Quando la macchina si fermò
sotto casa Diana si slacciò stancamente la cintura di sicurezza,
scese dalla macchina e a occhi chiusi lasciò che fosse il rumore dei
passi di Michele a guidarla verso casa, fino in ascensore, dove si
appoggiò allo specchio e aprì un poco le palpebre: era stata una
bella giornata ma intensa e faticosa, era letteralmente
distrutta.
Quando le porte dell'ascensore si aprirono Michele
l'avvisò:
– Vieni tra un quarto d'ora: ti aspetto per la
pizza.
Diana spalancò gli occhi e la bocca.
– Ma sei matto?
A quest'ora? Sono le quattro, chi è che ti porta la pizza
adesso?
Lui scosse la testa, mentre apriva la porta di casa sua.
–
È surgelata, la scaldo solamente. Ehi, non mi guardare così: dovrai
pur mangiare qualcosa!
Diana si arrese, sorridendo.
– A
dopo, se ci arrivo.
– Lascio la porta socchiusa: non suonare il
campanello, sveglieresti tutti. A parte noi qui ci abitano persone
per bene,
Avendo tempo si fece una velocissima doccia, per
levarsi di dosso l'appiccicume dell'alcol che si era rovesciata
durante la serata, e fortunatamente quella la svegliò un po'.
Si
infilò una tuta e attraversò in punta di piedi il pianerottolo,
trovando la porta aperta come lui le aveva detto.
– Michi! –
lo chiamò, a mezza voce, guardandosi intorno. – Sono qui!
Osservò
la casa: era più bella e più grande della sua, arredata in modo
minimalista ma curato. Una grande libreria troneggiava in salotto,
occupando quasi tutta la parete. Non avendo avuto risposta decise di
curiosare tra i volumi e i vinili riposti, chiedendosi se era
umanamente possibile spaziare tra tutti quei generi. Poi si voltò, e
ammirò la collezione di Dvd: che sciocca, si trattava di Michele,
Google.
– Lo sai che non ti lascerò portare via niente di
quello che vedi qui?
Diana sussultò, scoprendolo mentre era
appoggiato allo stipite a guardarla. I suoi capelli erano umidi,
sentiva fin da lì il profumo di bagnoschiuma, e quella combinazione
le chiuse lo stomaco.
– Andiamo, – cercò di essere
disinvolta. – adesso siamo vicini di casa: dove pensi che potrei
dimenticarmeli?
Michele scosse la testa, attraversando la sala e
raggiungendo la cucina, seguito da lei.
– Un libro. – diceva,
– Un libro ti ho prestato e non l'ho più rivisto. Non se ne parla
proprio.
Sembrava severo, eppure sentendo la sua voce non poteva
fare a meno di sorridere.
– Certo che te le leghi al dito le
cose: non ti ricordavi che mi hai sempre chiamato Daiana, ma quel
libro mica te lo scordi! – sbuffò, sedendosi a tavola mentre lui
tirava fuori le pizze dal forno.
Doveva cercare di parlare, per
evitare di soffermarsi sul pensiero che più si fermava lì, in casa
sua, più era imbarazzata.
– Allora, come sono andata stasera? –
chiese, continuando a muoversi sulla sedia.
Michele le mise
davanti il piatto, con un mezzo sorriso sarcastico.
– E tu
dimentichi che non sono Frank: io non ti liscerò mai il pelo,
dicendo che sei la migliore. – e bloccò il sorriso che stava
spuntando sul viso di Diana, – specialmente perché non è così.
Di
tutta risposta lei arricciò il naso, masticando di gusto.
– È
la seconda allusione a lui che fai oggi: devo dedurre che non siete
più in buoni rapporti?
– Ci arrivi solo adesso? Abbiamo sempre avuto
idee diverse: a me interessava fare un buon lavoro con le risorse
che avevamo a disposizione, a lui le grandi cose. Pavoneggiarci a
migliori, presenziare a mille fiere, riempirci l'agenda di corsi in
città sempre nuove.
Effettivamente era tipico di Frank: un tempo
lo considerava un grande, ma poi, dopo aver conosciuto Michele, aveva
iniziato a vederlo per quello che era, ovvero un montato. Bravo, per
carità, ma pur sempre uno a cui interessava più apparire che
essere.
– E Luca? – gli chiese. Sapeva che erano sempre stati
amici, ancor prima del discorso della società; era stato infatti
Luca a presentarlo a Frank.
Michele scrollò le spalle, bevendo un
sorso di birra.
– Ci si sente. – disse, semplicemente.
Diana
si concentrò sul cibo: stava crollando in piedi, più in fretta
avrebbe finito la pizza prima sarebbe potuta andare a dormire.
–
Che faccino. – commentò infatti Michele, – Ma non eri tu quella
che voleva spaccare il mondo?
Sorrise, guardandolo di sottecchi.
–
Una volta un vecchio saggio mi disse: quando avrai la mia età
capirai, e spero che anche tu avrai qualcuno che ti romperà le
scatole come tu fai con me. – Lo vide sorridere, e continuò. –
Ironico che sia proprio quel vecchio saggio, stanotte, che mi tiene
sveglia. – Gli lanciò uno sguardo complice e continuò a mangiare:
non c'era bisogno di dire altro.
– Diana.
– No. –
bofonchiò.
– Daiana?
Svegliati, non puoi dormire qui, nella mia cucina.
–
Tipregosolocinqueminuti...
Quando aprì gli occhi un senso di
smarrimento la colse: non era a casa sua. E non era neanche nel suo
nuovo appartamento. Si rigirò, scoprendo di essere su un divano, e
mettendo a fuoco la stanza vide l'enorme libreria, che le suggerì
immediatamente che era a casa di Michele. Istintivamente si toccò le
guance: se avesse sbavato sul suo divano non sarebbe stata più in
grado di guardarlo negli occhi; no, era tutto a posto.
Si alzò,
spostando la coperta che lui le aveva messo, e a passi malfermi
raggiunse la cucina, da cui sentiva arrivare dei rumori.
–
Scusami. – disse, affacciandosi alla porta.
Michele sollevò lo
sguardo dal giornale, e poi tornò a leggere, senza degnarla di una
parola.
– Ehi, raggio di sole, ti ho chiesto scusa: non l'ho
fatto apposta! – prese le sue chiavi, appoggiate sul tavolo, e si
girò borbottando. – Me ne torno a casa mia.
C'erano momenti in
cui sentiva che tra di loro scorreva la stessa sintonia perfetta di
quando si erano conosciuti, e degli altri momenti in cui lui la
guardava come se fossero due estranei, e lei fosse una da tenere a
debita distanza.
Attraversò il pianerottolo, gelando con lo
sguardo il tecnico dell'ascensore che l'aveva vista uscire da una
casa ed entrare in un altra, e si chiuse la porta alle spalle. Che
fosse venuto lui a dirle quando era l'ora di andare al lavoro: per
conto suo sarebbe potuta rimanere a casa, non le aveva fatto sapere
niente.
Andò direttamente nella sua camera e si buttò sul
letto.
– Vado un attimo... – provò a dire, ma Diana lo
bloccò:
– No, ti prego stai qui! Avevi detto che saresti stato
con me, ed è solo la seconda sera. – gli ricordò.
Michele
aveva sbuffato bonariamente e si era messo comodo, appoggiandosi alla
ghiacciaia.
Diana, tra un Cuba e l'altro che metteva sul bancone
davanti alla marmaglia di gente gli sorrise, ringraziandolo.
Quel
pomeriggio si era presentato come se niente fosse alla porta di casa
sua, per dirle l'ora per cui si sarebbe dovuta far trovare pronta,
come se lei quella mattina non l'avesse praticamente mandato a quel
paese. Così Diana aveva sorvolato sul fatto che lui era stato
scortese, e l'aveva invitato a entrare per un caffè.
Ed era
tornato tutto come prima.
Stava iniziando a prendere più
confidenza con il lavoro, ma la sua presenza accanto a lei la faceva
sentire più sicura: quando aveva un dubbio, quando si sentiva fuori
luogo, bastava che lo guardasse, ed ecco che la determinazione
tornava a spingerla. Voleva che Michele fosse fiero di lei.
–
Stefano continua a dirmi che devo inventarmi un ruolo. – sbuffò,
quando furono in macchina. – Cecilia era la scatenata, lui e Fabio
sono l'oggetto del desiderio delle ragazzine e l'altro? Come si
chiama, Gianni? Beh, lui fa il tenebroso.
– E io chi sarei,
secondo Stefano? – chiese, divertito.
– Ah, ma è chiaro: tu
sei il boss!
Michele rise di gusto, mentre parcheggiava.
–
Daiana, tu sarai
quella che intimidirà i ragazzini che provano a voler bere gratis. –
la prese in giro.
– Mi darai un'ascia da usare?
– Certo, e
anche un arco.
Ridacchiò, seguendolo verso casa. Iniziava ad
avere paura: quel giorno aveva dormito, e non era più così stanca
come la sera prima, ma forse lui avrebbe preferito evitare di
invitarla ancora, vedendo come aveva reagito quella mattina. Non
doveva fargli capire che se lo aspettava, assolutamente.
–
Allora domani mattina andiamo al Daiquiri ad allenarci?
– Tarda
mattinata o primo pomeriggio.
Diana si stiracchiò vistosamente,
mentre l'ascensore saliva al loro piano.
– Allora sarà meglio
che io non perda tempo davanti alla tv vada a letto immediatamente. –
dichiarò.
– Come, non mangiamo? – le chiese aggrottando le
sopracciglia, quando raggiunsero il pianerottolo. Si fermò con le
chiavi in mano, a guardarla.
– Oh, beh, – balbettò
intimidita, – io non pensavo...
Michele le sorrise.
– Non
vuoi la pizza? E va bene, ti faccio un piatto di pasta. – disse,
voltandosi e andando ad aprire la sua porta. – Ricordati di non
suonare.
Diana rimase sul pianerottolo, a guardare la porta che si
accostava. Ma come faceva Michele a farla sentire sempre così? Più
cercava di ricordare e più poteva giurarlo: in passato non lo aveva
mai, mai considerato bello. Non perché non lo fosse, ma perché lo
vedeva come una figura enormemente più adulta di lei: Diana non
aveva neanche vent'anni, e lui aveva una vita intera di esperienze
sulle spalle. Michele era il suo mentore, insieme era come se non
avessero sessualità, non c'era mai stato un dubbio su quello. E ora,
più guardava il suo viso, rude ma bello, più sentiva la sua voce,
più voleva sprofondare.
Pur di staccarsi quei pensieri dalla
mente cercava in lui la figura che aveva sempre significato,
richiedendo la sua approvazione, permettendogli di insegnarle nuove
cose, ma non stava funzionando; anziché riportarla allo stadio di
ammirazione asessuata Michele diventava semplicemente più
desiderabile ai suoi occhi, e al tempo stesso più irraggiungibile.
Lo sapeva, lui non l'avrebbe mai guardata, e lei non voleva rendersi
ridicola, correndogli dietro per poi essere rifiutata, e rovinando
non solo quello che in quei giorni avevano ricostruito, non solo
quella che sarebbe stata la sua nuova vita, ma anche il ricordo della
loro amicizia.
– Sai a cosa stavo pensando? – disse,
entrando nella sua cucina . Michele era girato di spalle, così lei
continuò. – Ora ho la stessa età che avevi tu quando ci siamo
conosciuti: non è incredibile? Mi sembravi così
grande, e ora io ho la stessa età.
– Un paio in meno, bambina.
– sottolineò, mettendo i piatti sul tavolo.
Diana gli diede a
vaschetta di gelato che aveva portato: voleva contribuire alle loro
cene.
– Che differenza fa?
Alzò eloquentemente un
sopracciglio e si sedette di fronte a lei.
– Pare che ce ne sia
molta, stando a quello che mi ha detto Stefano, a come hai reagito
quando ti ha dato della trentenne. – stappò il vino rosso e gliene
versò un calice, per poi versarsene per sé.
– Il gusto del
mangiare. – divagò Diana, ricordando come secondo lui ogni pasto
andava accompagnato dalla giusta bevanda. Annusò il vino e gli porse
il bicchiere, per un brindisi. Michele lo guardò per qualche
istante, poi lo fece scontrare svogliato contro il suo.
– E comunque io
preferisco pensare che ci sia una differenza. – dichiarò,
iniziando a mangiare.
Solitamente gli avrebbe chiesto una
spiegazione, ma in quel momento qualcosa la induceva a non farlo,
nonostante quell'affermazione fosse rimasta nella sua testa
continuando a vorticare, in cerca di una soluzione.
Nda: allora, innanzitutto un grazie
enorme a Bloomsbury, che ha letto e commentato i primi due capitoli,
riempiendomi di gioia. Lo sai che non sei costretta, vero? ;-)
E secondo di tutto... voi non avete la minima idea di quanto mi stanno
facendo dannare questi due protagonisti: ricordatevi, non è
colpa mia ma è colpa loro. Capirete più in là, non
temete.
Viva il fandom delle originali. Sì, vi sto un po' allisciando, si sa mai che mi prendiate in simpatia ;-)