1.
Nella piazza d’armi all’interno del grande accampamento militare, voluto da Dorgan Jathro per addestrare l’esercito che
avrebbe dovuto sfidare le nere orde di Dokh’iel, erano stati radunati tutti gli schiavi. I lavori di costruzione
dell’accampamento, destinati a trasformarlo in un vero e proprio fortino adatto a ospitare un’intera guarnigione
permanente, erano stati sospesi per quell’occasione. Sotto un grigio e immobile cielo invernale un iroso centurione
camminava tra le file degli schiavi, sporchi e consumati dai lavori forzati, brandendo un grosso anello di metallo dal
quale pendevano chiavi di diverse fogge. Ogni volta che si fermava davanti a uno dei poveretti lì allineati, questi gli
porgeva immediatamente il braccio sinistro, cinto dall’inconfondibile bracciale di metallo scuro. Il centurione, avvolto
nella sua corazza e in irsute pellicce per difendersi dal freddo, provava una determinata chiave infilandola nella
serratura del bracciale. La chiave non azionava mai la serratura e a volte non entrava nemmeno. Quando anche l’ultimo
bracciale fu provato, gridando minacce e maledizioni il centurione dell’esercito del Tiranno si sfogò scagliando con tutta
la sua forza la chiave inutile contro il cielo indifferente. La chiave volò alta roteando, emise un debole bagliore
riflesso e scomparve dietro l’alto muro di cinta che in quel punto del perimetro era ormai completato.
Lerea versò un altro calice di vino al truffatore, un mercante che vendeva chiavi false o spaiate, chiavi cioè smarrite
e quindi separate dal legittimo bracciale. L’uomo era ormai ubriaco e Lerea era sempre più preoccupata: com’era possibile
che quell’uomo panciuto e grasso potesse resistere tanto a lungo al vino drogato da lei stessa
preparato?
- Basta bere, donna! – disse il mercante colpendo col dorso della propria mano quella di Lerea che gli tendeva il boccale
di coccio colmo. Questo volò attraverso la stanza e si infranse al suolo, in un punto del pavimento dove non c’erano
tappeti.
Lerea si ritrasse spaventata, improvvisamente colpita dall’evidenza dei fatti. Quel grasso maiale con fattezze umane
doveva essere immune alla droga che lei aveva usato per non essere ancora crollato addormentato e avere perfino la
forza e la lucidità di compiere quel gesto.
Il mercante strinse ancor di più gli occhi finché le pupille lucide parvero sparire inghiottite dalle pieghe di
grasso che erano le sue palpebre. Il viso gonfio e arrossato si deformò in un grottesco sorriso che mise in evidenza
i denti piccoli, ingialliti e distanziati tra di loro. L’alito puzzolente investì in pieno Lerea, acido come se le
squisite vivande e il vino con cui si era ingozzato fino a quel momento si fossero trasformati all’interno di quel
ripugnante corpo nelle più immonde sozzerie.
- È ora di mantenere la parola… - aggiunse soffiando ancora alito fetido dal fondo della gola.
Lerea istintivamente si ritrasse: il mercante si stava protendendo verso di lei, tentando goffamente di sollevare la propria
mole dai cuscini in cui era sprofondato. Ricordava benissimo a cosa aveva alluso per attirare le attenzioni del mercante,
certa però che il vino drogato l’avrebbe salvata. L’uomo, alterato dal vino, prese questo atteggiamento come un gioco e la
smorfia simile a un sorriso si estese ancor di più, accompagnata da un rauco soffiare che doveva essere una risata. Con
inattesa velocità egli si mosse in avanti stando sulle ginocchia, e protese le braccia in avanti per afferrare
Lerea.
Questa con un gridolino si sottrasse, agevolata dall’aver bevuto molto meno vino. Il mercante cadde carponi,
divertito.
- Vieni qua, bellezza… - biascicò cercando di mettersi in piedi, visto che anche Lerea si era alzata dai cuscini
che occupava.
Con grande stupore della ragazza, che si aspettava di vederlo crollare da un momento all’altro, il mercante di chiavi
fu in piedi, sebbene barcollante. Mosse incerto verso di lei, mani in avanti. Lerea si sottrasse ancora e l’uomo nel
tentativo di cambiare direzione inciampò e cadde carponi, ridendo e gorgogliando. Alzò il viso gonfio e lucido di
sudore verso Lerea e le sorrise ancora in modo disgustoso, sbavando.
- Vuoi giocare, eh…? – biascicò ancora.
Lerea si sforzò di sorridere, cercando di apparire credibile nella sua finzione. Quell’uomo le faceva schifo e la
semplice idea che potesse avvicinarsi troppo le provocava ribrezzo.
Gattonando il mercante di chiavi la inseguì: Lerea lo schivò facilmente tutte le volte, fingendosi divertita da quella
specie di gioco che aveva suo malgrado inscenato. Anche il mercante pareva divertirsi, così Lerea cercò di pensare a un
altro metodo per raggiungere il suo scopo.
D’un tratto, distratta dai suoi pensieri o forse confusa dal vino, fu tradita da un suo stesso sandalo abbandonato durante
il banchetto: il momento di incertezza che ebbe fu sufficiente al laido mercante per raggiungerla con uno scatto e afferrarle
una caviglia. Lerea emise un grido di sorpresa: con forza e prontezza inattese il mercante aveva preso a tirarla a sé e poté
rendere più salda la presa afferrandole anche il ginocchio, costringendola quindi a terra. Tentò di divincolarsi, ma fu
bloccata dalla massa del corpo del mercante, pesante come un bue. Questi ebbe tutto il tempo di sedersi sulle gambe di
lei, incurante degli sforzi frenetici che faceva per liberarsi, rendendole impossibile la fuga. Ghignando soddisfatto,
il mercante cominciò a toglierle l’abito con le sue mani rozze e grasse, ora rese tremanti e imprecise dal vino
drogato.
Non riuscendo infatti a slacciare legacci e allentare le asole o sbottonare i bottoni, il mercante tirò i lembi
dell’abito di Lerea fino a strapparlo, denudandola. Inutilmente lei aveva tentato di impedire a lui di metterle le
mani addosso: il mercante aveva reagito in malo modo facendole del male e rischiando di romperle un braccio.
Ora l’uomo stava togliendosi i propri vestiti: quando si fu liberato della casacca Lerea, ormai prossima al pianto, vide
riaccendersi fulgida la speranza. Dal collo unto e lucido del grasso mercante pendeva una catenina alla quale era legata una
piccola chiave lunga quanto un dito mignolo. Era senz’altro la chiave che lei cercava! La guardò penzolare sui seni flaccidi
e pelosi dell’uomo, tanto grasso da avere il ventre così oscenamente gonfio e il petto così molle che le due parti venivano
a contatto, tra molte pieghe della pelle gocciolante sudore puzzolente.
Lerea vide l’espressione sul viso del mercante cambiare: la bocca si era rimpicciolita fino a sembrare una piccola
piaga aperta, mentre le palpebre parevano essersi saldate imprigionando i bulbi oculari sotto il grasso. Il naso rosso
e schiacciato colava e il mercante di chiavi respirava rumorosamente attraverso la bocca, come se fosse asmatico e avesse
la gola occlusa. Non potendo togliersi i pantaloni poiché si era seduto sulle gambe di Lerea, frugò faticosamente sotto la
pancia enorme stentando a farsi obbedire dalle sue stesse mani. Frugò sotto il ricco tessuto, tra le cosce che lo tendevano
ed estrasse una debole erezione. Lerea riconobbe gli effetti del vino drogato, ma riprese a dibattersi furiosamente per
liberarsi temendo che il mercante non avesse bevuto abbastanza. Con molta fatica l’uomo le afferrò anche le braccia e
le imprigionò col suo stesso peso, sovrastandola completamente. Lerea, costretta all’immobilità, gelida come il ghiaccio
resistette alla nausea provocata dal puzzo dell’uomo e dal contatto tra la sua pelle e quella umida e viscida dell’altro.
Il mercante di chiavi si abbandonò sul corpo della giovane e accennando all’uso del membro floscio, finalmente crollò
addormentato per la massiccia quantità di droga bevuta col vino.
Sentendo che quel laido corpo che l’opprimeva aveva cessato di scuotersi, Lerea non senza fatica se ne liberò. Schifata
dal contatto con quel mostro obeso desiderava lavarsi, ma non si dimenticò del motivo per cui si trovava lì. Chinatasi
sul corpo del mercante, che respirava rantolando, mentre con una mano tratteneva il vestito lacerato sul proprio corpo
con l’altra strappò decisa la catenella con la chiave, ignorando la piccola stilla di sangue che la catenella dorata fece
in tempo far sgorgare dalla lardosa pelle del collo del mercante di chiavi.
Corse poi nell’altra stanza dove aveva visto il piccolo forziere e con quella chiave l’aprì. Esattamente come Gambrath
le aveva detto, l’avaro mercante teneva lì buona parte della sua fortuna: molte monete, pezzi d’oro e d’argento, carte
scritte fittamente e pergamene sigillate con ceralacca rossa recante impressi marchi e sigilli a lei sconosciuti. Sul
fondo dello scrigno, avvolte e nascoste in un panno nero, Lerea trovò le chiavi spaiate. Il viso le si illuminò di gioia:
la sua sofferenza non era stata vana e con tutta probabilità anche quella di Gambrath stava per avere termine. Ora doveva
solo andarsene al più presto.
Cercò di sistemarsi al meglio l’abito, ma il mercante l’aveva strappato così in malo modo che non era più possibile
indossarlo senza averlo prima ricucito. Così Lerea tornò nella piccola sala del banchetto dove il mercante narcotizzato
ancora gorgogliava orribilmente e aprì il grande baule contenente gli abiti che lui stesso le aveva mostrato in
precedenza, vantandosi di possedere tessuti degni di apparire alla corte del Tiranno. Lerea vi frugò fino a svuotarlo
completamente, ma nulla di modesto era contenuto in quel gran baule di legno e ferro. Non volendo destare l’attenzione,
Lerea avrebbe desiderato un abito modesto, ma pareva che il mercante avesse a disposizione unicamente tanti pizzi e
trine che avrebbe potuto vestire dame e cicisbei in quantità.
Dopo aver riflettuto, resa inquieta dal brutto rumore del respiro del laido mercante, il cui ventre pareva una
ondeggiante collina di grasso ora che giaceva supino, Lerea prese una decisione. Strappatasi nervosamente di
dosso ciò che rimaneva del proprio, ormai inservibile, indossò il più bell’abito che le riuscì di trovare,
con molte sottogonne immacolate, ornato di ricchissimi ricami e moltissimi pizzi e merletti. Temendo che il
mercante potesse svegliarsi in anticipo, rinunciò ad allacciarlo completamente e a indossare il busto; le pareva
eccessivamente stretto nonostante si rendesse conto che un tale abbigliamento lo rendeva indispensabile. Calzò poi
i sandali e, tolta dal letto del mercante la più umile delle coperte, con il coltello con cui l’uomo aveva servito
il cibo praticò un’apertura nel centro di questa. Ciò fatto, vi infilò la testa e l’indossò a mo’ di mantello. La
modesta e scura coperta era però troppo grande: con l’aiuto del coltello la ragazza la strappò e l’accorciò. Quando
ebbe finito, dello splendido abito che indossava non appariva nulla. Infilatasi tra i seni il panno arrotolato contenente
le chiavi, Lerea si impossessò di tutte le monete che poté nascondersi addosso e, favorita dalle tenebre calate da
parecchio ormai, uscì dalla dimora del grasso mercante. Avvolta nel cupo mantello si allontanò rapidamente.