Storie originali > Fantascienza
Segui la storia  |       
Autore: _enrougestlareine    13/09/2013    2 recensioni
Quindici anni, un passato incerto e un futuro che si profila ancora più nebuloso, Dearden è la figlia adottiva del Generale Wordswath, uno degli uomini più importanti della Società.
Viene rapita dai ribelli durante una cerimonia dove riceve una collana il cui ciondolo è identico alla nuova mostrina del padre. E per lei, quel ciondolo è un semplice simbolo del valore del proprio genitore adottivo. Ma se così non fosse? Se quello fosse il simbolo di qualcosa di diverso, ben più pericoloso e inquietante?
Dearden ha sempre sostenuto l'insensatezza della guerra, dato che - secondo lei - non esiste più nessun motivo per combattere. Ma è davvero così?
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Il buon sangue
«Libera la prinzessin, Hugo», Konstantin abbaia un ordine al soldato che ha tenuto la mia corda fino ad ora. È un giovane uomo che avrà sì e no una decina di anni più di me. Ha gli occhi verdi e noto il segno di una vecchia scottatura, laddove la manica della camicia finisce. Cerca di togliermi la corda senza farmi del male, ma non ci riesce e finisce per graffiare  in più punti la pelle già di per sé sfregata. In più, non riesce nemmeno a togliere la corda. O meglio, non ci riesce in un tempo che vada bene a Konstantin.
«Fai fare a me» e, così dicendo, Konstantin sfila dalla tasca un coltellino dalla lama visibilmente ben affilata e con un colpo secco taglia la corda. I due pezzi che gli rimangono in mano vengono gettati sotto una albero mentre Hugo inizia a parlare, leggermente .
«Passeremo il Confine dalla torretta di controllo, proprio sotto il loro naso», fa un cenno a un altro soldato e ricomincia: «Percival si occuperà delle guardie, come da patto. Voi, state intorno alla ragazzina e non lasciatela scappare. Non date l’impressione che sia una prigioniera. Le guardie faranno meno storie, vedendo passare un semplice gruppo di ribelli; potrebbero avere qualche riserva a lasciarci andare con la figlia del generale.
Anzi, datele un’arma così sembrerà più credibile»
E qui si scatena un putiferio. A ragion veduta, lo ammetto.
Accettare di dare un’arma possibilmente pericolosa ad un nemico sotto la propria custodia non è qualcosa di facile da digerire.
Tutti hanno qualcosa da dire, ma in pochi vengono ascoltati. Colui che pensavo avrebbe avuto più di cui lamentarsi se ne sta appoggiato ad un albero, con un’espressione di muto divertimento sul volto.
«Konstantin, sei d’accordo?»
A porre la domanda è lo stesso soldato che qualche ora fa ha zittito Konstantin, fermando i suoi sbeffeggiamenti.
«Hadrian, l’idea è stata addirittura mia. Riesci a crederci, paladino della prinzessin?»
Nella sua voce colgo ancora un po’ di astio, probabilmente dovuto al loro scambio  di poco prima.
L’altro ribelle ingoia le proteste e anche l’altra mezza dozzina di soldati segue il suo esempio. Mi viene consegnata una pistola – suppongo sia la stessa che Konstantin ha usato per spaventarmi – scarica, ovviamente, accompagnata da sguardi sospettosi che mi seguono ad ogni passo.
L’arma è fredda nella mia mano, ma presto la sua presenza mi sembra già familiare e so per certo che potrei anche sparare, in caso avessi dei proiettili in canna.
Alcune delle parole di Hugo mi tornano in mente e inizio a pormi delle domande a cui, forse, avrei dovuto pensare prima. Perché le sentinelle del Confine dovrebbero lasciar passare dei ribelli senza problemi? Perché dovrebbero contravvenire alla legge, piegandosi al volere di un semplice gruppo di divise blu? Quali segreti nasconde questo avamposto lontano dalla Capitale? Quali posso sperare di scoprire e riportare a mio padre?           

---- 
Non corriamo.
Mi ero mentalmente preparata ad una corsa a perdifiato sotto il Sole di mezzogiorno, ma i ribelli camminano. Con scioltezza, tranquillità, quasi come se non stessero per superare un posto di controllo del nemico.
Mi chiedo un’altra volta perché le sentinelle dovrebbero lasciarci passare, ma ormai neppure la mia mente trova più questa domanda interessante, tante sono le volte che me la sono posta.
Più di una volta penso di iniziare a correre, di scappare, sperando con tutte le mie forze che le sentinelle siano le persone leali di cui mio padre mi parlava – sperando con tutte le mie forze di trovare in loro la salvezza –, ma rinuncio al mio piano istantaneamente.
Apparentemente per caso i ribelli si sono disposti intorno a me, facendomi scudo e, allo stesso tempo, impedendomi di scappare.
Ogni passo corrisponde a un battito del mio cuore che, come il ritmo dei nostri piedi, accelera ogni secondo di più. Stiamo iniziando ad andare più veloce e, nonostante cerchino di nasconderlo, riesco a leggere la tensione sui volti degli altri soldati.
Non sono sicuri della riuscita del loro piano, realizzo.
Non ho tempo per pensare ad altro, o appianare i possibili problemi, agisco.
Corro come se avessi l’Inferno alle calcagna, anche se non ci credo.
Corro come mi hanno insegnato.
Corro come se la mia vita dipendesse dalla mia velocità.
Non mi fermo a controllare l’azione successiva dei ribelli, guardo avanti, corro.
Mio padre ha sempre supervisionato i miei allenamenti, costringendomi a versare più sudare di quanto non fosse necessario, a spingere al massimo i miei muscoli – causandomi più volte stiramenti e altri dolori vari –, obbligandomi a dar il meglio di me ogni giorno, ogni ora, sotto il suo sguardo severo. Nonostante tutto, ci ho provato seriamente a compiacere mio padre. Il problema è sempre stato nel fatto che lui non voleva essere compiaciuto, ma meravigliato. E dato che si aspettava già il mio meglio, cos’avrei potuto dargli di più?
Corro.
Però una cosa positiva i suoi allenamenti l’hanno portata: corro molto più velocemente dei ribelli, senza affaticarmi particolarmente.
Ho il mio obiettivo ben chiaro in mente ma ad un certo punto me ne dimentico. Mi dimentico del terreno irregolare, nascosto dall’erba alta e verde, mi dimentico della torretta e della possibilità di essere presa. C’è qualcosa che non torna, qui. Qualcosa che non dovrebbe esserci.
Qualcosa in costruzione.
È sulla destra della torretta, a qualche chilometro da essa e da me, e la sua forma non è ancora definita. Ci sono delle piccole ma resistenti impalcature di metallo, intorno all’opera in costruzione di cui nessuno mi ha mai parlato.
Rischio di cadere, inciampando in un formicaio, ma mi riprendo giusto in tempo per continuare la corsa verso la torre di controllo. La mia attenzione viene catturata più volte dalle impalcature disposte alla mia destra, nonostante mi ripeta continuamente che non è quello il mio obiettivo.
Un proiettile fischia, passandomi a fianco, e riuscendo nel compito di riportarmi alla realtà. Perfetto, ora sparano pure.
Scatto in avanti, ignorando la fitta che avverto all’altezza dei polmoni i quali iniziano a reclamare una pausa. Mi sto affaticando più velocemente di quanto non credessi, penso, prima di vedere una sentinella pararmisi di fronte.
«Indentificati!»
Nonostante mi veda indossare l’uniforme dei ribelli, deve pur riconoscere che sia strano da parte mia correre a capofitto verso un avamposto del mio presunto nemico.
Ed io, nonostante sappia quanto questo sia pericoloso, mi fermo a tre passi di distanza, sentendo le parole di Hugo risuonarmi in testa: le guardie faranno poche storie. Eppure, l’uomo che mi sta di fronte non sembra essere un traditore, ma assomiglia più che altro al ritratto di uomo leale e coraggioso che mio padre mi ha sempre propinato.
«Dearden Wordswath, matricola 190151», dico, senz’esitazione.
Il nome di mio padre suscita la reazione che volevo: il soldato, seppur in minima parte, mostra una sorpresa contenuta e un sollievo che si mescola con l’orgoglio. Devono aver avvertito l’avamposto di un mio possibile arrivo, devono aver promesso qualcosa in cambio a chiunque mi avesse riportata nel quartieri della Capitale.
Con il fucile che porta in braccio mi fa gesto di precederlo, indicandomi un sentiero appena visibile fra l’erba alta. Non credo diffidi di me, ma che si limiti semplicemente a seguire il protocollo. Si volta indietro per assicurarsi che non si tratti di un’imboscata, poi sentendo il mio sguardo sulla sua schiena, mi rivolge un’occhiata calcolatrice. Per un secondo o due si morde, probabilmente senza nemmeno volerlo, il labbro inferiore, prima di portarsi l’indice destro all’altezza dell’orecchio e picchietta sul padiglione esterno.
È un’esortazione: ascolta.
Ed è allora che me ne rendo conto.
Non sento più le detonazioni delle pistole dei ribelli, né grida di altro tipo, e con un misto di preoccupazione e sollievo mi chiedo quando abbia smesso di udirli.
Quando sento la risata di Konstantin, però, non stento a riconoscere il suo tono di derisione. La mia testa scatta verso l’alto, verso la torretta di controllo che ora ospita sei ribelli e quattro sentinelle. Alcune sorridono, altre si scambiano sguardi incerti. Mi chiedo se quelli che mostrano tanta spavalderia con i loro ghigni siano degli infiltrati. Sì, probabilmente sì.
«Fatti indietro, soldato»
«Stia dietro di me, signorina», il sussurro giunge solo alle mie orecchie e improvvisamente mi rendo conto di ciò che sarebbe disposto a fare, per me.
«Consegna la ragazzina subito o non avrei tempo né per un altro respiro, né per aver sulla coscienza la sua vita»
Così dicendo Konstantin indica Hugo che, con apparente nonchalance, prende una delle sentinelle al suo fianco e la cala oltre la finestra aperta della torretta. Il ragazzo si dimena, non deve avere più di sedici anni, che è l’età minima per entrar a far parte dell’esercito dell’Unione. Mi chiedo come sia arrivato in questo avamposto così presto, di solito vi assegnano solo uomini adulti.
Comunque stiano le cose, vedo il soldato di fronte a me irrigidire la schiena, dubbioso. Salvare me, una sconosciuta che potrebbe anche non essere la figlia del generale Wordswath, o il ragazzo che penzola dalla torre di fronte a lui e che sembra conoscere?
So già la risposta, la trovo nei recessi della mia coscienza.
Così mi faccio avanti io, sfilando dalla fondina appesa al suo fianco una pistola carica. Non aspetto chissà quale segno divino, prima di sparare. Miro alla spalla destra di Hugo, sperando che la mano non tremi così da non colpire il cuore del ribelle, e premo con decisione l’indice sul grilletto una sola volta. Il problema è che odo due detonazioni.
Un attimo dopo sono schiacciata dal peso di un corpo morto, la pistola ancora stretta nella mano destra. La testa del soldato è sul mio ventre, mentre qualcosa di caldo cola sulla mia coscia sinistra prima di tingere di rosso l’erba sotto di me.
Sangue.
Il corpo del soldato viene squassato da due potenti tremiti e poi si abbandona, riverso su di me, morto.
Non avevo mai visto mai qualcuno morire e di certo non avevo mai pensato che qualcuno avrebbe esalato il suo ultimo respiro tentando di salvaguardare il mio, ma quando sento la risata di qualcuno risuonare alta nell’aria ferma e silenziosa di questo mezzogiorno, mi rendo conto di quanto il suo sacrificio sia stato vano. Di quanto sia stato stupido, da parte mia, pensare di poter salvare il giovanotto e mettere a riparo dai sensi di colpa la coscienza del soldato allo stesso tempo: il primo ride, nonostante sia evidentemente ferito, disteso per terra, mentre cerca di cambiarsi l’uniforme con quella dei ribelli. Il secondo è diventato un cadavere, senza che io nemmeno me ne accorgessi.
La sentinella dev’essersi lanciata su di me quando ha visto Konstantin mirare verso la mia figura minuta e, nel tentativo di togliermi dalla traiettoria del proiettile, è finito per starci lui. Rabbrividisco, mentre osservo Konstantin bearsi con un sorriso soddisfatto dell’opera ben compiuta. Non sembra importargli particolarmente di Hugo che, gravemente ferito  mugola sotto di lui, o del giovanotto che hanno furbamente usato come finto ostaggio e che è caduto insieme a Hugo quando quest’ultimo è cascato. Non sono sicura di sapere come questo sia potuto succedere, ma suppongo che nel tentativo di rafforzare la presa sulla giacca dell’Unione indossata a tradimento dal giovane ribelle si sia sporto eccessivamente proprio al momento dello sparo. Comunque stiano le cose, non sono affatto dispiaciuta di aver causato le ammaccature dell’incauto infiltrato o la ferita da fuoco di Hugo.
Alzo il viso verso gli altri ospiti della torretta: due giovani si sporgono nel tentativo di assicurarsi delle condizioni dei loro compagni, mentre Hadrian mi osserva in silenzio, attorniato da altri ribelli travestiti da sentinelle.
Anche se una vocina, dentro di me, mi sussurra che questo è il momento giusto per scappare, io non riesco a muovermi.
Resto immobile, con lo sguardo fisso sulla schiena dell’unica sentinella ancora fedele a mio padre, che si raffredda ogni minuto che passa sotto il Sole indifferente di mezzogiorno.

----
Una volta mio padre mi parlò delle sentinelle di confine.
Disse che la gente ne sottovalutava l’importanza e il valore solamente perché erano troppo lontano dalla Capitale e dai nostri Quartieri. Mi obbligò a promettergli che non ne avrei mai dimenticato l’importanza, che li avrei sempre riforniti di ciò di cui avevano bisogno, che li avrei sempre assicurai dell’affetto che, in realtà, nessuno nella Capitale provava nei loro confronti. Mi disse che, quando si vive così lontano dalla società, a volte è difficile rendersi conto della sua situazione e che è facile essere corrotti, ma che loro erano sempre rimasti fedeli all’Unione, nonostante l’estrema vicinanza dei ribelli. A darne prova c’erano i corpi dei giovani vestiti con l’uniforme blu che anch’io sto indossando ora.
Questa nostra conversazione avvenne quando ancora pensava avrei potuto prendere il suo posto nel Consiglio, un giorno. Ma presto era stato chiaro a tutti che io non avrei mai messo piede in quel circolo privilegiato e relativamente ristretto. Mio padre aveva detto che era a causa del forte maschilismo ancor ben radicato nei cuori degli altri generali, ma io avevo sentito le voci che giravano.
Se il buon sangue non mente, il cattivo dev’essere in grado di imbrogliare, dicevano.
Non capivo cosa significasse, quindi lo chiesi a Karina. Lei mi disse che la prima parte era un vecchio detto, mentre la seconda rappresentava la diffidenza che nutrivano nei miei confronti. Pensavano che il mio sangue, il sangue di ribelli che mi scorre nelle vene, mi influenzasse e che se fossi entrata nel Consiglio, avrei mandato tutto allo sbaraglio. Perché anche se il mio comportamento appariva impeccabile, erano sicuri li stessi imbrogliando per ottenere il potere rubandolo a loro. Qualcosa, in quella logica contorta, non mi tornava: in fondo l’identità dei miei genitori era ignota e sarei tranquillamente potuta essere la figlia di due ribelli per bene – ancora non sapevo non ne esistessero – e quindi credevo che anche il mio sangue potesse essere buono.
Da quel giorno, però, iniziai a notare le occhiate sospettose e sprezzanti della gente intorno a me, che ritenevano che la mia posizione fosse stata acquisita con l’imbroglio del mio cattivo sangue, e niente fu più lo stesso.
Ora rivedo lo stesso sguardo riflettersi negli occhi di ribelli e mi chiedo se mai troverò qualcuno disposto a credere nel mio buon sangue.
Quando ero nell’Unione, solo un giorno prima, tutti mi incolpavano perché provenivo dalle terre dei ribelli mentre ora che sono con coloro che combatterono a fianco dei miei genitori, anche questi mi disprezzano e sospettano, perché ho vissuto nell’Unione.
Quando potrò finalmente liberarmi di questi sguardi critici e dell’odio altrui? Quando potrò dimenticarmi da dove vengo e solo concentrarmi su dove sono?
Non ora, questo è certo.
Non mentre attraverso questa pianura erbosa, camminando incontro a morte certa.
Non mentre cammino invece di correre, come invece vorrei fare.
Non mentre penso in silenzio, contando i miei respiri, invece di gridare.
La nostalgia, il dolore, l’odio e il senso disagio che durante questi anni mi hanno seguito come un’ombra, oscurandomi in qualche situazione, ma limitandosi ad imitare ogni mia mossa il resto del tempo, mi colpiscono all’improvviso, quando incontro gli occhi di Konstantin, quando vi leggo le parole che non ha bisogno di pronunciare a voce alta. Quando le sento risuonare nella mia testa con la sua cadenza dura e decisa, con il suo modo particolare di calcare l’attenzione sulle consonanti.
Ti odio.
L’odio non mi ha mai fatto paura, ma il silenzio e la solitudine sì. Hanno scavato dentro di me una fossa profonda, in cui ora cado senza possibilità di fermarmi.
Cado in terra, stringendomi una mano sullo stomaco e mordendomi con ferocia il labbro inferiore. Non ora, non ora. Non piangere, Dearden.
«Dovremmo fermarci, non credi?»
Solo una volta ho sentito questa voce e non sono né abbastanza sveglia, né abbastanza interessata al resto per preoccuparmi di associarla ad un volto in particolare. Lascio semplicemente che i suoni, modestamente morbidi e dolci, mi accarezzino insieme ai raggi solari.
«E questo perché la prinzessin è caduta?»
Questa, di voce, la riconosco. Konstantin.
Sento un lieve sapore di ferro in bocca, quando mi mordo l’interno della guancia per impedirmi di saltargli addosso. Avverto come la necessità di fargli del male, di fargli percepire fisicamente il dolore che lui mi ha inflitto con una semplice occhiata.
«No. Perché Hugo sta perdendo una quantità di sangue esponenziale e questa qui», sento la punta di uno stivale premermi sulla schiena e spingermi leggermente in avanti, «è crollata a terra e non mi sembra abbia intenzione di muoversi molto presto, dato che probabilmente è in caso di shock dal momento che qualcuno ha ucciso un uomo sotto i suoi occhi. In più, noi tutti camminiamo da circa un giorno senza una pausa né dalle tue chiacchiere anti-Unione, né da queste scarpe rigide e smodatamente dolorose.»
Ora mi volto, interessata.        
A parlare è stato Hadrian che, a quanto pare, è l’unico in grado di tenere testa a Konstantin. Ha i capelli biondi tendenti al ramato e gli occhi chiari; è alto, snello e sicuramente più grande di Konstantin di almeno cinque anni.
La piccola ma variegata combriccola di ribelli sopprime a fatica dei risolini, quando Hadrian fa una chiara allusione al continuo lamentarsi e offendere di Konstantin, o al suo tono perennemente annoiato e insoddisfatto con cui si rivolge agli altri. L’oggetto delle risate malamente trattenute si guarda per qualche secondo intorno prima di comprendere il solo a sostenere un’ulteriore mezza giornata di cammino, per poi fare un breve e rigido cenno di assenso con il capo.
«Su, ragazzina, alzati», Hadrian sussura al mio orecchio, le labbra a pochi centimetri dalla mia pelle. Sussulto appena ma lascio che sia lui a tirarmi in piedi e non mi oppongo quando poggia una mano sulla schiena per guidarmi.
Mi indica con il mento un piccolo boschetto di fronte a noi, a circa due chilometri, rispondendo con una scrollata di spalle alla mia espressione di perplessa.


 
~ Rapido angolo dell'autrice ~

Non ho molto da dire, se non che senza Giulia non avrei fatto granché. Mi ha spinta a scrivere anche quando non ero convinta di volerlo fare e mi ha aiutata a correggere quando ha visto che qualcosa non andava - dovete ringraziare lei se siete riusciti a capire la dinamica della morte della sentinella e della caduta di Hugo e l'altro imb--- ribelle.
E grazie anche a quel dolcino di Mery che ha letto per la prima volta il capitolo, trovandolo pure degno di una pubblicazione - chissà cos'ha letto al posto di questo.. coso, mah.

Come al solito parlo al vento e a quelle tre gatte delle mie amiche, ma okay. 

Con amore, Goodbye Alaska.
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantascienza / Vai alla pagina dell'autore: _enrougestlareine