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Autore: Dzoro    14/09/2013    1 recensioni
Angelo è un ex marine veterano della guerra del golfo. Vive in una città americana, da solo, il suo unico amico è un barista di colore. Angelo è un assassino a pagamento. Questa è la sua storia.
Per fan di Cormac McCarthy, Quentin Tarantino e Garth Ennis.
Genere: Drammatico, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Angelo Strano'
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Eccomi qua, alla fine ieri sera mi sono dimenticato di pubblicare il capitolo. Quindi eccovene due, o uno e mezzo se preferite, sono sette pagine in fondo. Grazie per essere arrivati fino a questo punto della storia di Angelo: siamo vicini alla conclusione. Prossima settimana pubblicherò un capitolo bonus prima di venerdì, assicuratevi di seguire la storia per non perdervelo. Ciao!

Dzoro

Ultimo Intermezzo

 

- Ehi, Cab. Cab! Non sapevo che oggi fosse giorno di chiusura.- Angelo bussò sulla saracinesca di metallo, ottenendo come risposta solo un cigolio arrugginito, che risuonò come un invocazione di pietà. Non moriva dalla voglia di bere uno dei caffè di Cab, ma l’orario d’apertura era già passato da mezzora, e il vecchio era sempre stato puntuale come l’ufficio del fisco ad aprire le serrande. Angelo si chiese l’ennesima volta che cosa fosse successo.

- Ehi, Cab, ti si è rotta la sveglia? Avanti, devo festeggiare, ho una roba grossa tra le mani. Certo, sarebbe meglio festeggiarla con una birra piuttosto che con il tuo brodo, ma ci tenevo a dirtela. Insomma, siamo amici, no? Cazzo, Cab, apri, mi sento un idiota ad aspettare qua davanti. Senza tenere conto del fatto che sto parlando con una fottuta saracinesca… Cab!-

Ancora niente, silenzio. Per quella dimenticata strada di periferia non passavano macchine, nemmeno persone, nemmeno un maledetto gatto. Angelo stava da solo, insieme al vento, e ad una saracinesca arrugginita. Si grattò la testa, indeciso sul da farsi. Che poteva fare, poi, tornare a casa? Non aveva un cazzo da fare, in casa, il lavoro non sarebbe iniziato prima di qualche giorno, Spencer aveva detto che lo avrebbe chiamato lui. E intanto l’unica cosa che gli era venuta in mente da fare era prendersi un caffè. No, non aveva voglia di tornarsene a casa. Girò dietro la palazzina nella quale si trovava il bar, è trovo un cortile invaso da bidoni della spazzatura straripanti e bottiglie rotte, oltre che una porta ed un citofono. Non vivevano molte persone, lì dentro. Una rapida occhiata vagò sulle poche targhette dei nomi, e trovò subito quello che gli interessava:

- “Cabell Sanders”? Ma che cazzo di nome è Cabell?- mentre mormorava tra se queste parole, suonò il campanello. Fu come bussare alla saracinesca, non accadde un bel niente. Lo suonò di nuovo, lo suonò fino a domandarsi se non fosse rotto. Forse Cab non era in casa, ma era troppo strano per crederci, quello era capace di non uscire di casa nemmeno per il ringraziamento. Diede un paio di colpetti alla porta, e notò che era abbastanza vecchia. Si frugò in tasca, e trovò il pezzetto di metallo ricurvo che usava in quelle situazioni. Chinatosi a terra, alzò i pantaloni, ed estrasse dalla calza un coltello a farfalla. Lo inserì nella serratura seguito dal grimaldello, e non ci volle molto prima che riuscisse a farla scattare.

La porta si aprì gemendo, su di un corridoio di piastrelle bianche e nere, popolato da sacchi della spazzatura, carta da parati lacera e un paio di gatti, che leccavano il fondo di un piattino di latte in un angolo verso il fondo. Angelo prese a controllare i nomi sulle porte, ma si ricordò subito che Cab abitava al primo piano. Le scale erano in fondo al corridoio, dietro ai due gatti. Quando gli fu vicino, alzarono la testa dal piattino, e lo fissarono. Uno di loro miagolò, e Angelo ebbe l’impressione che stesse tentando di dirgli qualcosa. Gli piacevano i gatti, erano dei simpatici furbetti del cazzo, non erano servili come i cani, o puzzolenti come i criceti, o stupidi come i pesci rossi. Sapevano cavarsela senza problemi, e allo stesso tempo mantenere una certa dignità. Pensò che in fondo erano meglio degli uomini. Gli superò, e loro continuarono a fissarlo, mentre saliva i gradini di legno rigati dalle tarme, sollevando ad ogni passo polvere e scricchiolii. Al piano di sopra non c’era nemmeno il corridoio, le scale sbattevano dritto contro una porta di legno laccato, straripante di serrature, con sopra una targhetta di ottone: “Cab Sanders”.

Angelo iniziò subito a bussare:

- Ehi, vecchio, che ti succede, non rispondi?- prese a pugni la porta come se fosse il suo peggior nemico, ma sembrava proprio che quella mattina non avrebbe ricevuto risposte. Si avvicinò con un orecchio alla porta. La dietro doveva essere accesa la radio: sentiva una canzone.

“You got to tell me, brave captain.”

-Ma che cazzo succede? È diventato sordo?- Angelo riprese di tasca grimaldello e coltello, e si diede da fare su una delle serrature: con sua somma sorpresa, risultò essere l’unica chiusa. La porta si aprì subito, Cab non aveva nemmeno tirato il catenaccio, che penzolava molle dall’altra parte.

“Why are the wicked so strong.” Continuava la canzone in sottofondo, mentre Angelo entrava in un anticamera piena di scarpe consunte, e di foto appese alle pareti. C’era una porta socchiusa davanti a lui. La musica veniva da lì. Angelo la raggiunse con il passo lento di chi entra in una casa non sua senza un invito. La aprì:

- Cab?-

“ How do the angels get to sleep.”

Il soggiorno era spoglio, se non per uno scaffale ricolmo di ogni genere di cianfrusaglia: pietre colorate, foto, libri, vasi pieni di conchiglie, navi in bottiglia. Poi c’era solo un comodino, con sopra appoggiato uno stereo risalente agli anni ottanta, e una poltrona che dava le spalle all’ingresso, in mezzo alla sala. Angelo vi si avvicinò. Cab era lì, seduto, con gli occhi chiusi, e con un gatto nero acciambellatogli sulle gambe. I suoi occhi gialli incontrarono quelli di Angelo. Miagolò anche lui.

-Cab?-

“When the devil leaves the porchlight on?”

Cab era morto così, di sera, con gli occhi già chiusi dal sonno, sulla poltrona di casa sua, con un disco di Tom Waits come marcia funebre, e un gatto nero a dargli l’estrema unzione.

 

Un completo nuovo

 

Cab era morto. Angelo non era triste, non pensava di esserlo, almeno. Più che altro era stordito: era come rendersi all’improvviso conto che le persone non vengono solo uccise, ma muoiono anche da sole. Ed era strano, era come un effetto senza la causa, un vaso che cade dalla credenza senza nessuno che lo spinge giù. Cab era morto.

Angelo passò un giorno intero in casa sua. Non era triste, lui pensava di non esserlo, aveva trascorso altre giornate così. Ma questa era diversa, perché Cab era morto. Il funerale sarebbe stato il giorno dopo, in una chiesa lì vicino (per chissà quale ragione Cab era amico del pastore), alcuni suoi avventori abituali, gli operai che andavano al locale la sera, avevano sbrigato tutte le formalità della situazione. Era strano, Cab aveva più amici di quanti se ne attribuirebbero ad un vecchio scorbutico.

Angelo non era mai stato ad un funerale, non che lui se ne ricordasse almeno, sapeva che di solito ci si vestiva di nero. Fu un pensiero improvviso, natogli in testa da un momento all’altro, senza motivo. Lui non ce l’aveva un completo nero. Andò perfino a controllare nel suo armadio, ma non si era sbagliato. Pensò a dove potesse andare per comprarne uno, e gli venne subito in mente. Poco dopo scese in strada, e salì sul primo taxi.

- Buongiorno.- gli fece il taxista, bianco sulla trentina, vestiti puliti, sorridente, cordiale. Angelo rispose con un mezzo grugnito. Poi disse indirizzo e nome del negozio di vestiti.

- Dispiace se accendo la radio?- chiese ad un punto il taxista.

- Sì.- rispose Angelo. Seguì il silenzio, per un po’.

- È una bella giornata, non pensa?-

- Ne ho viste di migliori.-

Ancora silenzio.

- Ha visto ieri Oprah? Da non credere, io stavo per…-

- Non guardo la Tv.-

Silenzio.

-Va. va a comprare un vestito, vero?- evidentemente l’indirizzo era già noto al Taxista.

- Sì.-

- Vendono ottima roba da Claretti, non pensa?-

- Sì.-

- Un’occasione importante?-

- Un funerale.-

Il viaggio proseguì, silenzioso, fino al negozio.

 

Il risveglio arrivò accompagnato da molteplici sensazioni, confuse dal torpore. Un brivido freddo si propagò dalla punta dei piedi al resto del corpo, scuotendo Angelo dal sonno. Stava dormendo? No, non era così, doveva essere svenuto. Un forte dolore alle braccia gli fece capire che qualcosa gli stava tirando gli arti superiori, stretto attorno ai suoi polsi. Si accorse solo in quel momento di non essere sdraiato, ma tenuto in piedi da una corda appesa al soffitto. Le palpebre iniziarono a sbattere, aprendosi lentamente sul buio della stanza: anche quando furono del tutto aperte, Angelo non riuscì a vedere nulla: tutto era avvolto dalla più completa oscurità. Il respiro di Angelo si fece più affannoso, mentre l’adrenalina iniziava a scorrergli in corpo. Iniziarono allora a succedersi gli odori: sangue rappreso, quello era famigliare. L’odore dolciastro della carne morta.

Il freddo continuava a farsi sentire: capì esattamente dove si trovava. Il magazzino del macello Dunham, per l’esattezza la cella frigorifera. Ci era già stato, un anno prima lo aveva addirittura usato per tenere nascosto il corpo di una vittima. Quella sì che era stata una storia pazzesca. Cosa ci faceva lì? Cercò di ricordare, man mano che la sua mente riacquistava lucidità. Aveva appena messo il vestito, stava andando al funerale di Cab. Ricordava due odori, un acqua di colonia straniera, nauseante, prima, poi l’aroma dolce e pericoloso del cloroformio. Ricordava una macchina che si fermava, poi basta. Diavolo se si sentiva male. Non era nemmeno tanto sicuro si fosse trattato di cloroformio, forse era qualcosa di ancora più potente. Qualche altra immagine gli attraversò la mente: uomini, vestiti di nero. Urla in una lingua che non conosceva, mani e braccia che lo immobilizzavano. Due occhi che lo guardavano, da uno spiraglio del finestrino oscurato della macchina. C’era qualcosa di strano in quegli occhi, l’ultima immagine che ricordava. Sottili, freddi. A mandorla. Ecco, erano stati giapponesi, ora ricordava. Non gli ci volle troppo tempo per trovare un motivo per il quale lo avessero rapito: Taneguchi. Non poteva biasimarlo se ce l’aveva con lui, gli aveva ammazzato il figlio in fondo. Però, per qualche motivo, Angelo era ancora vivo. E si mise a sorridere, capendo esattamente quello che stava succedendo.

La porta del magazzino si aprì, lasciando entrare una luce fioca e soffusa, illuminando lunghe file di maiali scotennati e appesi ai ganci del soffitto. Angelo era in uno degli angoli della stanza, di spalle rispetto alla porta. Tentò di voltarsi, ma il nodo attorno ai suoi polsi era troppo stretto. Rimase fermo, ascoltando un rumore di passi che si faceva sempre più vicino.

- Immagino che slegarmi e riportarmi a casa sia fuori discussione, eh?- fece Angelo, senza però riuscire a parlare abbastanza forte da farsi sentire. I passi si bloccarono. Sentì dietro di se la voce di un vecchio, che parlava in una lingua che non conosceva. Poi quella di una persona più giovane, che invece si esprimeva in un inglese quasi buono:

- Sei tu l’uomo dell’easy ride?- la domanda fece sorridere Angelo:

- No, e tu?- passarono alcuni secondi, il tempo necessario per far capire ad un giapponese un affermazione ironica, prima che una feroce bastonata gli si sfracellasse sulla schiena. Una mazza da baseball, o una spada di legno. Lui strinse i denti, ma dentro di se rideva al pensiero di quanto gli avesse fatti incazzare.

- Sai perché sei qui?- gli domando di nuovo quella voce.

“Per fottermi tua sorella, sfigato.”

-Spiegamelo tu, Hiroito.-

-Hai fatto qualcosa che non dovevi fare. Sappiamo tutto.-

-Cosa sapete voi? Mio Dio, siete dei cazzoni. - aspettò un attimo prima di continuare il discorso. - Beh, che ti prende, non mi colpisci con la tua mazza? Lasciami dire altre due cose, allora. Avete perso, ora i coreani sono contro di voi, tutta la cazzo di città è contro di voi. Lo so perfettamente, io so tutto. Ora potete uccidermi, e cosa otterrete? Vendetta? Andiamo, la vendetta è buona per i film. La verità e che non potete uccidermi, perché sono una pedina troppo importante, in scacchiere più grandi della vostra. E se mi fate fuori, sarete davvero fottuti. E voi lo sapete, vero? Certo che lo sapete. Per questo avete montato tutta questa stronzata, il macello, il rapimento. Pensate di farmi paura? Ma lo sapete chi cazzo sono? Avanti, ve lo chiedo un’altra volta, non è una domanda retorica. Pensate davvero di farmi paura?- Non giunse nessuna risposta. Angelo si chiese se non fosse lì addirittura Taneguchi in persona. Se lo immaginò, immobile come una soldato di terracotta, in piedi dietro di lui. Aveva ucciso suo figlio. E lui stava dietro di lui, in silenzio, e lo guardava con odio, senza fare nulla.

- Avanti.- continuò Angelo, quando ancora nessuna risposta era arrivata.

-Avanti. Uccidetemi. Fatelo, se avete le palle. Io so cos’è la morte. Non ne ho paura.-

 

Angelo venne bendato, ammanettato. Prese anche un bel po’ di calci. Doveva averli fatti davvero incazzare. Lo caricarono di nuovo su una macchina, e lo mollarono più o meno dove lo avevano rapito. Sentì qualcuno che gli toglieva le manette, e infine un ultimo calcio in mezzo alle palle. Rimase sul marciapiede per un po’, mordendosi la lingua, respirando a fatica. Quando si rialzò, si tolse la benda dagli occhi. Era un peccato, gli si era rotto tutto il vestito nuovo. La giacca era strappata, e anche sporca di sangue. Sangue? Non si era accorto che lo stava perdendo. Si tastò il corpo, e trovò un sopracciglio rotto. Il sonnifero doveva proprio averlo rincoglionito, non se ne era accorto nemmeno. Buttò la giacca in un bidone della spazzatura, insieme alla benda. Poi si diresse al cimitero.

La cerimonia era già finita, quando lui arrivò. La tomba era stata appena richiusa, c’erano molti fiori sopra. Angelo ne andò a comprare alcuni poco fuori dal camposanto (la donna che li vendeva gli lanciò una lunga serie di occhiate terrorizzate: la sua faccia non doveva essere un bello spettacolo), e ne mise anche lui.

- Ciao vecchio.- fece poi, chinandosi sulla tomba.

- Non guardarmi male, lo so che è da rincoglioniti parlare coi morti. Scusa se non sono venuto al funerale, ho avuto un contrattempo. Volevo solo dirti che il tuo caffè non faceva poi così schifo, e che mi mancherà. Penso che smetterò di berlo. Cioè, non il tuo, il caffè in generale. Capisci, no? Non ne ho mai avuto bisogno in fondo. E poi… e poi basta. È tutto in effetti. Beh. Ci vediamo.- Angelo si alzò, e tornò a casa. Quando fu davanti allo specchio, notò che in effetti era un brutto spettacolo. Si toccò i denti, uno gli rimase in mano. Ma era già finto, quindi pazienza.


 

   
 
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