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Autore: Windter    20/03/2008    2 recensioni
[Maria-Sama Ga Miteru - Youko x Sei]
Attenzione: spoiler su "La Foresta di Spine", Shoujo-Ai.
C'è una ragazza che si aggira, annoiata da tutto e tutti, nei giardini dell'Istituto Lillian.
Il suo nome è Satou Sei. Ed anche se nessuno se lo potrebbe attendere, è il demone biondo destinato a sconvolgere l'esistenza dell'integerrima Mizuno Youko.
Rosa Chinensis en Bouton, per la prima volta nella vita, si ritrova a dover far fronte ad un sentimento che sembra capace di schiacciare la sua razionalità ed il suo senso del dovere. Costretta fra nuove ossessioni e desideri repressi, fra i doveri e i "no" del suo cuore, dovrà imparare a convivere con gli strani ritmi della vita di Sei. Oppure arrendersi e lasciarla volare via, lontano da sè.
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shoujo-ai, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Riflessi - Tempesta d'Intenti 11 Maggio 2008: corretta e sostituita la versione precedente con quella attuale. Riflessi capitolo IX: Tempesta d'Intenti, versione 1.2.





[ Riflessi - Youko x Sei ]


IX

Tempesta d'Intenti



Quando con visibile preoccupazione mi domandasti più volte se mi sentissi bene, offrendoti addirittura di prenderti cura di me, riuscisti a spingere i limiti del mio autocontrollo ad orizzonti che non avevo mai nemmeno immaginato. Non so come feci a non insultarti, a mantenere la voce bassa ed i modi dignitosi. Non so in virtù di quale strano stato mentale riuscii a trattenere ogni segno visibile di quella rabbia che, frase dopo frase, montava rapidamente dentro di me. Quel è certo era che ai germogli della primavera dei miei sedici anni avevo ormai raggiunto la piena maturità nell'arte della conversazione e della dissimulazione; misi tutta me stessa nel tentativo di non dare in escandescenze e liberarmi di te il prima possibile.

Dovetti ripeterti che era tutto a posto talmente tante volte che mi seccai persino di sentire la mia voce ribadire quel concetto. Mi costrinsi a dire che stavo benissimo, benché segretamente la mia caviglia ormai dolesse terribilmente, e arrivai persino a sforzarmi di camminare normalmente pur di allontanarti per poter finalmente poi lasciare anche io quel luogo, che ormai ai miei occhi aveva assunto i connotati di un incubo.
Mi sentivo quasi bruciare sul viso lo schiaffo che avevi appena dato al mio spirito.

Non appena riuscii a farti allontanare, nulla mi avrebbe potuto convincere a rimanere laggiù un solo secondo oltre. Zoppicando vistosamente, con il peso tutto caricato su una gamba, mi precipitai all'uscita secondaria dal lato opposto del teatro.

Sotto la luce del sole mi abbandonai contro il muro esterno del club, ancora sconvolta da quel che era accaduto. Era ridicolo che tu, che mi avevi scansata così a lungo senza il benché minimo rispetto per la mia persona, senza la benché minima spiegazione, ti fossi preoccupata tanto per il mio stato di salute. Ed era ridicolo che io ti avessi scacciata, ma ancor più era ridicolo il fatto che ti avessi lasciata andar via impunemente, benché avessi così tante volte pensato a tutto quel che avrei voluto fare non appena ti avessi avuta di fronte!


Tutte le mie maschere erano crollate, i miei propositi stracciati, i miei piani si erano sciolti come cera al sole. Mi domandai come avrei fatto a guardarmi allo specchio, quella sera stessa prima di andare a dormire, e con quali occhi avrei affrontato la realtà della sconfitta. Ero ancora così immatura, così pronta a lasciarmi trascinare dai sentimenti; e non mi sapevo spiegare come avessi fatto a non rendermene conto sino a quel momento.


Quella sera, in realtà, non avvenne nulla di quel che avevo preventivato. L'angoscia scomparve piano piano in quelle ore e, dopo cena, mentre mi preparavo a dormire un inusuale stato di lucidità mi aiutò a mettere in ordine i pensieri. Ripassai nella mente cos'era accaduto nel pomeriggio, valutai quali emozioni mi avevano alternativamente attraversata, cercai di ricordare cos'avevo pensato, e quando.

Alla fine, immersa forse già per metà nel sonno, conclusi che in fondo non era colpa tua se per te, e con te, sarei stata sempre e solo un rimpiazzo. Non era colpa tua se il mio orgoglio era talmente forte da impedirmi di perdere. Ti conoscevo fin troppo bene ormai, e mi rendevo conto che tu, forse più di me, non eri stata altro che una vittima degli eventi che ti erano rovinati addosso. Ed ancora, in quel momento pativi la pena di essere scivolata in mezzo a tutto quel che era accaduto, eventi che ti avevano risucchiato senza che probabilmente te ne rendessi nemmeno conto.

Mentre scivolavo nel sonno, giunsi alla conclusione che capivo alla perfezione le tue motivazioni e che erano giuste, dal tuo punto di vista. Ed io non potevo non condividerle, per quanto poi tirassero in mezzo anche me. Per quanto, poi, in fondo fossi io quella che soffriva.

Mi addormentai pesantemente, e per la prima notte da molto tempo non sognai nulla.



***



Se si dovesse domandare a Eriko o a Rei come trascorsi i giorni successivi, mi dipingerebbero come una Rosa Chinensis dispiaciuta, leggermente insofferente all'idea di un'inerzia forzata e di dover essere costretta a farsi aiutare per riuscire a svolgere appieno i suoi doveri. In quel periodo erano perlopiù concentrate su loro stesse e sulle loro nuove responsabilità; non saprebbero aggiungere molto altro.

Ma la stessa Sachiko, che pure invece proprio perché stavo male investì grandi energie ed attenzioni nei miei confronti, non potrebbe dire granché di più. Nemmeno lei saprebbe parlare di un vero e proprio termine di quel mio stato d'animo, di un dato momento, di un limite preciso. Prima il dover star ferma ad ogni costo mi infastidiva, poi tutto finì. Avrà pensato mi fosse passato il male, com'era in fondo naturale che facesse.

No, nessuna di loro saprebbe dire esattamente quando, o per quale motivo la mia apparente irritazione scomparve, lasciando il posto ad un nuovo stato di intensa, ordinatissima, esagerata attività. Nessuna di loro era lì mentre quel pomeriggio, quando ormai la mia caviglia era quasi guarita e potevo salire le scale da sola, aprii la porta della Casa delle Rose. E ti trovai lassù.


Sedevi sul davanzale interno della finestra - la mia finesta - leggermente di tre quarti, con la gonna scura convenientemente lunga abbastanza da arrivare a coprirti le caviglie. Fra le mani sorreggevi una tazza di the, come se essere lì, in quel momento, fosse stata la cosa più naturale del mondo. Come se fossi stata presente in quel punto ogni giorno, da sempre e per sempre, ad aspettarmi. Con assoluta pacatezza guardavi al di là dei vetri, come avevo fatto così tante volte io, durante quei lunghissimi mesi. Cercandoti, senza mai riuscire a trovarti.

Ed in quel momento, tu eri lì. D'improvviso l'ombra si era materializzata, con un impatto tale che dimenticai quel che era accaduto a teatro, e mi sembrò di vederti per la prima volta da quella notte in cui il tuo sogno con Shiori si era infranto. Potevo guardarti, potevo quasi toccarti ed era tutto così semplice, così banalmente semplice, da lasciarmi senza fiato. Ed era bello, andava bene così. Semplicemente noi, come se non fosse mai accaduto nient'altro.

Ritornò ad aleggiarmi nella mente il pensiero che avevo formulato quella notte, la concezione che alla fine dei conti ci eravamo trovate come pedine in un gioco spietato, molto più grande di noi. E provai pena, per me e per te, che avevamo rincorso a tal punto i nostri desideri da lasciarci quasi schiacciare dal loro peso.


Sarebbe bello se ogni emozione potesse esprimersi nella sua più totale purezza, come un cristallo inondato dalla luce che estenda i suoi fulgidi raggi in ogni direzione, senza la titubanza e la paura che sempre accompagna lo svelarsi di quel che serbiamo presso il nostro cuore. Ancor più, sarebbe bello che ogni sguardo potesse apprezzare la delicatezza di emozioni così grandi, e che ogni cuore potesse battere all'unisono, con lo stesso ritmo e la stessa potenza, perché ogni sentimento possa essere ricambiato.
Purtroppo, nella vita le cose non vanno mai così. Ma se si può fare una colpa del far appositamente male a qualcuno, l'errare come ciechi ed il reciproco ferirsi sono disgrazie della natura umana. Ed io sentii in quel momento che la tragedia che ci aveva accumunate si era compiuta, e che il massimo dolore era ormai trascorso. Da quel punto in poi, mi dissi, avrei potuto iniziare la risalita.
Da quel punto in poi, forse, avrei potuto iniziare a perdonarti.

Presi un profondo respiro, perché mai avrei pensato di incontrarti lì, in quella maniera. E dolcemente spinsi la porta in avanti, pronta ad entrare nella sala principale della Casa delle Rose.
Tu, allertata da quel rumore, risollevasti lo sguardo su di me. E in quei tuoi occhi di cielo, sebbene non ne fossi sicura, per la prima volta mi parve di vedere il riflesso della mia figura.


- Ah, Youko-san. Ti attendevo, il the è pronto.


Ti vidi tendermi la tazza che sorreggevi fra le mani, con un gesto quieto ed elegante, quasi al rallentatore. E sorridevi. Con una semplicità disarmante tu mi guardavi diretta negli occhi, accogliendomi nella Casa delle Rose.
Il tuo sguardo limpido e il tuo sorriso, come il più dolce premio per essere ritornata a casa. Tanto bastò a togliermi le parole, a cancellare ogni mio pensiero, con un solo colpo di spugna. Con assoluta meraviglia, mi ritrovai immobile, a fissarti, con addosso una sensazione di incredibile sollievo.


- Qualcosa non va, Youko-san? E' buono, te lo assicuro!


Presa in contropiede, ancora non riuscivo a capacitarmi di quell'improvvisa leggerezza, quel calore inverosimile che mi si era acceso nel petto all'apparire di quel tuo sorriso. Scolpita sul viso, la mia espressione doveva stare rispecchiando tutto il mio sconcerto. Non riuscii a distogliere lo sguardo mentre scendevi dal davanzale, e rivolgendomi un'occhiata divertita ti avvicinavi a me, sorreggendo la tazza fumante.

Mi ritrovai a balbettare qualche scusa incoerente, accettando il tuo invito ad accomodarmi come se io fossi stata l'ospite, e tu quella che per settimane e settimane si era presa cura di quel luogo, in attesa del mio ritorno. Era tutto così irreale da sembrare quasi logico, e per qualche attimo mi ritrovai a dimenticare tutti gli avvenimenti di quell'ultimo periodo. C'eri tu, c'ero io, c'era una tazza di the fumante. Ed era una sensazione così piacevole che decisi di abbandonarmici. Noi due, sole, e basta.

O almeno, questo era ciò di cui volevo convincermi. In quel luogo senza tempo forse poteva a prima vista sembrarmi possibile che tutto potesse ritornare a mesi e mesi prima, e potesse riscriversi la storia sino a portarci ad essere di nuovo vicine, così come non lo eravamo state mai. Ma strisciando sotto i nostri discorsi un sussurro sottile mi ripeteva incessantemente, nei recessi dell'anima, che non era così. Che tutto era sbagliato, e che persino nelle pause fra le singole parole si celava la promessa di un silenzio molto più pesante e profondo, abissale. La voragine aperta fra noi, in realtà, non poteva chiudersi con tale semplicità.

Parlammo, attraverso i fumi del the, di tutto e di nulla, senza ricercare argomenti particolari. La nostra era una quiete destinata a durare poco, ne ero perfettamente consapevole, ma mi volli godere fino all'ultima goccia quella parentesi di quiete, quell'assaggio della vita che non avremmo mai vissuto. Nel momento in cui avrei finalmente dato ascolto alla voce che mi torturava, ricacciata di respiro in respiro nelle profondità della mia mente, avremmo dovuto affrontare la montagna cui stavamo girando intorno, gradualmente sempre più vicine.
Quando ormai la mia tazza era vuota, calò infine il promesso silenzio. E non mi seppi trattenere oltre.


- Cosa ci fai qui, Sei-san?


Così come esagerata ormai era usualmente ogni tua reazione, anche quella volta non lo fu da meno. Mi guardasti come se ti avessi chiesto di introdurre nella scuola un alcoolico; con quel tuo misto di sorpresa e di sfida che mi faceva sempre pensare stessi davvero riflettendo sulla possibilità di accettare una proposta così pazzesca. Poi sfoderasti un sorriso smagliante e mi rispondesti con tutta calma, come se quella fosse la replica assolutamente più logica di tutte.

Non saprei dire quali fossero le mie aspettative, allora. Potevano esserci mille motivi per giustificare la tua presenza lì. Avresti potuto presentarti apposta per rendere il rosario a Rosa Gigantea, per esempio. Oppure, potevi aver deciso di fare qualcosa di strano e recarti alla Casa delle Rose, giusto per noia. In realtà, probabilmente non mi interessava nemmeno saperlo. In profondità sapevo solo che, al di là di tutto, non era corretto che tu fossi lì. Avrei voluto dimenticare, avrei voluto disperatamente aggrapparmi a quell'illusione di serenità che per qualche minuto aveva riempito il mio cuore avvicinando noi due, anche se per finta. Avrei voluto che tutto rimanesse così, per sempre.
Ma il mio senso di giustizia non poteva eclissarsi a lungo, e tornò prepotentemente a galla portando con sè tutti i ricordi di quanto era accaduto negli ultimi mesi. A malincuore dovetti ammettere che nulla era stato risolto, e che avresti dovuto essere al di fuori di quella casa, che ormai non ti apparteneva più.

Perché quella era la mia casa, ed io non ti appartenevo più.

Per quanto la mia fosse solamente una domanda tesa in modo mirato a sollevare il problema di cui discutere, a far partire il litigio che ti avrebbe portata ad andartene di lì per sempre; per quanto mi dispiacesse, e per quanto non mi attendessi nessuna risposta in particolare, la tua replica mi spiazzò completamente.


- Sono qui per te, naturalmente. Come va la caviglia?


Te n'eri ricordata.

Te n'eri ricordata, ti era preoccupata, ed eri venuta fin lì per me.
Mi avevi aspettata, mi avevi preparato il the, e... No, era troppo. Appoggiai le mani sul tavolo e mi risollevai in piedi, intenzionata ad andarmene il prima possibile.

Ti voltai le spalle e, senza una sola parola, mi avventai in direzione della porta. Avevo fatto di tutto per capire la tua posizione e perdonarti, ma dopo tutto quel che era successo, dopo tutte le speranze che eri riuscita ad infrangere, una risposta simile era una vera e propria presa in giro. Non l'accettavo, non questa volta. Avevo già subito lo scotto di avvicinarmi troppo a Satou Sei, e l'avevo pagato attraverso moti violenti del cuore, e sofferenze che prima non avevo nemmeno mai immaginato. Poi avevo cercato di uscirne, di arrampicarmi verso la sommità del pozzo in cui tu mi avevi scagliata. Ma questo andava oltre ogni limite. Era abbastanza, ne avevo abbastanza. Delle gelosie, dei sogni ad occhi aperti, degli inseguimenti, di tutto. Del dolore. Di te. Realizzai in quel preciso istante che non avrei mai, mai potuto essere serena al tuo fianco.

Ero ormai quasi prossima all'uscio quando la tua mano mi afferrò per il polso, e con un movimento rapido mi attirasti a te, tirandomi indietro.
Eri forte, dannazione.

Tentai di respingerti, strattonando la mano, ma l'altro tuo braccio, fulmineo, era già calato all'altezza della mia vita a stringermi in un mezzo abbraccio ninja di quelli tuoi soliti, da dietro. La spinta del tuo corpo contro la mia schiena, il tuo calore così improvviso mi paralizzarono per qualche momento, inibendo ogni mia risposta com'era già avvenuto tempo prima, in quell'assurdo pomeriggio al Club di Teatro. Indescrivibile come un minimo contatto con la tua pelle sappia mettere a soqquadro i miei pensieri, riuscii a considerare sfocatamente mentre rabbrividivo. Un attimo più tardi condotta dalla pressione delle tue dita sul mio braccio una serie di ricordi mi attraversò la mente, e si scardinò completamente la porta dei ricordi proibiti; affiorò allora alla mia consapevolezza, con impietosa lucidità, quanto a lungo avessi voluto quel contatto, o avessi sognato anche solo la possibilità di sfiorarti. E come avessi smentito e negato poi categoricamente quei miei stessi segreti desideri, censurandoli in profondità.
Smisi di agitarmi, crollando la mano al mio fianco ed arrendendomi al peso di una rivelazione folgorante, dal peso insostenibile. In un angolo remoto della mia mente confinai le rimostranze di quel leone che era già stato domato, giustificandomi con il pensiero che, anche volendoti rifiutare, non sarei comunque riuscita a liberarmi da quella stretta.


- Questo cos… -

- Non andare.


Mi zittii nuovamente, docile nel tuo saldo abbraccio. In quel momento, pensai, avrei fatto qualunque cosa mi avresti chiesto pur di poter rimanere così. Abbandonata al languore che aveva risvegliato quella catena di memorie, schiacciata da una consapevolezza che freneticamente, istante dopo istante, prendeva vita dentro di me, in una morsa dolorosa che andava stringendosi intorno al cuore sempre più, dal momento in cui le tue braccia si erano allacciate intorno a me.
Se solo non fosse stato così amaramente piacevole...


Voglio... voglio solo spiegarmi, va bene?


Non avevo più forze, né volontà, per ribellarmi. Avresti potuto plasmarmi come plastilina con le dita, se solo avessi voluto farlo. Il mio cuore perse un colpo quando avvertii una nuova insicurezza in quel tuo tono, una nota di timidezza che portava con sé il profumo della Sei che avevo conosciuto, e che quella notte di neve e di lacrime mi aveva portato via mesi prima.
La nostalgia di quel ricordo mi invase, e non seppi - non volli opporre resistenza.


Mi avevi fatto male, Sei. Mi avevi fatto male da morire.
Male da terminare il fiato in urla che non avevo mai espresso, male da rompermi le dita a dare pugni che non avevo mai tirato. Male da diventare un'ossessione, male da infestare ogni mio sogno, ogni mia notte, male da confonderti con ogni ombra sul mio cammino. Male da trasformarti nell'aria e poi tremendamente allontanarti, ed in quell'assenza comunque non sparire mai del tutto; non uccidermi, tormentandomi in un doloroso boccheggiare, facendomi annaspare fra mezzi soffi che non sarebbero mai valsi un vero respiro.
Male da farmi rantolare giorno dopo giorno alla ricerca di te attraverso i giardini del Lillian, come se perduta in un deserto troppo vasto da potersi attraversare così, vagando a piedi, affondando passo dopo passo in una sabbia arida e caldissima. Bisognosa di una sola, anche di una sola, piccola, infinitesimale goccia d'acqua.

Ti eri trasformata, ti eri nascosta, avevi giocato a far finta non fossi mai esistita ed alla fine eravamo di nuovo lì, tu ed io, come se non fosse accaduto nulla ed il cerchio del destino si fosse chiuso in quel momento, per poi ricominciare il giro della sua danza.

Se c'era la possibilità di dare un nuovo inizio a noi, conclusi, non mi sarei rifiutata di affrontarla.


Nonostante la mia risoluzione, avevo paura. Eri riuscita a scuotere il mio sistema a tal punto da farlo barcollare terribilmente, eri stata capace di penetrare sottilmente nei miei pensieri sino a prenderne possesso e, con essi, fare tua anche me stessa. Mi avevi spinta fino al mio limite, ed eri ancora così vicina da risultare pericolosa. Avevo amato la tua solitudine e la tua fragilità, senza rendermi conto che nel frattempo stavi minando la mia sicurezza.

Ma, in fondo, andava bene anche così.

Non era importante cosa si sarebbe aperto da quel momento in poi, ma chi avrei voluto essere, e quali forme avrei voluto dare al mio futuro. Qui non si parlava più di Yamayurikai, né di boutons, né di impegni o di fede. Si parlava, finalmente, solo di Mizuno Youko. E di quanto sarebbe riuscita ad osare, ed a tendere la mano verso Satou Sei.

Avvertii la mia gola chiudersi, anticipando un'ondata di timore che mi colse come un brivido lungo la spina dorsale. Non sapevo se sarei riuscita a resistere, questa volta.
La tua voce prese vita soffiando leggermente sul mio orecchio, calda e bassa e solcata dalla nota di dispiacere più puro avessi sentito in te, da lungo tempo a quella parte. Mi riportò ancora una volta indietro ai sapori di quella notte, al gelido profumo della neve che ci sfiorava il viso ed al tuo braccio, pesante, intorno alle mie spalle. Mi imposi di controllare il respiro, frenetico per l'agitazione.


- Mi dispiace, Youko-san. Io- io non ci riesco, lo vedi che non ci riesco? Non mi odiare, se puoi, ti prego, non mi odiare. Io non sono come te, non sono fatta per questo, capisci? Per questa casa, per questo the, per... per queste cose. Non lo so cosa Rosa Gigantea ha visto in me, ma...-


Basita. Dopo solo poche parole mi ritrovai basita, sconvolta dall'orrore, dall'ira, dall'orgoglio che prese a ruggire furibondo in me. Come osavi permetterti di ritirarti, ora che ti avevo fra le mie mani, così stretta a me? Come osavi scappare dopo tutto quel che mi avevi fatto penare, dopo tutto il dolore e l'impegno, e la rabbia e l'ostinazione che avevo dovuto impiegare per starti dietro?
Ma soprattutto, come osavi sottovalutarti a quel punto, come osavi tu, ammirata ormai da tutti, credere di essere in diritto di giudicarti meglio di chiunque altro, scappando così - codarda! - dall'unico legame ci fosse ancora fra noi?

Non so cosa mi prese allora, cosa mi fece scattare in maniera così immediata da interromperti con un grido - oh, come fui avventata! - e poi riscoprirmi nemmeno io so come lontana da te, con i segni bianchi delle tue mani sulle mie braccia. Spinta dall'onda della rabbia e dello sconcerto, intenta a sbatterti addosso tutte le mie ragioni. Nel mio cuore si dibatteva furibonda l'esigenza di gettarti in faccia tutto quello che pensavo, tutto quello che avevo provato in quei mesi in cui tu, e solamente tu avevi rappresentato il mio incubo più ricorrente. Non feci nulla per trattenermi.


Alzai la voce e cercai di colpirti senza alcun ritegno, chiarendo quanto ognuna di noi avesse creduto in te, avesse sofferto con te, ti fosse stata vicina con il cuore e con la mente. E ancor più, ti rivelai quanto di buon grado avremmo tutte noi accolto Shiori nello Yamayurikai - sì, osai scandire il nome proibito, incurante della situazione - e di quanto avessimo lavorato per favorire il vostro avvicinamento. Stupidamente, aggiunsi, perché quel che in cambio tu avevi fatto, quel che mi avevi fatto, era stato terribile.

E non mi resi conto di come cambiasse il tuo sguardo mentre continuavo a strepitare; man mano che la verità veniva a galla si faceva in me sempre più imperativo il bisogno di liberarmi di quel male che gravava nel centro del mio petto, il bisogno di scaricare su qualcuno, su di te, tutto il mio fardello. Non c'era più spazio per i silenzi, non c'era più spazio per le bugie. Così ti descrissi senza pietà quanto fosse mancata la tua presenza, in quali e quante forme ti avessi cercata lungo quei mesi e come avessi sofferto per il tuo totale disinteresse nei miei e nei nostri confronti. E per come avessi calpestato i miei sentimenti.
Mano a mano che parlavo il mio cuore ammarò in un sollievo crescente, librandosi nei cieli tempestosi dell'irritazione. Mi lasciai andare completamente e fra le mie labbra scivolarono i miei più inconfessabili segreti, cavalcando l'onda d'ira e di giustizia che quel tuo mormorio aveva scatenato. Ed il concedermi dopo tanto tempo la libertà di parlare come credevo fermamente non avrei fatto mai, a ruota libera e senza nascondere nulla, mi inebriò a tal punto che quando quel momento iniziò a trascorrere e mi accorsi di quel che le mie labbra stavano pronunciando, qualcosa dentro di me si raggelò.

Non avevo idea di come potesse essere accaduto, ma mi resi conto d'improvviso di quel che ti stavo dicendo, e di quanto orrendamente fosse vicina la linea da non oltrepassare. Mi accorsi che era terribilmente tardi, e che la mia sopravvivenza era in serio pericolo. Stavo rischiando di andare a sbattere per l'ennesima volta contro il muro chiamato Satou Sei, e se c'era ancora un minimo di faccia da salvare, un minimo di situazione da giustificare con qualche scusa improvvisata, dovevo intervenire all'istante. Qualcosa urlò dentro di me.
La mia ragione con una frustata violenta tirò disperatamente il pedale del freno, cercando di zittire la lingua troppo veloce, e sperando di fare in tempo prima di schiantarmi.


- ED E' PER TUTTI QUESTI MOTIVI CHE IO TI...


Scansai il muro per un soffio.


- ... dico che non posso capire perché ti sottovaluti così.


Quando la mia voce si spense avevo la gola in fiamme e mi sentivo tremare dalla testa ai piedi. Speravo di avercela fatta, cercai il tuo sguardo con urgenza. I tuoi occhi mi fissavano, sgomenti, e considerai che probabilmente sarei svenuta di lì a poco.
Non riuscivo nemmeno ad abbassare lo sguardo, tale era la consapevolezza di quel che avevo fatto. E in quel lungo momento di silenzio il dubbio che tu non avessi colto o che non avessi capito si insinuarono in me, speranzosamente. Pregai con tutta me stessa Maria-Sama mentre ti guardavo, e d'un tratto - rendendomi conto della situazione - avvertii una vampata di vergogna infuocare le mie guance e finalmente rivolsi gli occhi al suolo.

Una voce soffocata dentro di me mi disse che avevo bisogno di prepararmi alla tua replica, ma fui incapace anche solo di ripensare a quello che avevo avuto il coraggio di dire, sebbene non avessi concluso quello sbotto con la frase che avrebbe coronato il tutto, rovinandomi definitivamente. Agitandomi in un pozzo di disperazione provai a dirmi che c'era ancora speranza, ma la mia voce non risultò convincente nemmeno alle mie orecchie.

Mi sentivo fragile come una rosa pronta ad essere spezzata dalla zampata della tigre, ma non era più in mio potere la possibilità di fare nulla. Potevo solo attendere e sperare, e preparare una scusa degna di questo nome, qualcosa che mistificasse e giustificasse quel che avevo detto solo pochi istanti prima, per far sì che ogni cosa potesse riprendere esattamente così com'era stata fino a quel momento. L'avrei fatto, se solo fossi riuscita a pensare a qualsiasi cosa oltre a quanto fervidamente sperassi che tu non avessi capito nulla. Così rimasi lì a fissare il pavimento, ammutolita. Anche il tentativo di ricapitolare quel che avessi detto, per mettere in ordine i pensieri, fallì. Nella mia mente c'era un enorme schermo bianco, che nulla riusciva a trapassare. Ero completamente sorda e cieca.
Riuscì a venirmi in mente solo il fatto che avevo gridato cose che non avrei mai dovuto osare, e che avevo mal di gola perché avevo alzato la voce. Pregai che tu pensassi che ero impazzita.


Il bianco silenzio mi sembrò non voler finire mai.
Sembrò volermi inghiottire. Volermi annullare. Voler cancellare ogni cosa, comprese me e te.


Poi tu abbassasti lo sguardo, e fu come se un sipario nero fosse calato bruscamente fra noi. E mentre il mio cuore riprendeva vita in battiti scomposti, che mi risuonavano nelle tempie come tamburi impazziti, tu come un'ombra schiacciata dal sopraggiungere della notte uscisti in silenzio dalla Casa delle Rose lasciandomi da sola, con due tazze sul tavolo.


Vuote.


  
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