▪ CAPITOLO 06 ▪
aveva gli occhi di una persona che ha perso tutto.
A volte Lyosha si
arrabbiava con il mondo da volersi sciogliere in mille lacrime.
In quel momento, per esempio, era furibondo – e
non poteva urlare, non poteva grugnire, fare versi, niente. Ariel lo guardava
stupefatta mentre ansimava come un toro senza produrre altro suono se non dalle
narici, le mani chiuse a pugno da far sbiancare le nocche anche sotto le croste
delle ferite lungo i fianchi, le spalle tese.
Scattò in un moto d’ira, aprì e chiuse la bocca
come se avesse lanciato un’imprecazione e si chinò a raccogliere la coperta per
buttarla – senza nemmeno sbatterla dal fogliame – nello zaino, raccolse quel
poco che era rimasto ai due infilando tutto nella sacca al di fuori dell’unico
coltello rimasto.
Aveva rubato pure l’accendino.
Diete un calcio al tronco di un albero
pentendosi subito dopo per il dolore lancinante che gli aveva colpito il piede
per poi risalire su tutta la gamba, facendolo traballare un po’ per
l’instabilità.
Ariel non faceva nulla: lo guardava e basta,
come aveva sempre fatto. Niente poteva calmare Lyosha.
La Cornucopia era stata splendidamente
ripulita, il luogo brillava sotto il sole mattutino e l’acqua ai loro piedi –
che avevano infangato i pantaloni di tutti e quattro – era pulita, nella sua
sporcizia: non un filo di sangue, neanche un pallido riflesso vermiglio.
Fraser emise un lungo fischio ammirando quel
lavoro, nonostante lo avesse contemplato almeno in parte la notte precedente,
quando il sole lanciava i suoi ultimi raggi rossastri.
Capitol City
era soddisfatta dei tributi di quell’anno: solo nella prima giornata erano
morti dieci concorrenti e la cosa rendeva il maschio dell’uno abbastanza fiero
di sé, considerando che parte di quelle persone erano morte per causa sua. Non
era come Liv, che aveva sognato la faccia agonizzante di Kabe
per terra e quando si svegliò durante la notte dovette tapparsi la bocca con le
mani per non urlare, a guardarla vi era Lexi, che
faceva il turno di guardia. Pregò silenziosamente che non avesse intuito quanto
il realtà fosse debole quando la sua
voce tremolò un poco al «ci penso io».
Liv si odiava, si odiava da morire per essersi
cacciata in questa situazione; non c’era nulla di più simile ad una bambina
testarda di lei, perché si era offerta volontaria guardando con astio i
genitori dal palco, che lei credeva la ritenessero fragile ed insulsa
nonostante avesse discreti voti agli allenamenti e altrettanto discrete possibilità
di vincere. Ma loro non volevano che lei partecipasse, Liv pensava fosse perché
non la ritenevano in grado – ma piano piano capiva
che si trattava solo di paura: c’erano altre ragazze, più forti, più alte, più
muscolose che potevano vincere gli Hunger Games, loro non avevano bisogno di un Vincitore per essere
felici, ma di una figlia.
Ma lei non capiva, non capiva nulla: era una
stolta ragazzina del distretto due. Ma ora aveva un motivo in più per vincere,
ed erano i suoi genitori.
Sorrise, nascondendo il volto contro le
ginocchia strette al petto, in modo che la Capitale non potesse proiettare la
sua magra consolazione di aver trovato un motivo per combattere.
«Andiamo?» domandò Ines, mentre Liv guardava
ancora all’orizzonte. Pensava a quelli dell’otto, al fatto che sapevano dove
erano andati, a che avrebbe potuto ucciderli perché non sapevano combattere,
perché erano soli. Esattamente com’era sola lei.
«Che i
sessantatreesimi Hunger Games
abbiano inizio» sussurrò al vento, prima di infilare nello zaino una
caraffa d’acqua, prendere in mano le proprie armi e affiancare gli altri
favoriti verso la loro preda.
Già pregustava il momento in cui sarebbe
diventata vincitrice, ma non si capacitava che, per farlo, doveva letteralmente passare per il cadavere di
Fraser.
Camminava a passo sveltissimo, Lyosha, ed Ariel rimaneva inevitabilmente indietro, lo
vedeva voltarsi con il viso segnato dall’ira e gli occhi blu come un mare in
tempesta. Si sentiva spaventata e ferita, credendo che lui fosse capace di
abbandonarla lì seduta stante. Ma non osava parlare, non lo avrebbe mai fatto
in quelle condizioni.
Si limitava quindi ad affrettare il passo
mentre lui era fermo a guardarla, stringendo tra le dita sporche il tubo in cui
conservavano l’acqua – si stavano dirigendo verso il loro beveraggio per
dissetarsi, quantomeno, e sperare che l’acqua bastasse per il loro stomaco che
richiedeva il cibo.
Si ricordò le parole della loro mentore:
«soffrirete la fame, il freddo, il dolore, la paura e la rabbia». E capì quanto
fossero incredibilmente vere.
Lasciò cadere dalle sue spalle lo zaino e
piantò il coltello per terra, la lama sporca di terra e una sfumatura rossa
brillava sulla lama, un filo di sangue si era depositato su questo tanto Lyosha aveva stretto la lama in mano, Ariel lo guardava
mentre si gettava considerevoli porzioni d’acqua sul viso e si era concentrata
sulle piccole rughe ai lati dei suoi occhi con le palpebre serrate, i denti
stretti e le labbra talmente contratte da mostrare le gengive.
Piangeva.
«Thahn…» mormorò
consolatoria lei, avvicinandosi per poggiare una mano sulla sua spalla. Il
ragazzo glielo lasciò fare, ma senza reagire, «davvero, va tutto bene… possiamo tornare alla Cornucopia e―» provò
a concludere la frase ma il fratello si girò bruscamente, facendole fare un
passo all’indietro per non cadere, con le mani le diceva furiosamente che era
impossibile e poi ritornò a buttarsi l’acqua in faccia, questa si fermava sulle
sue ciglia come piccole perle.
«I Favoriti? Perché devono stare per forza
nella Cornucopia?» domandò lei, evidentemente non aveva mai seguito gli Hunger Games come lo faceva Lyosha, si limitava a stare seduta vicino a lui a cantargli
qualche canzone quando non accendeva la radio.
Lascia perdere, le mimò con le labbra, lentamente, e poi
scosse la testa, si fece passare l’unico loro contenitore e lo riempì con
l’acqua per bere, ripetendo poi l’operazione e chiudendo il cilindro.
«Possiamo provarci…
siamo solo al secondo giorno e magari sono in giro ad uccidere qualcuno… magari… magari…»
Ma si fermò, perché Lyosha
non l’ascoltava: era lì, come un cane di guardia, che fissava oltre la cascata
l’erbe muoversi, e poi una testa bionda, seguita da una più scura – maschile –
e ancora altre due criniere, bionda e ramata. Gli occhi gli si sgranarono e la
mano afferrò il coltello, il braccio si pose davanti ad Ariel e con l’altra
mano le faceva segno di abbassarsi, lei obbedì, prendendo tra le mani lo zaino
con la coperta.
Da lì sopra non riuscivano a sentire ciò che dicevano
i Favoriti, ma Lyosha li guardava attentamente mentre
fissavano il territorio attorno a loro. Il maschio del gruppo – il tributo del
due era morto? – si era chinato sull’acqua e la faceva sguazzare con la lama
della spada, girandosi poi verso la ragazza del quattro per dirle qualcosa con
un sorriso.
Il più grande degli Isaacs
si spostò usando gomiti e ginocchia, avvicinandosi al bordo del promontorio,
laddove vi erano le scale, le individuava grazie a dei pioli nero pece che
spuntavano visibilmente dalla terra. Dall’alto, sapeva, lo avrebbero visto e
lui pregò di essere abbastanza svelto da tagliare la corda e fuggire prima che
loro individuassero un altro modo per salire la parete rocciosa.
Ebbe fortuna, quando la ragazza del due indicò
la sua chioma corvina lui aveva quasi finito di tagliare il primo lato, Fraser
si era avventato sulla scala salendola rapidamente, muovendola nella speranza
di intralciare il lavoro a Lyosha e questo quasi
perse il coltello dalle mani le due volte in cui gli scossoni furono
tremendamente potenti, ma le scale si staccarono dal muro e Fraser cadde sui
piedi – urlava qualcosa come «e bravo il
nostro otto!» e Lexi sorrideva dietro di lui.
Ma furono questioni di secondi e Liv iniziò a
correre verso sinistra, Ines subito dopo di lei – Lyosha
guardò in quella direzione e vide un’altra cascata relativamente vicina, e
decise che la cosa migliore fosse fuggire. Mise il coltello nella cinta e
iniziò a correre pregando che Ariel potesse tenere il suo passo.
Corsero per un numero infinito di minuti,
procedendo in diagonale alla parte opposta da cui arrivavano i Favoriti, si
chiese se le loro tracce fossero così evidenti ma non aveva il tempo di
guardare.
Corsero, per la madre, per il padre che non
c’era più, per i figli che avrebbero voluto avere, Ariel corse per Lyosha e Lyosha corse per Ariel.
E frenarono di colpo: il niente si apriva
davanti a loro come un salto nel vuoto, la nebbia copriva ciò che vi era di
sotto e nella mente del più grande potevano esserci tanto un fiume quanto delle
rocce acuminate. Ma ecco Ariel toccargli insistentemente il braccio, urlandogli
qualcosa come «un ponte! Un ponte!», si girò verso dove la piccola indicava e
il susseguirsi di travi unite da corde gli sembrò come una visione paradisiaca,
prese a correre verso il cavalcavia, facendo andare prima Ariel e, dopo un
certo numero di metri, lui.
Il cigolio del legno si mischiava al battito
del cuore del ragazzo tanto da confondergli le idee, non capiva più se il suo
cuore era malandato come quelle travi o se l’Arena era viva quanto il suo
cuore, aveva il terrore che ciò che lo teneva sospeso in aria crollasse sotto i
suoi piedi.
Ma Ariel si bloccò di colpo, Lyosha avrebbe voluto chiederle che diamine stesse facendo,
che erano inseguiti!. Ma lei non si muoveva, immobile, fissava ciò che solo in
un secondo istante il fratello identificò come Sean, quello che li aveva
derubati.
«Ciao, otto».
Ariel iniziò ad arretrare, appoggiando la nuca
contro il petto di Thahn, del suo fratellone che
aveva promesso di proteggerla.
Lyosha si
girò all’indietro, Liv era tra i paletti che reggevano le corde e in mano
teneva due pugnali.
Davanti a loro, Sean aveva sfoderato la sua
lancia.
Stavano per morire, stavano per morire!
Poi si udì un «fallo, Liv», le corde diventare
molli per poi afflosciarsi attorno a loro, il legno mancare sotto i piedi come
volatilizzato e le gocce d’acqua della nebbia entrare nei vestiti dei tre,
congelando pelle, muscoli, ossa, cuore.
Lyosha
trattenne il respiro mentre cadeva nel nulla.
«Tanti invece sono arrabbiati,
spaventati: guardano al futuro e vedono che per loro avanzerà poco.»
[BIANCA BALTI]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Ok, ok. Un altro parto plurigemellare questo
capitolo ma alla fine – nel bene o nel male – è uscito fuori anche abbastanza
in tempo. Bene bene.
E siamo al secondo giorno e Lyosha ed Ariel ancora non hanno un minuto di pace, quasi
mi dispiace di farli soffrire così tanto! Ma gli HG esistono per questo ed io
sono qui apposta, no? Solo uno sarà Vincitore.
Sarò molto breve perché ho davvero
fretta di pubblicare questo capitolo, ahah x°° non
chiedetemi perché, vi prego! Anyway. Sono molto felice
che il seguito sembri crescere di volta in volta, e stavolta ringrazio Flor0699 (spero di aver scritto giusto
il nick!) per la recensione e quant’altro – e
ovviamente tutti quelli che seguono in silenzio, in attesa della fine
(suppongo).
Piccola cosa (: quando Fraser si mette
a giocare con l’acqua e sorride a Ines, ovviamente sta facendo una battuta sul
fatto che lei sia de Distretto quattro, non riuscendo a sentire da la sopra,
non ho voluto inserirla. Inoltre, la ragazza che dice “fallo, Liv” è proprio
Ines – quella pazza psicopatica!(?).
Spero che Liv non vi vada a male ç.ç lo so che è del due ma non sono tutti uguali, no? ;) Mi
piace variare, mettiamola così.
Bene, giuro che ho finito! Mi dispiace
moltissimo per gli errori in generale ma non sono riuscita a beccarli ç//ç la
mia mente è un po’ vagante ultimamente XD
EDIT:
Da oggi (16/09) ogni
capitolo si concluderà con una citazione più o meno inerente al testo
che la precede. Enjoy ~
Alla prossima e grazie di tutto! ♡
radioactive,