5)Vancouver.
Passiamo
Burnaby
senza problemi e finalmente arriviamo a Vancouver.
La città si
stende tranquilla, coperta da un manto leggero di neve, io e Derek
rabbrividiamo e poi guardiamo ancora la città.
“Ascolta faccio
un paio di chiamate.”
Io annuisco, lui
tura fuori il cellulare e compone un numero.
Parla in
spagnolo, io capisco solo fino al punto in cui chiede un favore, poi
iniziano a
parlare così fitto che io sono tagliata fuori.
Lui gesticola
ampiamente e urla, alla fine chiude la telefonata stizzito.
“Tutto bene?”
“Non proprio,
la gente ha la memoria corta in
fatto di favori, però almeno i miei amici hanno detto di
andare da loro.”
Io annuisco e lo
seguo.
“Non te la stai
cavando male per essere una che non vive sulla strada, hai un buono
spirito di
sopportazione.”
“Grazie, ma ho
bruciato tutti i ponti, posso solo andare avanti.”
Lui tace e guarda
avanti.
“Ok, allora andiamo.
Dobbiamo farci la città a piedi, i soldi stanno
scarseggiando e saranno ancora
meno quando avrò pagato i miei cosiddetti amici.”
“Pensavi che
l’avrebbero fatto gratis?”
“Ci speravo. Gli
avevo fatto dei bei favori quando ero a Frisco, ma la memoria della
gente è
corta e i soldi sono un richiamo irresistibile.”
Percorriamo
stradine secondarie e poco pulite dagli spazzaneve, quasi deserte.
Incontriamo
solo senza tetto, ragazzi dagli occhi a spillo e ragazzini che hanno
saltato
scuola.
Più o meno alle due
Derek si ferma davanti a un palazzo fatiscente, un volta doveva essere
stata
una casa popolare, magari anche carina, ora invece è solo un
mezzo rudere.
Derek suona il
campanello ed entra nel portone aperto, dentro ci sono delle scale, un
ascensore che sembra guasto da secoli, l’intonaco cade dalle
pareti e ci sono
murales un po’ ovunque.
Io e lui saliamo
al secondo piano e Derek suona il campanello, ne esce un messicano
dalla faccia
truce, con un cappellino della New York.
“Fuentes.”
Con inchino della
testa saluta Derek.
“Ramirez.”
Derek fa lo
stesso.
“Hai una
ragazza.”
Constata Fuentes.
“Sì, si chiama
Kate. Katie, lui è Juan Fuentes.”
Entriamo e un
secondo uomo, con i capelli lunghi e la barba non fatta da parecchi
giorni, è
sdraiato su un divano macilento.
“Lui invece è
Pierre Delvoix.”
L’uomo alza
svogliatamente una mano.
“Pierre, alza il
culo. Devi accompagnare questo ragazzino
all’inceneritore.”
Pierre guarda
Derek.
“Faresti meglio a
venderla.”
“Non voglio più
avere a che fare con delle pistole, amico.”
Il canadese
scrolla le spalle e se ne va con Derek, lasciandomi con questo Fuentes
che non
mi piace per nulla. Mi guarda come se io fossi un ghiotto boccone.
“Ehm, posso bere
qualcosa?”
Gli chiedo così,
tanto per rompere il silenzio imbarazzante che si è creato.
Credo che Derek
abbia fatto un errore a lasciarmi con questo tipo. In ogni caso, lui mi
indica
una cucina sudicia.
“Prendi quello
che vuoi, bellezza!”
Io me la filo in
cucina e bevo un bicchiere d’acqua, ho una sorda sensazione
di pericolo, come
se quell’uomo emanasse brutte vibrazioni. Credo sia meglio
stargli lontana.
Peccato che lui
la pensi diversamente e mi raggiunga in cucina.
“Allora, Kate,
quanti anni hai?”
“Diciotto.”
Rispondo cercando
di mostrarmi sicura, in realtà ho una paura folle. Spero che
quello che Derek e
Pierre devono fare non li tenga lontano molto o qui finisce male per me.
“E così sei la
ragazza di Derek. Ti piace?”
“Sì molto.”
Lui si avvicinò
un altro po’.
“E non ti
andrebbe di provare un vero uomo?”
Se per vero uomo
intendeva un tizio a un passo dall’obesità con
un’aria lasciva che si fingeva
un gangster, no, non mi va.
“No. Derek va
benissimo!”
Rispondo il più
decisa possibile, ma le mie parole non sortiscono alcun effetto, lui
continua
ad avanzare con quella sua espressione da lupo e gli occhi pieni di
desiderio.
Merda, sono nei
guai!
In un attimo mi
stringe i polsi nelle sue mani, pur essendo piccole e grassocce hanno
una presa
molto salda, io provo a mollargli qualche calcio, ma non riesco a
beccarlo.
Prova a baciarmi,
ma gli sputo in faccia, questo lo fa infuriare ancora di
più, perché mi strappa
i vestiti e comincia a stringere
e
strizzare le mie povere tette.
Mi muovo ancora
di più, lui mi tira un calcio e si butta come un affamato
sui miei seni, io non
riesco a respingerlo per via del dolore.
Mi sta togliendo
i pantaloni con furia quando una mano lo allontana e sento il rumore di
una
zuffa, io mi lascio cadere a
terra e mi
porto le mani sulle orecchie, mentre le lacrime scendono sul mio viso.
Sono salva, sono
fottutamente salva!
Rimarrei così
all’infinito se una mano gentile non mi tirasse in piedi:
è Derek e ha i segni
di una lotta in faccia.
È lui che mi ha
salvata! Senza pensarci due volte gli butto le braccia al collo e lo
abbraccio
con tutta me stessa. Dietro di noi Pierre sta prendendo a pugni il suo
compare
urlando frasi in francese.
“Mi dispiace per
quello che è successo.”
Ci dice
finalmente.
“Non pensavo
potesse fare una cosa del genere o l’avrei fatto venire con
me. Scusami ancora
Kate.”
Io non dico nulla
e il francese non sembra molto sorpreso.
“Potete rimanere
a cena e a dormire, domani dopo colazione ve ne andrete.”
“Avremo quello
che ci serve?”
Pierre annuisce.
“Li faccio io
questa notte per scusarmi dell’inconveniente a cui siete
andati incontro.”
Derek annuisce e
mi porta in salotto, mi fa sedere sul divano e mi abbraccia.
“Va tutto bene,
lui non ti farà più del male.”
“Grazie.”
Rispondo con una
voce sottile che non sembra nemmeno la
mia.
“Mi dispiace che
lui ti abbia fatto del male, avrei dovuto portarlo con me e con
Pierre.”
“Mi hai salvato,
va bene così.”
Lui sospira.
“Devo ricordarmi
che tu sei più fragile delle mie ragazze
precedenti.”
“No.”
Rispondo decisa.
“Il coraggio non
mi manca.”
Lui mi
scompiglia.
“Ok.”
Alle sette
mangiamo e il messicano mettono un canale che trasmette un telegiornale
e mi si
ghiaccia il sangue nelle vene.
“È ancora un
mistero la scomparsa di Ava DeLonge.”
Recita la
giornalista.
“La figlia
maggiore del noto chitarrista Tom DeLonge, leader dei Blink -182 e
degli Angles
and Airwaves, sembra sparita nel nulla.
Sono due
settimane che della ragazzina non si hanno notizie, in un primo momento
si era
pensato a un rapimento, ma la
famiglia
non è stata ancora contattata da eventuali rapitori.
La polizia
propende ora per un allontanamento volontario, il cellulare
è stato trovato al
confine con il Messico e Ava ha ritirato i soldi dal suo conto postale
prima di
sparire.
La famiglia spera
non sia incappata in qualche maniaco e invita chiunque la veda a
recarsi ad una
stazione di polizia.
Questa è la foto
di Ava.”
La giornalista
mostra una foto, ora sono più magra e con i capelli biondi,
non sembra quasi io
con la faccina paffuta e i capelli blu. Forse ce la posso fare a
passare
inosservata.
I tizi che hanno
guardato il servizio poi non hanno guardato me, solo Derek mi ha dato
un’occhiata di soppiatto.
“Forza, ragazzi.
Dopo aver mangiato come disperati non c’è niente
meglio di un bagno e di una
bella dormita.”
Derek è il primo
a lavarsi, io guardo Pierre estrarre gli strumenti del mestiere, poi
arriva il
mio turno e mi godo la doccia.
Una volta lavati,
Pierre ci mostra una stanza con un letto a una piazza e mezza.
“Buonanotte.”
Io e Derek ci
spogliamo e ci mettiamo a letto, abbracciati come l’altra
volta. Sto bene tra
le sue braccia, mi sento protetta.
Dio solo sa
quanto ho bisogno di protezione in questo periodo.
La
mattina dopo,
una mano poco caritatevole ci sveglia alle nove.
È Pierre e ha gli
occhi cerchiati di nero.
“Il lavoro è
fatto, mangiate qualcosa per colazione preparate i panini per dopo e
andatevene.”
“Va bene.”
Ci laviamo,
mangiamo e prepariamo dei panini, poi Pierre ci consegna una cosa e
dà una
pacca sulle spalle di Derek, a me invece tende una mano.
“Arrivederci e
scusa ancora per Ramirez, ha molte buone conoscenze, ma è
anche
un’irrimediabile…”
Non dice nulla,
ma capisco lo stesso.
“È ok, grazie per
averci ospitati e per il resto.”
“Di niente e
adesso andate.”
Li salutiamo e ce
ne andiamo, Vancouver è ancora fredda e coperta di neve.
“Cosa facciamo
adesso?”
Chiedo a Derek.
“Cosa ne pensi di
Montreal?”
“Uh! La città dei
Simple Plan! Comunque è ok, nessuno dovrebbe cercarci
lì, solo che sarà molto
difficile attraversare il Canada.”
“In qualche modo
faremo e adesso andiamo alla stazione.”
“Va bene.”
Lo seguo lungo le
vie che percorre, sembra conoscere questa città almeno un
pochino, forse ci è
già stato. Devo chiederglielo.
“Sei già stato
qui?”
“Ci ho vissuto un
paio d’anni da piccolo, per il lavoro di mio padre. Quando
l’ha perso siamo
tornati a Frisco.”
“Come mai dobbiamo
andare in stazione?”
“Per vedere se
c’è qualche treno merci che va verso
Montreal.”
“Pensi di farcela
in una tratta?”
“No, rischiamo di
morire prima. Dovremo fare tutto a tappe.”
“Ho capito.”
Arriviamo in
stazione e con lui mi intrufolo nella zona riservata alle merci,
ascoltiamo per
un po’ chiacchiere insulse e poi finalmente una notizia
interessante: stasera
alle dieci parte un convoglio per Calgary.
Io e Derek
usciamo.
“Calgary è un
buon posto, secondo la cartina, speriamo che facciano qualche pausa,
almeno per
pisciare.”
“Lo spero.”
Rabbrividisco
all’idea di doverla tenere per giorni e giorni, non credo ce
la farei e sarebbe
poco dignitosa farsela sotto.
“Non fare quella
faccia, sei una dura, ce la farai. Altra gente sarebbe crollata prima
di te.”
“Ok, adesso cosa
facciamo.”
“Gironzoliamo e
poi non so. Dovremo trovare un modo per tirare le nove e
mezza.”
Camminiamo
silenziosi in una città coperta di neve tra una massa di
persone dirette in
luoghi diverse, qualcuno va al lavoro, qualcuno a scuola, qualcuno a
riprendersi dopo la sbornia notturna.
Facciamo un giro
nella città sotterranea e riusciamo a fregare due panini a
un venditore
ambulante senza che lui ci veda.
E questo è il
nostro pranzo, consumato con calma su una panchina mentre guardiamo la
gente
che va avanti e indietro.
Che bello.
Sa quasi di
normalità!
Sembriamo due
ragazzini in pausa dalla scuola e non due giovani barboni in attesa di
un treno
che li porterà lontano.
Al pomeriggio
andiamo in un grande parco e ci divertiamo come scemi sulle altalene e
sui
giochi, quando inizia a calare la sera e a fare freddo
ci rifugiamo in stazione e lì mangiamo uno
dei panini che ci ha dato Pierre.
Le ore passano
lente, alle nove e mezza con cautela ci dirigiamo verso la zona merci,
vediamo
il nostro treno e ci saliamo sopra approfittando della distrazione di
uno degli
operai.
Il posto è
stipato di cose, ma siamo le uniche persone.
Meglio, non ho
voglia di sentire i racconti altri vagabondi, ho un sonno terribile e
non vedo
l’ora che Derek tiri fuori le coperte.
Fa anche freddo,
tra l’altro.
Rimaniamo in
attesa fino a quando il treno inizia a muoversi e le voci degli operai
e i loro
passi spariscono. Solo allora Derek tira fuori le coperte e ci mettiamo
a
dormire. Siamo entrambi stanchi e non vediamo l’ora che
finisca questa
giornata.
Cadiamo in un
sonno senza sogni che viene interrotto quando il treno si ferma in una
stazioncina, io e Derek saltiamo giù per rubacchiare del
cibo e per pisciare.
Miracolosamente ci riusciamo e risaltiamo sul treno che riparte verso
Calgary.
“Cavolo, ce
l’abbiamo fatta.”
“Almeno siamo
riusciti a pisciare!”
Dice allegro lui,
poi tira fuori il sacchetto che ha preso: acqua, due brioche, un altro
panino.
Mangiamo le
brioches e beviamo l’acqua, fuori il passaggio scorre
innevato, lo vediamo
dalle lame del legno che riveste il vagone.
“Ti piace la
neve?”
Gli chiedo.
“Abbastanza, ma
ho il sospetto che presto la odierò.”
Io rido.
“Forse finirò per
odiarla anche io, ma per ora mi piace.
Ci facciamo una
partita a carte?”
Io annuisco e lui
tira fuori un mazzo di carte, fino a mezzogiorno giochiamo a scala
quaranta,
vorrei giocare a poker, ma nessuno me lo ha insegnato e Derek non me lo
vuole
insegnare.
Dice che giocare
a scala quaranta gli ricorda sua nonna ed è un bel ricordo.
Va bene.
A mezzogiorno
mangiamo i panini che ci ha dato Pierre e poi ci stendiamo, dalle lame
entrano
gli spifferi d’aria fredda e qualche fiocco di neve. In
effetti fuori ha
ripreso a nevicare, che palle.
“Che freddo!”
Esclamo
sottovoce, lui mi sente e tira fuori una coperta in cui mi avvolge.
“Ma non rimanere
lì, vieni qui!”
Apro le braccia e
lui mi raggiunge.
“Quando quello
stronzo di Ramirez ti stava per…. Volevo
ucciderlo.”
Io rabbrividisco.
“Grazie per avermi
salvato. Posso chiederti una cosa?”
Divento
immediatamente rossa.
“Ma io ti
piaccio?”
Lui rimane in
silenzio per un po’.
“Sì, un po’ sì e
non so se sia un bene per te.”
Io non dico
nulla, è la prima volta che mi succede qualcosa del genere.
“Derek… Ti voglio
bene.”
“Anche io e
adesso lasciamo che questo viaggio verso l’ignoto
prosegua.”
“Non è un viaggio
verso l’ignoto. Non tutti quelli che viaggiano sono persi,
ricordatelo.
Noi sappiamo dove
vogliamo andare e perché ci vogliamo andare.”
Lui sorride.
“Hai ragione, noi
dobbiamo andare a Montreal e iniziare una nuova vita, dimenticando il
nostro
passato.”
Ci sorridiamo e
poi guardiamo il paesaggio innevato che ci
scorre davanti dalle aperture delle sbarre, in qualche
modo ce la
faremo.
Il viaggio
trascorre tranquillamente fino a Calgary –
c’è qualche sosta di mezzo e ne
approfittiamo per pisciare e recuperare del cibo – e
lì scendiamo dal treno
senza farci vedere.
Arriviamo in
stazione e lì troviamo un gruppo di barboni.
“Quando passa il
prossimo treno per Montreal?”
Derek lo chiede a
una donna che avrà sessant’anni circa.
“Ne passa uno per
Regina tra due giorni. Avreste fatto meglio a rimanere su quello in cui
stavate, sareste arrivati a Regina.”
Derek scuote la
testa.
“Troveremo
qualcosa da fare.”
Il sole sta per
tramontare e fa freddo, io e il mio amico andiamo alla ricerca della
mensa per
i poveri, ammesso che qui ce ne sia una.
Dopo mezz’ora la
troviamo e ci mettiamo in coda con gli altri senzatetto, che
chiacchierano
allegramente, nonostante il vedo gelido che ci taglia la faccia.
Il cibo è
stranamente buono e dentro fa caldo, i volontari sono gentili e ci
trattano da
esseri umani, il che è strano. In America i barboni sono
scansati come se
avessero la peste e non credo che nelle mense la gente sia gentile.
Mangiamo in
abbondanza e poi dobbiamo cercare un posto per dormire, dobbiamo
tornare in
stazione che ora è diventato un brutto posto. Ci sono
barboni, spacciatori e
drogati, io stringo istintivamente la mano di Derek e lui sorride
impercettibilmente.
Qualcuno ci
chiama, sono degli ubriachi, noi facciamo finta di non sentire, io
inizio ad
avere paura, l’unica cosa che ha il potere di calmarmi
è la stretta di Derek.
Ci inoltriamo
dentro la stazione, che passa dall’essere eccessivamente
illuminata della sala
d’attesa, al buio dei binari.
Io e lui ne
attraversiamo un po’ prima di arrivare in una zona
abbandonata, Derek tira
fuori una pila e illumina un paesaggio desolato fatto di vecchi binari
con
traversine che mancano, ferro e vecchi vagoni che non trasporteranno
più
nessuno.
“Andiamo in uno
di quelli e passeremo la notte lì. Non credo che ci
disturberanno lì.”
“Ne sei sicuro?”
Chiedo con una
voce così tremula che non sembra nemmeno la mia.
“Sì. E se
arrivasse qualcuno ci penso io.”
“Inizio a pensare
che avresti dovuto tenere quella pistola.”
Lui ride
nervosamente, mentre forza la porta per poter entrare, non credo sia
l’unico a
essere nervoso per la situazione e si sforza di rimanere calmo per me.
Che amore.
Adoro questo
ragazzo!
Forzata la porta
entriamo , lui tenda di richiuderla in qualche modo, per non fare
entrare il
freddo o qualcosa di peggio.
Alla luce della
pila estrae le coperte e cerchiamo di sistemarci sui sedili, anche
questa volta
abbracciati.
Chissà se Jack
avrebbe fatto tutto questo per me?
Chissà se lo sta
facendo con Ginger.
Ginger.
E io che pensavo
fosse quasi un’amica!
Vatti a fidare
degli amici, l’unica persona che sta facendo di tutto per
farmi stare bene, per
quanto in brutte condizione è uno che nemmeno conoscevo e
che forse troverebbe
più conveniente consegnarmi alla polizia.
Derek invece non
solo non lo ha fatto, ma mi sta proteggendo come meglio può
e senza di lui
sarei stata persa e forse chissà morta.
Devo ringraziare
qualsiasi cosa ci sua lassù per aver mandato lui sulla mia
strada.
Questi sono i
pensieri che mi vorticano in testa prima di cadere in un sonno senza
sogni né
incubi: un sonno che serve solo a far riposare il corpo.
Ringrazio ElaEla e _staywithme_ .