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Autore: Aura    15/09/2013    1 recensioni
Diana cambia città, trasferendosi in un posto dove l'unica persona che conosce è Michele, un tempo suo mentore ma ora praticamente un estraneo, dopo dieci anni in cui non si sono né visti né sentiti. E quando lo rivede capisce che quello che prova è ben più della nostalgia di un'amicizia: ma Michele è anche il suo nuovo capo, e il ricordo del loro passato è troppo bello, così l'unica cosa sensata da fare è cercare di soffocare quel sentimento nascente.
Riprenderà in mano le bottiglie e ricomincerà a fare la barista, lasciando che Michele ancora una volta torni ad essere il suo mentore; lei dovrà solo preoccuparsi di tenere a bada i pensieri che hanno iniziato a tormentarla.
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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daiquiri        










Quando vide la chiamata in arrivo inizialmente pensò che si fosse messo il telefono in tasca senza il blocco tasti: Michele non la chiamava, né le mandava messaggi; o suonava il campanello oppure le lasciava dei bigliettini attaccati alla porta, se stava uscendo ed era particolarmente di fretta.
– Pronto? – rispose, sospettosa.
– Pensavo che non rispondessi più. Ascolta, vai al lavoro da sola, stasera: io ho un appuntamento con il capo, a Vicenza.
– Ok.
– Ascoltami attentamente: se Katisha arriva in ritardo dille che la prossima volta può evitare di venire. Stefano rimarrà al suo posto, voglio che invece Fabio e Gianni gli si mettano uno a destra e uno a sinistra, in modo che rimarrà aperto solo un lato del bancone, stasera non ci sarà il pienone e quindi può bastare.
– E io? – chiese, accorgendosi che non l'aveva nominata.
– Ricordati che oggi arriva il fornitore delle bottiglie, e quindi devi essere lì un po' prima. Devi dargli i vuoti, le casse piene fattele portare direttamente nel magazzino. Fai in modo che le cameriere lascino sempre la sala pulita, voglio che facciano il giro per raccogliere i bicchieri ogni volta che sono libere.
Diana capì che cosa intendeva: doveva prendere il suo posto, quella sera. Si grattò la tempia, dubbiosa.
– Michele, sono due mesi che lavoro al Daiquiri. – disse, chiedendosi tra sé e sé se i suoi colleghi l'avrebbero ascoltata.
– Ma che cosa dici? – si arrabbiò, – Sei più grande di tutti loro, non iniziare a farmi questi discorsi.
Si morse le labbra e fece un sospiro: doveva dimostrargli che la sua fiducia era ben riposta, ce la poteva fare. Sapeva come funzionava un locale, e in passato aveva gestito dei negozi: sarebbe stata in grado di unire le due cose.
– Intendevo dire, sono due mesi che lavoro al Daiquiri: so che il mercoledì arriva il fornitore del vetro, e so come ti aspetti che vadano le cose. Passa una buona serata, quando finisci la riunione con il capo se vuoi rimani in giro, prenditi del tempo libero.
Michele, più tranquillo, si lasciò andare a una risata, smascherandola.
– Sai che non mi freghi, vero?
Diana controllò l'orologio: avrebbe dovuto sbrigarsi.
– Dove mi hai lasciato le chiavi?

Solo Fabio sembrò poco convinto del fatto che Michele avesse lasciato a lei il comando,
– Ma dai, – cercava di aizzare Gianni, che stava preparando diligentemente la sua postazione, – è la più nuova qua dentro! – si lamentò, dando a intendere che lo considerava un favoritismo.
Diana gli si parò davanti.
– Fabio quanti anni hai? Da quanto tempo lavori qui? Hai lavorato in altri posti prima? E cosa facevi? – Fissò lo sguardo serio del ragazzo, e continuò. – Io ho ventotto anni, sì, lavoro qui da due mesi, ma prima gestivo un negozio in centro a Torino, avevo dieci persone sotto di me. Prima ho fatto la vice responsabile in un store con quanti, cinquanta venditori? E prima ancora lavoravo nei bar e nelle discoteche: per anni. Fidati che ci sono stata più io di te dietro a un bancone, e se anche non fosse tu non hai le competenze necessarie per sostituire Michele una sera, io sì. O ti metti al lavoro o vai in sala: porto qui Agnese al tuo posto e le insegnerò a fare un dannatissimo Cuba.
Fabio la guardò, dall'alto in basso, e si slacciò il grembiule.
– Dici? – la minacciò.
Diana si girò.
– Agnese! – chiamò la ragazza che stava mettendo i tovagliolini e le cannucce nei privé. – Tu e Fabio stasera vi scambiate di posto, vieni qui.
La ragazza spalancò gli occhi e corse al bancone, ignorando Fabio che le stava passando accanto dandole una spallata.
– Cosa devo fare? – chiese, eccitata.
Diana le mostrò la sua postazione, riempì una bottiglia d'acqua e le mise in fila una cinquantina di bicchieri di plastica, spiegandole cosa doveva fare per riempirli.
– Gianni ti preparerà la postazione mentre tu ti eserciti, non ti preoccupare: farò in modo che tu stasera non debba fare altro. – la rassicurò, mentre lei entusiasta provava a versare. – Dalle un occhio, per favore. – sussurrò a Gianni, mentre scendeva dalla pedana e andava a sentire che cosa voleva il Dj, che si stava sbracciando verso di lei.

La metà della serata era passata senza particolari problemi: aveva fatto un cartellone attaccando delle cannucce colorate in modo che formassero una scritta che segnalava la postazione di Agnese come preferenziale per Cuba, Vodka Lemon e Chupiti; Fabio aveva ingoiato il rospo e stava iniziando a sciogliersi, scherzando con le altre cameriere.
Diana faceva il giro incessantemente, per accertarsi che tutto stesse andando bene, dal guardaroba ai bagni; e aveva convinto il capo dei buttafuori a darle un auricolare, in modo che sarebbe potuta intervenire in caso di bisogno.
Salì sulla pedana, andando accanto a Stefano che era appoggiato alla fila di frigorigeri e se la rideva per come Agnese si stava impegnando.
– Non la prendere in giro. – disse bonariamente.
– No, no, – si giustificò lui, – se la cava alla grande: un ragazzo prima non ha letto un cartello e voleva un Long Island, stava iniziando a lamentarsi ma Agnese ha sbattuto un po' gli occhi e lui si è accontentato di un Cuba.
– Quando c'era casino sono venuta ad aiutarla con la cassa, sembra che sia andato tutto bene. Cosa ne pensi? – gli chiese, sospirando.
– Sei stata brava: per un attimo ho avuto paura che Fabio ti mettesse i piedi in testa, ma lo hai gestito alla grande. Vecchietta. – la prese in giro, facendola ridere. – Oh, – disse poi, indicandole l'ingresso. – guarda chi è arrivato! Boss! – si sporse dal bancone per salutare con Michele, in una sorta di cinque alto, e salutò le ragazze che erano con lui.
– È andato tutto bene, non ti preoccupare. – lo informò svelta Diana, vedendo che osservava Agnese dietro al bancone, poi premette l'auricolare all'orecchio, ascoltando. – Arrivo subito. – rispose, schiacciando il tasto del microfono.
Michele la stava squadrando.
– Che roba è? – borbottò, – È tutto a posto?
– È un auricolare, – spiegò, mentre scendeva dalla pedana, – va tutto bene: qualche problema nel bagno delle signore, ma me la cavo io. Tu sei di riposo. – lo assicurò, prima di dileguarsi tra la gente.
Dopo aver sedato la piccola emergenza, una ragazza che inizialmente sembrava stesse male ma poi scoprì essere solo in crisi perché il ragazzo l'aveva tradita, Diana si stiracchiò e tornò in sala.
Si sedette sui gradini della scala che portava all'ufficio e spiò verso il banco, Michele e le ragazze con cui era arrivato.
Erano tre, e sembravano avere una grande confidenza con lui: gli stropicciavano i capelli, bevevano dal suo bicchiere, una aveva addirittura provato a portarlo a ballare, dovendo poi arrendersi. Furono raggiunti da un altro uomo, circa della stessa età di Michele, e rimasero al bancone da Stefano, che preparò da bere per tutti.
Diana non faceva altro che guardare le ragazze: labbra rosse e lucide, ciglia nere che sbattevano maliziose, capelli lunghi e sciolti, sembravano fatte con lo stampino, ma, doveva ammetterlo, uno stampino incredibilmente bello.
Non aveva mai scoperto il genere di donna che interessava a Michele, forse era quello. E forse tra di loro c'era la sua ragazza: aveva dato per scontato che lui fosse single, ma sapeva che nonostante sapesse per alcuni versi lo conoscesse intimamente in realtà lui poteva benissimo aver avuto una ragazza per tutto quel tempo senza che lei se ne accorgesse.
Continuò a guardarli, mentre il suo stomaco sembrava attorcigliarsi: o magari una di loro lo sarebbe presto diventata.
Un fischio all'orecchiò la fece sussultare.
– Quindi? – le diceva la voce metallica, all'auricolare.
– Quindi cosa? La ragazza sta bene, l'ho lasciata con una sua amica.
– Sì, intendevo dire: faccio ancora entrare la gente?
Diana guardò l'ora.
– No, è ora di iniziare ad alzare le luci: tra una mezz'oretta saremo chiusi.
Decise di concedersi una sigaretta, sperando che il il gusto del tabacco l'aiutasse a portare via l'amaro in bocca: ancora una volta, per motivi diversi, Padova la faceva sentire inadeguata, e dopo una serata come quella non poteva accettarlo.
Sperava di essersi caricata abbastanza, e invece una volta tornata dentro il castello mentale che si era costruita, ricordandosi che doveva essere fiera di sé, crollò. Indossò il suo miglior sorriso, notando che Michele e le sue amiche si erano dileguati, e iniziò la chiusura.

Si trattenne in ufficio per assicurarsi un' ultima volta che avessero contato i soldi correttamente, poi spense anche l'ultima luce e chiuse il locale, salutando grata il buttafuori che l'aveva aspettata.
– A domani, Giacomo!
– Brava Diana, sei stata brava! – la salutò lui, guardandola salire in macchina prima di far partire la sua Harley.
Arrivata sotto casa cercò con gli occhi la 159 di Michele, ma non la vide al solito posto. Salì in casa, finalmente non doveva più costringersi di sorridere, ora il suo riflesso nello specchio dell'ascensore le restituiva lo smarrimento che provava.
Prese una coppetta di gelato dal freezer e tornò nell'ingresso a mangiarla, seduta per terra contro la porta, per riuscire ad ascoltare i rumori del pianerottolo; quando si addormentò Michele non era ancora tornato.

Sussultò mentre il campanello la svegliava, lanciando in aria la vaschetta di gelato ormai sciolto che aveva appoggiato alla pancia.
Intontita, senza capire bene cosa stesse facendo, aprì istintivamente. Michele la guardava sconcertato, e abbassando lo sguardo verso la sua maglietta capì: il gelato le si era versato addosso, e anche per terra da quello che vedeva. Cosa doveva dirgli, per giustificarsi, che la notte prima era stata colta da un momento di pazzia e si era addormentata alla porta sperando di sentirlo quando sarebbe rientrato?
– Ti dispiace? Non è il momento, devo farmi una doccia. – gli disse, richiudendo la porta prima che le lacrime scendessero senza il suo permesso.
– Vieni da me, dopo, così mi racconti di ieri. Vado a prepararti un caffè.
Si sentiva come in piena crisi premestruale, avrebbe voluto spalancare la porta e urlargli dietro, chiedendogli se l'unica cosa che gli interessava di lei era sapere cosa aveva combinato nel suo preziosissimo locale. Evitò, tenendo a bada quell'insano istinto, e si trascinò in bagno, dove alla vista del suo riflesso nello specchio non fu più capace di trattenere le lacrime.
Anche la sua guancia era sporca di cioccolato, forse prima di dormire si era lasciata andare a un pianto perché il trucco le era colato tutto, e per concludere l'opera i capelli sembravano un roseto che non aveva una potatura da decenni.
Michele forse aveva passato la notte fuori con una di quelle ragazze, e lei finiva ridotta in quelle condizioni.
Il morale era così a terra che nemmeno quando fu vestita e pettinata se la sentiva di attraversare il pianerottolo e andare da lui: il pensiero di come l'aveva vista, il pensiero di quello che era successo la notte prima, sembravano impossibili da affrontare.

Michele suonò al campanello, e lei rimase immobile, sperando che lui non la sentisse e pensasse che si fosse riaddormentata.
Ma invece lui suonò di nuovo.
Daiana... –Si sentì chiamare, da fuori dalla porta.
Asciugò la lacrima depressa e solitaria sulla sua guancia, e capì che presto o tardi avrebbe dovuto affrontarlo.
– Eccomi. – sorrise, aprendo la porta. Allargò il sorriso, vedendo il suo sguardo dubbioso. – Ehi, scusa il ritardo, ma non so se avevi notato i miei capelli richiedevano un lavaggio intensivo. – disse superandolo, diretta verso il suo appartamento.
Sul tavolo, oltre al caffè, Michele aveva appoggiato anche un paio di brioche, e lei ne prese una chiedendosi se si fosse era fermato a prenderle di ritorno da casa della ragazza con cui aveva passato la notte. Almeno in qualche cosa l'aveva pensata, per vendicarsi scelse quella al cioccolato, lasciando a lui quella vuota.
Fece colazione come se niente fosse, e poi, mentre lui era ancora a metà brioche, uscì sul terrazzino a fumare una sigaretta.
– Tutto bene, ieri sera? – le chiese, seguendola.
– Oh, sì. – rispose particolarmente entusiasta, – E tra parentesi inizialmente Giacomo era dubbioso, e poi ha detto che sono stata un genio a chiedergli l'auricolare: forse dovresti copiare la mia idea. Fabio ha alzato un po' la cresta, è per quello che l'ho mandato in sala e ho chiesto ad Agnese di salire al banco, ma a fine serata mi ha chiesto scusa, quindi tutto risolto.
Michele incrociò le braccia.
– Sì, quello me l'ha spiegato Stefano, ha detto che l'hai rimesso a posto proprio bene, ma non avevo dubbi. No, ti chiedevo, perché prima eri... così?
Diana ci mise molto impegno a spegnere la sua sigaretta, non sapeva davvero cosa dirgli.
Era gelosa, era insicura, era disperata perché si sentiva male al pensiero di quello che provava per lui. Perché Michele era anche molto, troppo, altro.
– Non avevo niente, mi sono addormentata davanti alla tv, era un bel film. – lo liquidò, entusiasta per la spiegazione che copriva tutto, gelato e trucco sciolto.
Michele aggrottò le sopracciglia, ma lei lo ignorò, tornando dentro. Sì, era gelosa, gelosa da stare fisicamente male.
– Posso mettere su un po' di musica? – disse, andando in sala e scegliendo un cd, già sapendo che lui non le avrebbe mai permesso di toccare il giradischi e uno dei suoi idolatrati vinili.
Non voleva scappare da lui, dandogli modo di chiedersi ancora che cosa potesse avere, ma d'altra parte non aveva voglia di altri silenzi, né di altre domande.
Mise Surfer Rosa dei Pixie, skippando diretta alla settima traccia, Where is My Mind, lasciandosi poi cadere sul divano e ascoltandola a tutto volume, grazie al meraviglioso impianto di Michele.
– Ehi, – disse lui raggiungendola, – non dirmi che l'hai scelta per Fight Club, tamarra.
Le fece scappare un sorriso.
– Sai, – urlò per sovrastare la musica, e Michele prese il telecomando abbassando il volume a livelli più accettabili. – sai, tanta gente pensa che io abbia una cultura musicale di tutto rispetto, eccetto te: ti assicuro che ce l'ho, solo che è più varia, non mi soffermo solo su generi di nicchia. Comunque hai mai ascoltato la versione live di questa canzone con i Placebo? – capì dal suo sguardo che per una volta poteva essere lei a fargli scoprire qualcosa, e si tirò su, soddisfatta. – Ce l'ho in macchina, se andiamo al lavoro con la mia te la faccio ascoltare.
Gli prese il telecomando dalle mani, fece ripartire la canzone e alzò il volume.
Non aveva voglia di altri silenzi, né di altre domande.
Seduta accanto a lui, sul divano, abbracciando un cuscino, avrebbe voluto piangere silenziosamente, mentre la musica la stordiva e allo stesso tempo esaltava i suoi sentimenti; ma si limitò a respirare, lasciando che il semplice contatto del suo gomito la addolcisse.

– Almeno potresti dirmi che sono stata brava ieri sera. – si ribellò rianimandosi quando, dopo che la canzone finì anche per la terza volta, si decise a spegnere.
– Non mi aspettavo niente di diverso, è questo che ti devo dire?
– Se le tue aspettative nei miei confronti si abbassassero magari potrei beccarmi un “brava”, ogni tanto. – incrociò le gambe e si girò verso di lui.
– Se le mie aspettative fossero state basse forse non ti avrei detto di trasferirti qui. – strinse gli occhi a due fessure, guardandola, e si alzò.
– Perché vuoi avere sempre l'ultima parola? – borbottò, e Michele dalla cucina rise.
– Lo sai che ho sempre ragione.
Stava prendendo le tazze dal lavandino e mettendole nella lavastoviglie, come se lei non fosse già più lì.
– Però, qualche rara volta, potresti dirmelo. Così, mi farebbe bene. – disse a mezza voce, appoggiandosi allo stipite della porta della cucina. Si sentiva molto più vulnerabile in quel momento, in cui in cui gli chiedeva una semplice gratificazione, che poco prima, quando aveva ascoltato la stessa canzone più volte davanti a lui, sfogando un sentimento che involontariamente era stato proprio lui a provocarle.
Ma era perché nascosto in quelle parole c'era qualcosa di più, che non sapeva e non voleva esprimere, una richiesta diversa.
– E no, – continuò, dopo un lungo silenzio durante il quale Michele l'aveva semplicemente guardata. – non mi risponderai stasera, non mi risponderai un'altra volta: non credi che ogni tanto potresti dirmelo? Sei l'unico che potrebbe farlo, e l'unico da cui avrebbe un valore.
Michele le porse il pacchetto di sigarette, precedendola nella terrazza.
– Sai, Daiana, quando ci siamo conosciuti continuavo a meravigliarmi: avevi solo diciotto anni ed eri così sicura di te. – soffiò una boccata di fumo. – Certo, volevi essere ricoperta di complimenti, ma era come se volessi sottolineare quello che tu già sapevi.
– I tuoi complimenti però li sentivo diversi, quando me li facevi. Ero davvero fiera quando riuscivo a strappartene uno, anche misero. – ricordò, mentre un amaro sorriso di rimpianto le addolciva il volto. A quei tempi era tutto molto più semplice.
– Ora ti vedo: sei più matura e ti sei ridimensionata nella tua testa, paradossalmente ti fai più paranoie adesso, ma in fondo sei ancora orgogliosa di quello che sei, e di quello che sai. Se qualcuno ieri sera ti avesse detto che eri stata brava, e sicuramente lo avranno fatto, avresti reagito come allora. Saresti stata contenta, ma tu per prima sai di aver fatto un bel lavoro.
Diana trattenne un nuovo sorriso, lasciando che a tradirla fosse solo la fossetta, raccogliendo a piene mani quel mezzo complimento mascherato.
Sospirò, poi, capendo che lui non aveva intenzione di proseguire.
– Qual'è la fine di questa riflessione, tu che mi chiedi perché ti assillo continuando a chiederti se ho fatto un buon lavoro?
– Tu per prima lo sai. Io non sono più importante di te, della opinione che hai di te stessa, né di tutte quelle persone che te lo hanno detto ieri: loro lavorano con me, e se ti hanno giudicato bene è come se avessi anche il mio, di giudizio. Non devi aspettare che sia la mia approvazione a dartene la certezza.
Diana tremò leggermente, forse per la leggera brezza.
– Se tu sapessi. – Guardava dritto davanti a sé, i palazzi illuminati dal sole, i le violette che iniziavano timide a fiorire nei vasi sui balconi. Non sarebbe mai riuscita a guardarlo. – Se tu solo sapessi cosa significherebbe per me. Non è questione che non mi sento brava, se non me lo dici. Io vorrei che tu mi apprezzassi: lo vorrei tanto, tu sei il mio mentore. – aveva parlato a mezza voce, scandendo ogni parola, come se avesse voluto soppesarle ad una ad una.
Si sentì rinchiudere nel suo abbraccio, e nascose la faccia contro il suo petto.
– Sei stata brava. – disse, con quella sua voce roca e bassa.
E pensò che forse quello poteva bastarle.






Nda: Ma ciao fandom delle originali :-D un aggiornamento domenicale non fa mai male, e visto che è il mio ultimo giorno di malattia ho deciso di festeggiarlo così!
Ecco un nuovo capitolo, che spero vi piacerà, Diana inizia ad essere più sicura di sè al lavoro ma con Michele non le è altrettanto facile.
Grazie Bloomsbury, il fatto di sapere che tu sai leggendo questa storia mi dà la forza di continuarla! Grazie grazie grazie!
Ascoltatevi i Pixies, pace amore e rock!

   
 
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