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Autore: MaidOfOrleans    15/09/2013    0 recensioni
[Anna Karenina]
Le riflessioni di Vronskij dopo la tragica fine di una delle storie d'amore più tormentate ed appassionanti della letteratura. Possibile OOC, nel senso che non sono ancora riuscita a trovare due persone che la pensino allo stesso modo su un'eventuale presa di coscienza dell'ufficiale alla fine del romanzo. A me piace pensare ad un Vronskij illuminato sull'importanza dei sentimenti.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho capito che stavo per perdermi quando già ero del tutto perduto.
Ricordi, vita mia? La sala in cui ogni poltrona, ogni doratura mormorava lusso e ferie estive in Europa. Ragazze troppo giovani per smettere di sperare in un marito e troppo vecchie per trovarne uno, il profumo dei capelli posticci delle loro madri,  uomini di mezza età con sigari color cuoio tra le labbra screpolate. Le risate tintinnavano come un bicchiere di cristallo percosso dalla mandorla dell’unghia di una bambina.
Io, Aleksiej Kirillovic Vronsky, ufficiale nel fiore degli anni e della bellezza (concessa e me e non ad altri, inizio a pensare, da un dio ingiusto e crudele), mi muovevo con la naturalezza di chi è consapevole di trovarsi al proprio posto. Accettavo con compiacimento le occhiate d’ammirazione delle donne adulte e quelle più titubanti delle giovani, gratificando di tanto in tanto un viso particolarmente aggraziato del lampo giocoso dei miei occhi chiari.
Ti vidi mentre volteggiavo con una mano premuta sul fianco di chissà quale signorina per bene e sussurravo quanto fosse incantevole il suo vestito. Solo in quell’istante- le note del valzer si spegnevano, frusciava la seta rigida delle gonne -, quando distinsi i tuoi riccioli neri simili ai nastrini di velluto di cui era adorno il collo di metà delle ragazze presenti, mi resi conto che fino ad allora non avevo fatto altro che cercarti. Dall’inizio della serata… no! Sii onesto, Vronskij, sii uomo per una volta! Fin da quella mattina, dal nostro incontro casuale sulla banchina della stazione, nonostante non avessi mostrato il minimo turbamento, nonostante avessi accompagnato a casa mia madre con ogni riguardo e fossi stato a sentire, presente ed attento, le domande dei miei amici sul comportamento che avrei tenuto con la principessina Kitty Scerbàtskaja, che tutti sapevano avere un’infatuazione nei miei confronti, non avevo fatto altro che pensare a te.
Tu mi vedesti, e non scorderò mai il modo in cui si dilatarono i tuoi occhi grigi come il cielo di Pietroburgo quando l’inverno è alle porte. Gli occhi di un animale braccato. Fuggisti. Con uno scatto ai limiti della scortesia afferrasti il braccio del poveretto che mendicava da ore una danza e lo portasti con te al centro della sala, ed io compii un altro passo verso lo smarrimento, perché compresi che anche tu- sembrava incredibile, ma sapevo, sapevo con una sicurezza delirante che era vero- sentivi qualcosa per me.
Fu il destino a spingerci faccia a faccia per la seconda volta in quel giorno, sul ritmo frivolo di una quadriglia. Ti guardai, sfrontato, soppesai il tuo viso dai tratti incantevoli, la tua fronte, le sopracciglia brune e l’arco rosato delle labbra. Riuscivo quasi a vedere la lotta che si stava consumando dentro di te. Non volevi, non osavi, non potevi ricambiare la mia occhiata indagatrice; ma lo facesti, e fu allora, prima ancora di circondarti con le braccia durante una mazurca che avevo dimenticato completamente di aver promesso alla principessina, che nel tuo sguardo vidi la mia fine.
Oggi, immerso fino alle ginocchia nella neve, con come unico riparo una tenda eretta alla meglio dai serbi in un punto dal quale è ottima la visuale sul nemico, sono consapevole che i miei brividi sono dovuti in minima parte al rigore del clima. Solo a distanza di così tanto tempo da quella notte afferro la verità, ragiono, capisco: non era la mia morte in un duello con il tuo sposo che avevo presagito, non era la mia discesa nella follia dopo un tuo forzato abbandono. Tu, eri tu che giacevi insanguinata sull’inflessibile acciaio dei binari, dalla nostra passione elevata alle stelle, dalle conseguenze di essa uccisa. La mia fine. La mia fine nei tuoi occhi, bellissima, imprevedibile Anna. Nel loro sguardo vitreo, limpido anche nel sonno eterno, era scritta la mia sorte: Vronskij il seduttore, lo spregiudicato, frivolo Vronskij condannato a vagare nei territori per lui inesplorati del disgusto per se stessi, del dolore, del rimorso.
Spesso, nel freddo delle notti turche, ripenso a quel ricevimento a casa degli Scerbatskeje. Mi tornano in mente i tuoi capelli, le tue mani, ma soprattutto il tuo vestito: nero, come l’oscurità che ci avrebbe travolto di lì a poco. Non è così, però, che desidero ricordarti. E’ vero, il nero ti si addiceva, ma nella mia mente, vita mia, voglio conservare l’immagine della tua irruente innocenza, del tuo candore di allora; voglio l’Anna richiesta da ogni circolo di Pietroburgo e Mosca, quella la cui risata era in grado di far risuonare ogni angolo di una stanza. Dunque –è così facile, quando si tratta di dettagli come un abito- mi insinuo tra le immagini che scorrono nella mia testa e le ritocco, le modifico, le piego ai miei desideri. Al mio bisogno di averti di nuovo, anche se per pochi istanti, di averti come ti ho amata.
Ora, nella mia rievocazione, indossi un altro vestito. E’ appena più scollato di quelle che portavi, meno severo, e una miriade di piccole perle del Baltico sottolinea il distacco tra il tessuto e la pelle soffice delle tue spalle. La stoffa è leggera, increspata sui seni, e digrada dolcemente fino a quando la linea netta di un nastro argentato non la interrompe, cingendoti la vita. Riesco ad avvertire la pressione del fiocco sul palmo della mano con cui ti stringo, forse troppo forte, come se da un momento all’altro potessi volare via. Immagino una gonna in impalpabile mussola, morbide pieghe verticali che si adagiano sul raso delle scarpine con il tacco appena ritorto. I tuoi guanti scivolano sulla semplice stoffa della mia giacca.
Forse, mi dico accendendo una sigaretta, il nero che ti avvolgeva la prima sera avrebbe dovuto sussurrarmi un avvertimento. Era una scelta piuttosto inusuale per una serata danzante. Non avvicinarti, implorava quel vestito; non farlo, non ballare con me, scegli una giovinetta in rosa, glicine, color pesca. Eppure, vecchio, inutile Vronskij, se anche questo pensiero ti si fosse affacciato alla mente l’avresti seguito? Avresti riflettuto anche solo un momento su quanto fosse pericoloso donare la propria anima ad una donna sposata?
Nel dubbio, ne sono convinto, è meglio attenersi alla versione che ho appena costruito nella mente. Un abito bianco: non colori pastello da ragazzina, ma neppure una sfumatura ufficiale, congeniale al tuo status di moglie e di madre. Un abito bianco come il tuo collo, come i cumuli di neve ai lati del binario dove ci incontrammo, come l’intero tuo viso quando il treno è ripartito, e il sangue aveva già scritto sul terreno accidentato tragedia.
Anna, mio angelo bianco. Mai, che io viva ancora un giorno o cent’anni, il tempo mi sarà sufficiente per trovare le parole adatte a dirti quanto mi dispiace. E anche se potessi, se fossi in grado di raccoglierle, sarebbe comunque troppo tardi.
Quello che è successo non si cambia. Non è tra le facoltà dell’uomo poter tornare indietro: quella sera, due anni fa, capii che la mia vita era finita, che non c’era scampo. Avevo compiuto già un passo di troppo.
Vorrei che non fosse stato così, che tu non fossi stata avventata e innamorata quanto me, che Kitty Scerbatskaja avesse attratto il mio sguardo più di quanto lo facesti tu. Ma soprattutto, vorrei che non mi tornasse continuamente alla memoria quell’abito nero. Vorrei che il nostro cammino verso la fine fosse iniziato in sordina, a partire dall’insospettabile mussola bianca. 
  
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