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Autore: Charlotte McGonagall    16/09/2013    0 recensioni
Beetee Watt sognava una vita migliore di quella che la sua famiglia povera avrebbe potuto offrirgli e, soprattutto, sognava una vita che fosse interamente sua; sognava di avere il controllo del proprio destino.
Tuttavia, tutti i suoi sforzi vacilleranno quando sarà estratto per rappresentare il Distretto 3 ai quarantaduesimi Hunger Games.
In questa storia seguiremo la vita del giovane Beetee dall'infanzia fino ai primi anni dopo la sua vittoria agli Hunger Games.
Il rating potrebbe variare nel corso della storia: in tal caso, lo cambierò.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beetee , Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1

Dapprima, le mie fantasticherie di fuga si concentrarono su un edificio di mattoni che occupava un intero isolato a pochi passi dalla piazza del distretto.
La targa di metallo affissa accanto al portone recitava "Istituto di studi tecnici avanzati", ma per tutti quello era semplicemente chiamato "L'Istituto".
Quel luogo era la più grande speranza di tutte le famiglie del Distretto 3: venire ammessi come studenti significava non solo avere accesso alla più vasta conoscenza accessibile ad un cittadino dei distretti, ma anche avere la garanzia di tre pasti al giorno e la futura prospettiva di un lavoro che avrebbe permesso di mantenere decorosamente se stessi e la propria famiglia.

Fantasticavo riguardo alle meraviglie celate dietro a quelle pareti di mattoni, mentre mi rigiravo nel letto, incapace di dormire, per il freddo, la fame o perché uno dei miei fratellini piangeva.
Non che potessi fare molto per realizzare il mio sogno, se non aspettare la fine del primo anno di scuola: allora, gli esperti sarebbero arrivati da Capitol City e ci avrebbero esaminati per decidere chi fosse abbastanza intelligente per entrare.
All'epoca non lo capivo, ma quello era solo uno dei segnali che avrebbe dovuto ricordarmi che era sempre Capitol City ad avere il controllo del nostro destino. D'altronde, non potevo comprendere ancora la profonda natura del mio desiderio di affermazione: sapevo solo che l'Istituto era la mia unica possibilità di fuga; sapevo che avrei dovuto essere abbastanza intelligente o non avrei mai lasciato quella casa nella quale mi sentivo un estraneo.

*

Ero nato nella zona più povera del distretto: quella periferica dei condomini assegnati alle famiglie degli operai.
Tutti i palazzi erano simili - grigi, di dieci piani ciascuno e con gli infissi scrostati e deformati dall'umidità - e solo i numeri e le targhe coi nomi degli abitanti consentito a un visitatore inesperto di distinguerli.

La mia famiglia abitava in un appartamento al sesto piano. Non era vantaggioso, dal momento che gli ascensori dei quali erano forniti tutti i condomini erano perennemente guasti, ma almeno ai piani più alti era più raro trovare topi.
Ogni tanto qualcuno cercava di riparare l'ascensore e - a volte - ci riusciva, ma il meccanismo era ormai così vecchio che non tardava rompersi nuovamente. Inoltre, anche quando funzionava, quasi tutti erano così spaventati dal pessimo stato di manutenzione e dalla tecnologia obsoleta che preferivano prendere le scale.
Quando avevo circa tre anni, nel palazzo di fronte, un gruppo di bambini era rimasto intrappolato mentre giocava nell'ascensore ed erano trascorse diverse ore prima che riuscissero a liberarli. Non ricordo il fatto in sé, ma solo che si continuò a parlarne per anni, presentando la vicenda come esempio di quello che succede ai bambini che si assumono rischi inutili. Quei racconti dovevano aver colpito il mio immaginario infantile, perché mi sono sempre sentito a disagio in spazi chiusi e ristretti.
Anche gli assembramenti di persone mi infastidivano, così come il caos, entrambi inevitabili se si convive con bambini piccoli in un appartamento troppo stretto per ospitare una famiglia numerosa.

Amavo il silenzio più di qualsiasi altra cosa e, a cinque anni - quando ormai mia madre era troppo assorbita dai figli più giovani per preoccuparsi dell'unico abbastanza grande da non cercare di inghiottire tutto ciò che prendeva in mano - mi allontanavo spesso da casa, in cerca di pace.
Di solito camminavo fino alla stazione e mi fermavo su una piattaforma di cemento coperta da una tettoia, vicino ai binari. Serviva per caricare e scaricare le merci, ma era utilizzata solo nei due giorni della settimana adibiti ai rifornimenti, quindi era quasi sempre a mia disposizione.
Sedevo lì per ore, fantasticando sulle grandi cose che avrei fatto da adulto, costruendo strutture di sassi e ramoscelli e ripetendo a memoria qualche filastrocca imparata a scuola o ascoltata dai bambini del quartiere.

Ero solitario. Giocare coi miei coetanei non mi piaceva, perché finivo sempre per sentirmi diverso.
Non li capivo: non capivo perché si divertissero ad azzuffarsi, non capivo perché gridassero sempre, non capivo i loro ragionamenti puerili, non capivo l'inconsistenza delle regole dei loro giochi.
Credo che anche loro avessero percepito la mia diversità.. Mi schernivano per la mia goffaggine, per il mio modo di parlare, per i miei occhiali. Li disprezzavo profondamente, anche se ora me ne vergogno: erano solo bambini, non era colpa loro, erano gli adulti che avrebbero dovuto difendermi. Ma chi mai lo avrebbe fatto, quando gli adulti erano i primi a guardarmi con sospetto, quando le amiche di mia madre le dicevano che avevo qualcosa di strano, che i bambini normali non stanno seduti in un angolo a giocare da soli, che i bambini normali giocano a nascondino, non passano ore a costruire torri di sassi o a disegnare nella terra con un bastoncino?
Mia madre non sapeva cosa rispondere. Ero nato quando aveva appena diciotto anni, doveva più vicina all'idea di figlia che di madre.
Doveva sembrare ancora molto giovane, in quel periodo, ma non riesco a ritrovare i dettagli del suo viso nei miei ricordi. Da piccolo, tutti gli adulti mi sembravano uguali e quando, per la prima volta, osservai mia madre consapevolmente, ogni traccia di giovinezza era svanita dal suo viso, oscurata dalle privazioni e dalle preoccupazioni della vita.
Era una donna distante, col viso perennemente contratto in una smorfia ansiosa. Anche coi suoi figli era sbrigativa e avida di gesti e di parole; solo con mio padre si lasciava andare a qualche segno d'affetto. Non era mancanza d'amore, la sua, ma vi era un istintivo distacco nella sua natura, esacerbato dalle responsabilità della famiglia.
Mi sarebbe sempre stato difficile comprendere mia madre, una donna instancabile e attiva, ma al contempo così passiva e apatica di fronte alla sventura, come se la rassegnazione fosse l'unica arma possibile contro il fato.
Era questo ciò che - più di ogni altra cosa - non capivo della maggior parte delle persone che avevo attorno: l'accettazione di quella vita di privazioni. Sapevo che non avevano i mezzi per cambiarla, ma ciò che non concepivo era che non se ne lamentassero neppure, che continuassero semplicemente a lasciarsi vivere, coi volti spenti da quell'inerzia e i corpi provati dalla fatica e dagli stenti.

Quando vidi per la prima volta un formicaio pensai che formiche e uomini non fossero tanto diversi: sembravano avere un solo compito, quello di percorrere in continuazione sentieri già tracciati, per uno scopo che non mi era chiaro.
Iniziai a porre domande sul comportamento delle formiche, ma quasi nessuno sapeva spiegarmi alcunché. Nel Distretto 3 è difficile trovare qualcuno che conosca qualcosa non direttamente collegato alla tecnologia.
Riuscii, tuttavia, a scoprire che le formiche viaggiavano in fila per raccogliere cibo da conservare sotto terra, lavoravano incessantemente, costruivano labirinti di gallerie, erano numerosissime ed ogni formica aveva un compito preciso da svolgere.
"Perché lo fanno?", chiesi alla maestra, la signorina O' Hare, che mi aveva spiegato tutto ciò che sapeva sulle formiche. La signorina O' Hare mi piaceva, perché rispondeva sempre alle domande con gentilezza, anche alle più insolite.
"Perché fanno cosa?".
"Perché svolgono un particolare compito?".
Lei ci pensò per qualche secondo.
"Per istinto, immagino. Credo che ogni formica abbia il suo ruolo, sono molto organizzate".
"Quindi non scelgono loro cosa fare?".
"Be', no. Funziona così: sa fa ciò per cui si è nati. Se non lo facessero il formicaio non funzionerebbe. Pova a pensare a cosa succederebbe se il fornaio smettesse di fare il pane o se il conducente di un treno decidesse che non vuole più consegnare il cibo," rispose lei.
"E se una formica vivesse da sola, lontano dal formicaio?", domandai.
"Non potrebbe: morirebbe, non avrebbe riparo. Tu credi che potresti vivere solo, fuori dal distretto?".
Ci pensai. No, probabilmente no, ma continuavo a pensare che sottostare ad un destino tracciato fosse come ammettere di meritarlo. Io non ero una formica e non volevo essere un operaio solo perché lo era mio padre, solo perché tutti, nel mio quartiere, lo erano.
"Sarei libero, almeno," dissi, con voce più dura di quanto avrei voluto.
Gli altri bambini ridevano e mormoravano fra loro, ma la signorina O' Hare sembrava spaventata.
Non ne avevo l'intenzione, ma le mie parole sembravano quelle di un ribelle. I Giorni Bui erano ancora terribilmente vivi nei ricordi delle persone e la signorina O' Hare era tra coloro che li avevano vissuti.
Doveva essere terribile per lei essere costretta a insegnare ai bambini i meriti di Capitol City dopo quello che doveva avere visto durante la guerra.
"Non dire sciocchezze," mi rimproverò. "Nessuno di noi potrebbe fare una cosa del genere! Il mondo esterno è pieno di pericoli, solo nel distretto siamo al sicuro. Perciò è necessario che ciascuno faccia il proprio dovere nella società. Soltanto in questo modo Panem può prosperare. La capitale governa e i distretti forniscono prodotti: così deve essere, se vogliamo che tutto vada per il verso giusto".
Rimasi in silenzio e annuii. Lei mi posò una mano sulla spalla.
"Tu sei un bambino intelligente," mi sussurrò, "vedrai che avrai un bel compito da svolgere".
Mi sorrise.
Per la prima volta mi sentii compreso. Lei sapeva che quella conversazione, sin dall'inizio, aveva avuto ben poca attinenza con le formiche e sapeva che avevo progetti per il mio futuro, ma - a suo modo - mi stava avvertendo: avevo speranze, ma avrei dovuto giocare secondo le regole o non sarei arrivato da nessuna parte.

Quell'episodio contribuì a rafforzare ulteriormente il mio desiderio di entrare all'Istituto. Ormai mancavano poche settimane alla selezione e in classe lavoravo instancabilmente, sperando di imparare qualcosa che potesse procurarmi un vantaggio all'esame.

*

Era giugno, alcuni giorni prima della mietitura, quando tutti i bambini del primo anno furono radunati nel refettorio, aspettando che il proprio nome venisse chiamato.
Io ero tra gli ultimi ed ero così agitato che non riuscivo a stare fermo e mi rosicchiavo nervosamente le unghie.

"Beetee Watt," chiamò una donna di Capitol City con lunghi boccoli lilla.
Seguii la donna fuori dal refettorio. All'imboccatura del corridoio, la signorina O' Hare mi rivolse un sorriso di incoraggiamento.

Fui condotto in un'aula nella quale non ero mai stato.
Al centro della stanza, alcuni banchi erano stati accostati a formare un tavolo più grande. Da un lato sedeva un uomo col viso bianco come gesso e i capelli azzurro pallido. Potrava un completo grigio pallido e guanti bianchi.
Quando entrai, si alzò e mi disse di accomodarmi sulla sedia di fronte alla sua.
Non solo era vestito e pettinato diversamente da chiunque avessi mai visto, ma era anche la persona più alta che avessi mai incontrato. La sua altezza doveva già essere considerata notevole a Capitol City, ma lo era ancora di più nel Distretto 3, dove è raro che perfino un uomo adulto superi il metro e settanta.

"Coraggio, siediti," ripeté l'uomo. Era calmo e paziente, abituato com'era a trattare con i bambini.
Mi sedetti, aggiustandomi sul naso gli occhiali troppo grandi, osservando con diffidenza quell'uomo dall'aspetto insolito.
"Allora, Beetee," mi disse, "io mi chiamo Rufus. Ora ti farò fare qualche gioco, d'accordo?".

*

Quando, alcuni giorni dopo, la signorina O' Hare mi consegnò la lettera di ammissione, ero così felice che rimasi a bocca aperta. Ero stupito da quanto facilmente il mio primo sogno si fosse realizzato: non era stato difficile, non avevo dovuto fare nulla se non essere me stesso. Del resto, i quiz ai quali ero stato sottoposto il giorno dell'esame mi erano parsi così semplici che mi chiesi come avessero fatto gli altri a non essere ammessi.

Quando portai a casa la lettera fui sconcertato dalla reazione di mio padre, dall'espressione di gioia e orgoglio che mi rivolse.
Mi abbracciò e mi sollevò da terra.
"Questo è il mio ragazzo," disse, con un ampio sorriso. "Sapevo che ce l'avresti fatta. Sono orgoglioso di te".
Per la prima volta, vidi mio padre sotto una luce nuova. Sapevo che mi voleva bene - ed era sicuramente molto più affettuoso di mia madre - ma non avrei mai creduto che avesse una tale considerazione di me.
Tutti, tranne forse la signorina O' Hare, sembravano pensare che fossi ritardato, non intelligente, compresa mia madre.
"Be', questo è un bel sollievo," commentò lei, in tono neutro.
Ancora non so se per "sollievo" intendesse la scoperta che suo figlio non era idiota come le era stato detto o la consapevolezza che presto avrebbe avuto una bocca in meno da sfamare. All'epoca aveva sei figli piccoli e lo stipendio di nostro padre era l'unico sostentamento della famiglia, quindi era naturale che si sentisse sollevata, pensando che - da settembre - avrei vissuto all'Istituto e sarei stato mantenuto decorosamente, liberandola dall'onere di occuparsi anche di me.

Avrei voluto che fosse felice per me, che fosse orgogliosa come lo era mio padre, non solo sollevata. Avrei voluto piacerle, che mi dicesse che ero stato bravo. Avrei tanto voluto un riconoscimento da parte sua, ma la sua freddezza aveva reso la mia vittoria più triste.
Sentii più che mai la necessità di andarmene da quella casa che per me perdeva sempre più significato ogni giorno.

NdA: Ecco il primo capitolo, spero che vi sia piaciuto. Se c'è qualcosa che non avete capito chiedete pure. E se ci fossero degli errori nel testo, segnalatemeli nelle recensioni, per favore.
Se qualcuno si stesse chiedendo cosa sia l'Istituto, nei prossimi capitolo avrete ulteriori dettagli. Comunque - come spero si sia dedotto dal capitolo - è la scuola in cui vengono formati i bambini e ragazzi più intelligenti del distretto, per diventare inventori, programmatori, ingegneri... insomma, tutte quelle professioni di cui Capitol City ha bisogno per garantire il progresso tecnologico. Perciò, dopo il primo anno di scuola (che ho stabilito a 5 anni, come nel sistema scolastico inglese), durante il quale tutti i bambini studiano insieme, vengono sottoposti ad un test di intelligenza da un gruppo di esperti. Coloro che dimostreranno un'intelligenza superiore alla media saranno ammessi. È una mia invenzione, spero vi piaccia.
Nel prossimo capitolo, vedremo le impressioni di Beetee quando arriverà all'Istituto.

   
 
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