate simili. Questa è pura e semplice deduzione! Ma soprattutto io non sono voialtri!” borbottò, esibendo nuovamente quel broncio che il soldato biondo non esitava a definire delizioso.
 
“E ora devo assolutamente andare a testare la statica dell’aquilone su cime di altezza superiore a tremila metri!” sentenziò il ragazzino senza dargli la possibilità di scusarsi, mentre sgusciava finalmente via in quarta. Lo stupore sul viso di John si accese ancor di più. “Ci sono addirittura massicci montuosi qui in Paradiso?” chiese, alzando la voce e alzandosi sulle punte dei piedi.
 
La giovane anima si voltò verso di lui, senza tuttavia rallentare il passo. “Tutto ciò che immagini esiste! E tutto ciò che si trova in Paradiso prima o poi ritorna sulla Terra!” gridò, prima di sparire dietro una nuvoletta di una deliziosa sfumatura acquamarina.
 
“Aspetta! Non conosco nemmeno il tuo...” urlò John, ma il ragazzino non poteva più sentirlo. “...nome” concluse, quando attorno a lui era di nuovo calato un silenzio piatto e surreale. Il soldato sospirò e tornò a guardarsi intorno. Sospirò una seconda volta. Di nuovo solo nuvole, nuvole e ancora nuvole. A perdita d’occhio.
 
L’uragano con i riccioli color dell’ebano e gli occhi più belli d’una pietra preziosa che lo aveva investito solo pochi minuti prima non aveva lasciato strascichi alle sue spalle. Eppure John si ritrovò a sperare sorprendentemente – e ardentemente – che piombasse nuovamente a scombussolare la sua nuova... non-esistenza.
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:  grazie a tutte voi, care lettrici, che continuate a seguirmi <3 E’ davvero un esperimento, questo, e spero di non deludervi!
[1] essendo questa l’esistenza di John precedente alla sua vita con Sherlock, ho pensato di sostituire l’Afghanistan con l’Iraq. [2] club che Moran amava frequentare e nominato in L’avventura della casa vuota. [3] frase che Kelly McGillis dice a Timothy Hutton nel film Accadde in Paradiso. [4] un ruolo nel gioco del rugby.
   
 
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