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Autore: Disvaloue    18/09/2013    15 recensioni
"Sei bellissimo." gli sussurrai. Scattai verso la porta, ma non feci in tempo a raggiungerla. La sua voce, roca come se non parlasse da ore, mi gelò, facendomi fermare.
"Louis. Ti prego. Resta..." Non mi voltai. Se l'avessi fatto, se l'avessi visto in faccia, se mi fossi scontrato con i suoi occhi supplicanti e bellissimi e innocenti, sarei rimasto. E questo non poteva succedere. Col cuore che batteva come un treno -Harry Styles mi aveva chiamato per nome, senza conoscermi- feci per uscire dalla stanza. Sospirai. E canticchiai una frase di una canzone, una canzone che avevo ascoltato per tutta la notte e quella mattina avevo registrato col mio mixer per dilettanti.
"And i'll look after you." Prima che Harry potesse dirmi altro, corsi via. Speravo solamente che avesse sentito: era per lui, quella canzone.
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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"I'll look after you."*

Quando lo vidi, accovacciato e con la testa tra le gambe, nascosto dietro ai cassoni della spazzatura, non lo riconobbi subito. Non potevo identificarlo, in realtà. Il suo viso mi era precluso; il suo corpo era scosso da singhiozzi, la schiena ricurva vibrava per gli spasmi. I ricci disordinati erano impregnati di polvere e di una sostanza scura e grumosa. Un ragazzino, come tanti. Ma nel momento in cui alzò la faccia dal suo rifugio tra le ginocchia, due occhi verdi e grandi e pieni di lacrime si fecero strada dentro di me, e con un sussulto mi resi conto che quello non era un ragazzino come gli altri.
Harry Styles.
Lui non fece caso a me, forse per il buio, forse perché troppo preso da altri pensieri. Tirò su la manica della giacca fino a che non gli coprì quasi del tutto la mano, poi con essa si strofinò un occhio, tentando di pulirsi, in realtà sporcandosi ancor di più il muso. Fu allora che notai la macchia violastra che gli solcava il viso dalla tempia alla guancia. E il sangue che sgorgava dall'orlo della manica. A irrigidire le sue vesti era sangue, sangue poco meno che fresco. La parte superiore della bocca era sporca di moccio, quella inferiore gonfia e rossissima. La visione di quelle labbra turgide conciate in quel modo, mi fece venire un piccolo capogiro, che mi obbligò ad allungare un braccio verso il muro e sorreggermi su esso. Fu allora che lui mi notò: alzò il viso di scatto, e sul suo volto lampeggiarono velocissime emozioni evidentemente contrastanti.
Salvami tu, Louis.
Portami via da questa merda di mondo, portami via con te.
Vattene. Non ho bisogno di te... Non voglio che tu mi veda in questo stato.
Poi rituffò, imbarazzato, il viso sporco ed emaciato tra le ginocchia, farfugliando qualcosa che non riuscii a capire, e facendomi un segno con la mano come per farmi allontanare.
Feci due passi nella sua direzione, quando gli fui accanto mi inginocchiai e, incurante della sporcizia e del sangue, gli infilai una mano tra i ricci e l'altra sotto il mento, finché non si decise a guardarmi negli occhi. Errore madornale, questo. Vedere quegli occhi verdi gonfi e lucidi per il pianto non fece che smuovere qualcosa nelle mie viscere. Avrei voluto urlare, e ridurre chi lo aveva reso in quel modo nello stesso stato. E non mi seppi controllare, perché mi rivolsi a lui con una violenza che lui non avrebbe meritato.
 
"Chi...?"
 
"Loro."
 
Non c'era bisogno che facesse nomi; sapevamo entrambi chi erano i colpevoli di quello scempio. Harry continuava a piangere, simulando silenzio. Il suo corpo si ribellava a quello sforzo, e tremava attraverso ogni lembo di pelle, singhiozzava in ogni giuntura.
Abbracciami, Louis, almeno tu.
 
"Harry, se ti calmi riesco a portarti all'ospedale." Avrei dovuto tranquillizzarlo, accarezzarlo, dirgli che era tutto finito, proteggerlo. Eppure stavo immobile, fermo nella mia ferrea volontà di non avvicinarlo troppo, di non espormi troppo a colui che era entrato nella mia vita un giorno di maggio ,e dalla quale non sarebbe uscito neanche nella più fredda e uggiosa giornata autunnale.
 
*****
 
Era un pomeriggio normale, quello di quel giorno. Sole già caldo, qualche nuvoletta bianca e spumosa ai lati del cielo. Un ragazzo seduto da solo sotto un grande albero e un gruppo di ragazzoni, tra cui io, a vagare per il giardino, troppo annoiati per fare la solita partita a calcetto. Lo notammo da lontano, e quasi di nascosto cominciammo a scrutare attentamente le sue azioni. Lo vedemmo aprire il suo zainetto, tirarsi fuori un paio di sandwich e un succo di frutta. Prima di richiudere lo zip, si guardò veloce attorno, a controllare che non ci fosse nessuno, e ricacciò una mano in borsa, per poi estrarre, con delicatezza, una coroncina di fiori. Guardandola con amore, sfiorò un fiore bianco con la nocca di un dito, e ne prese uno rosa tra il pollice e l'indice. Fu un secondo: se la posò piano sui ricci, e chiuse per un momento gli occhi.
Non feci in tempo a notare che Stanley non era più nascosto con noi, che già lo vidi catapultarsi sul ragazzino e strappargli di dosso quella delicata coroncina da principessa. Gli altri gli andarono dietro, io fui troppo codardo sia per aiutarli sia per difendere il ragazzo. Non feci assolutamente nulla; mi limitai a guardare come i miei amici lo massacrarono di botte, lo vidi dimenarsi sotto le loro prese forti, lo vidi urlare per i loro duri cazzotti. Lo vidi, e basta. Quando la loro furia cessò, se ne andarono, lasciandolo abbandonato all'ombra di quell'albero. Poi vennero delle ragazzine, lo soccorsero, chiamarono aiuti, lo portarono via. Io lo guardavo, con un groppo in gola e le lacrime trattenute appena. Non feci nulla, oltre ad innamorarmi di lui, e della forza che, celata tra la debolezza, aveva dimostrato. Quando la situazione si calmò, quando il giardino tornò nel silenzio e immerso nel fruscio del vento, corsi verso la coroncina che Stan aveva lanciato a pochi metri dall'albero, la raccolsi e, in un gesto che stupì me stesso per quanto fosse melodrammatico e sdolcinato, la strinsi forte al petto, senza rovinare i fiori che la costituivano.
Senza che io chiedessi niente a nessuno, mi arrivò voce che quel ragazzino -Harry Styles, era il suo nome- era stato ricoverato all'ospedale della cittadina, e il giorno seguente mi ero ritrovato alla reception di quello stesso ospedale, a chiedere informazioni e a pregare che mi dicessero dove si trovava, o almeno come stava. Ma Louis Tomlinson non ha bisogno di nessuno, per fare una cosa che vuole fare. Lo trovai da solo, infatti, in una grande stanza luminosa al settimo piano. Dormiva, quando entrai. Mi avvicinai al letto senza far rumore e, con la capacità razionale completamente annullata, gli sfiorai una guancia emaciata, soffermandomi qualche secondo sul lieve taglio che la solcava. Senza osare togliere gli occhi dal suo viso, con la mano un po' tremante, appoggiai la sua coroncina, la coroncina su cui la notte precedente avevo pianto tutte le mie lacrime, sui suoi ricci. E avrei voluto infilarmi con lui sotto il lenzuolo, in quel momento, avrei voluto riempirgli il muso di baci, e guarire con un semplice tocco delle labbra tutte i tagli sul corpo e con una carezza tutte le ferite del cuore. Invece mi chinai verso il suo orecchio, e beandomi del profumo che avevano i suoi capelli anche se costretti in una stanza d'ospedale,
"Sei bellissimo." gli sussurrai. Scattai verso la porta, ma non feci in tempo a raggiungerla. La sua voce, roca come se non parlasse da ore, mi gelò, facendomi fermare.
"Louis. Ti prego. Resta..." Non mi voltai. Se l'avessi fatto, se l'avessi visto in faccia, se mi fossi scontrato con i suoi occhi supplicanti e bellissimi e innocenti, sarei rimasto. E questo non poteva succedere. Col cuore che batteva come un treno -Harry Styles mi aveva chiamato per nome, senza conoscermi- feci per uscire dalla stanza. Sospirai. E canticchiai una frase di una canzone, una canzone che aveva ascoltato per tutta la notte e quella mattina avevo registrato col mio mixer per dilettanti.
"And i'll look after you." Prima che Harry potesse dirmi altro, corsi via. Speravo solamente che avesse sentito: era per lui, quella canzone.
 
*****
 
Harry Styles continuava a piangere, ed io non facevo nulla per consolarlo, per salvarlo, esattamente come quel lontano pomeriggio. Non riuscivo a capire quello che mi volesse dire, non era in grado di parlare in modo chiaro, di mettere assieme parole di senso compiuto.
 
"No."
 
"Cosa no?"
 
"L-l'ospedale. L'ospedale no."
 
"Ti ci devo portare, per forza..." I braccialetti che portava al polso sinistro erano luridi di sangue, e, dato che erano scesi lungo il braccio, potei notare con orrida chiarezza i tagli che dritti e ordinatissimi gli ornavano il polso. Sangue che macchiava la manica della giacca, che si espandeva lungo il palmo della mano. Sangue che lui stesso portava sul viso, nel tentativo di asciugarsi le lacrime che non era in grado di fermare. E poi quel livido, quello enorme sulla tempia, era contornato da un bordo giallo e portava i segni delle dita che l'avevano procurato.
 
"No, no, l'ospedale no, ti prego..."
 
Ti prego... Ti prego. Le due parole che allora mi avevano fatto scappare, quel giorno mi fecero restare. Questa volta dovevo essere io a salvarlo.
 
"Niente ospedale, allora, Harry Styles." Tutto il suo corpo rispose. Le sue membra per un lunghissimo secondo smisero di tremare, permisero alle mie braccia deboli e mingherline di avvolgerlo nella loro presa volenterosa e di sollevarlo. Premuto contro il mio petto, si richiuse nella posizione fetale che aveva per terra. Non era pesante, ma io di forza per portarlo in braccio fino a casa sua -che ne sapevo io, poi, di dove abitasse?- non ne avevo. Allora affondai il naso tra i suoi ricci e
"Ti porto a casa mia, è tranquilla." gli dissi, cercando di mantenere la calma che non avevo. Lo vidi fare dei movimenti con la testa, pensai che stesse annuendo, quindi, quasi sollevato, presi la strada per casa mia, che era dietro l'angolo, guardandomi attorno furtivo per non incrociare persone con cui non avevo per nulla voglia di intrattenere discorsi. La schiena mi bruciava forte, le braccia non le sentivo più.
Non pensarci, amico. E non pensare al ragazzo che ti sta quasi morendo tra le braccia, portalo in salvo, e basta.
Davanti a casa mia, lo appoggiai per terra contro il muro, mentre cercavo la chiave giusta nel mazzo enorme che mi portavo sempre dietro. Ero così confuso e agitato che ne dovetti provare una decina prima di trovare quella giusta. Mentre impazzavo contro la serratura, continuavo a dire forte il suo nome, per tenerlo sveglio. I suoi segni di vita erano mugolii, singhiozzi e qualche movimento della testa; ma, onestamente, erano sufficienti per farmi pensare che era cosciente e non sarebbe svenuto. Quando trovai la chiave che apriva la porta esultai. Mi girai veloce verso Harry, ancora immobile e abbandonato contro il muro, e solo allora notai che lo avevo messo seduto sull'aiuola che più di tutte mia madre adorava, quella dei geranei bianchi e rosa. Mentre riprendevo in braccio il ragazzino, strappai a caso qualche fiore, ponendone disordinatamente qualcuno tra i suoi ricci.
Harry sanguina e soffre e tu pensi a mettergli i fiori tra i capelli.
Non ci pensai mentre lo facevo, era semplicemente la cosa più giusta da fare, la più naturale. Poi smisi di perdere tempo, e lo portai, quasi trascinandolo, su per le scale, dentro la mia cameretta, sdraiandolo infine sul mio letto ancora sfatto da quella mattina.
 
"Quindi è questa la tua camera." Harry si guardò attorno, ancora tremante, ed io, imprimendo forza sulle sue spalle con le nocche delle dita, lo spinsi di nuovo giù, coricandolo.
 
"Dopo te la faccio vedere, va bene? Ora... Ora ti pulisco. P- posso?" Indicavo i suoi vestiti, le sue ferite. Sentii un va bene di cui sinceramente non avevo bisogno, quindi gli aprii la giaccia e poi la felpa, e gliele sfilai. Appoggiai allora le mani sui suoi fianchi pieni, agganciai la leggera maglietta bianca lurida e gliela tolsi, facendo cadere la maggior parte dei fiori con cui l'avevo ornato sul cuscino. E in quel momento pensai sul serio che sarei svenuto; perché un petto così, un petto distrutto in quella maniera non l'avevo mai visto, neanche nei film. C'era di tutto: lividi appena fatti, certo, ma soprattutto decine -centinaia- di tagli, alcuni quasi rimarginati, altri aperti e sanguinanti. Identici a quelli che aveva sul polso, dritti, razionali. Il suo viso, al confronto, sembrava sano, nonostante l'ampio livido ormai violaceo e le labbra rotte.
Ma che cosa cazzo ti sei fatto, Harry?
Il suo respiro si era regolarizzato, i tremori erano diminuiti. Ma la cosa non mi rassicurò, per nulla.
 
"Sta sveglio, eh Harry? Sta sveglio, per ora."
 
"T-ti sto sporcando il letto."
 
"Non me ne fotte un cazzo, va bene? Un cazzo. Tu sta sveglio, arrivo subito." Corsi in bagno, anche se la forza di correre fisicamente non l'avevo più. Mi misi ad aprire mobiletti e a razziare ciò che di apparentemente utile trovavo; poi lanciai sotto il getto d'acqua del rubinetto qualche asciugamano pulito, lo strizzai come potei e tornai da Harry, che nel frattempo aveva chiuso gli occhi.
 
"Ehy Harry, sono qua, va tutto bene." Premetti più delicatamente che potei un asciugamano sulle sue labbra gonfie, facendogli così aprire gli occhi, per la sorpresa o, più probabilmente per il freddo. Poi passai al braccio sinistro, pulii il sangue che si era raggrumato sulla mano, sui polsi e lungo l'avambraccio, e in alcuni punti non riuscii ad evitare di strofinare con forza, arrossandogli ancor di più alcuni lembi di pelle. Infine mi spostai sul petto. E qui smisi di pensare; semplicemente, con gesti nervosi bagnavo i tagli, assorbendo il sangue in eccesso, e poi li asciugavo con dei pezzi di carta igienica. Non avevo idea se quella fosse la cosa giusta da fare, non ne aveva proprio idea. Ma era l'unica che avevo. Quando pensai di aver finito, lo guardai bene. Mi venne da piangere quando vidi che dai tagli più profondi il sangue aveva ricominciato a fuoriuscire, ma non mi persi d'animo: li ripulii, e uno per uno li chiusi con dei cerotti a farfallina che avevo trovato nell'armadietto del bagno. Non lo guardavo in faccia, ad Harry, mentre con gesti goffi e inesperti avvicinavo i due lembi di pelle e li univo col cerotto; non lo guardavo mentre disinfettavo con l'alcool i graffi più lievi; non lo guardavo mentre tagliavo uno alla volta i braccialetti che portava al polso, mentre incerottavo la ferita più profonda, mentre gli bendavo con una garza la porzione di pelle troppo piena di tagli perché potessi medicarla in modo migliore. Ma quando tornai al viso, i nostri occhi inevitabilmente si scontrarono. Notai che non piangeva più, e allora mi scappò un sospiro fuori dalla gola, uno spasmo che non mi ero neanche accorto di star trattenendo. Finalmente mi rilassai un po', il che mi permise di stendere sul livido vicino all'occhio un po' di crema all'arnica.
Harry seguiva con gli occhi tutti i miei movimenti. Mentre passavo tre dita sul suo viso, mentre cercavo di non pensare a quanto fossero morbide le sue guance, si sforzò per parlare.
 
"T-tu sei meglio di quelle infermiere puttane dell'ospedale." Sentire Harry dire parolacce, era un'esperienza che pensavo non avrei mai vissuto; e avrei preferito non farla, dato il contesto in cui avveniva.
 
"Quelle infermiere puttane -come dici tu- saprebbero cosa fare. Se fossi in pericolo di vita, loro ti salverebbero."
 
"Tu mi hai già salvato, non ho bisogno di loro." Lasciai che quelle parole rimbombassero tra le pareti della camera, creando un silenzio così carico di emozioni e di frasi mancate che pensai non esistesse rumore più forte, di quel silenzio. Una calma innaturale pervadeva ora ogni singolo elemento che ci circondava: fuori dalla finestra il sole era quasi del tutto tramontato, lasciando al suo posto una strana oscurità bluastra; il ticchettio dell'orologio sopra al letto batteva un secondo ogni dieci secondi; e il suo respiro, esageratamente velocizzato, era regolare tanto da far male, dato che contrastava con la situazione per nulla usuale in cui si trovava.
Continuavo ad accarezzargli il viso, con la scusa che la crema doveva essere spalmata bene affinché potesse avere effetto. Lui, in questo, mi aiutava: muoveva il viso in modo da seguire i miei movimenti, porgendomi la parte che voleva essere medicata, accarezzata. Più di ogni altra cosa, le mie mani sul suo viso sembravano essere la cura ideale ad ogni suo male. Più le mie dita prendevano familiarità con la sua pelle, più lui appariva visibilmente appagato, e mi ricompensava con versi bassi e dolcissimi che più che gemiti sembravano fusa.
Abbraccialo, fagli capire che ci sei, adesso.
 
"Non ti ho mai salvato, io. Come non ti ho salvato quella volta, non ti ho salvato neppure oggi. Salvarti vorrebbe dire evitare che qualcuno ti faccia del male. Ed io questo non l'ho mai fatto, ho guardato mentre ti facevano scontrare con la morte senza muovere un solo fottutissimo dito." La verità indissolubile che le mie stesse parole avevano evocato mi penetrò con tutta la forza della consapevolezza. L'avevo quasi visto morire, la prima volta, e l'avevo lasciato morire. Quel giorno avrei potuto avere la mia rivincita, avevo avuto la possibilità di rimediare, e invece quel pomeriggio non ero uscito con Stanley e gli altri, non ero con loro mentre decidevano di aizzarsi nuovamente contro quel frocio di merda di Harry Styles. Se ci fossi stato, l'avrei difeso, questa volta. Eppure, di nuovo, lui era da solo, senza di me, contro quei luridi stronzi che avevo sempre considerato degli amici. Solo, come era sempre e non meritava di essere.
Dovrei esserci io con te, eppure, ecco, io non ci sono mai.
 
"Louis, non sai nulla, tu. Mi hai salvato, non vedi? mi stai salvando. È già più di quel che mi merito."
 
"Tu meriti di più, invece. Molto di più." Mi pulii la mano sporca di arnica sul lenzuolo del letto, mentre con l'altra iniziai a sfiorare i suoi fianchi nudi, seguendo con i polpastrelli i segni dei tagli. Avrei voluto agganciare con forza la pelle di quella zona, stringerla con entrambe le mani e affogare nella sua morbidezza. E l'istinto, in quella frazione di secondo, sembrò sovrastare la razionalità, e mi ritrovai realmente ancorato ai suoi pieni fianchi, lasciando i segni delle dita sulla sua pelle già distrutta. Poi tornai in me, e mollai la presa. Ma lo spavento continuò.
Dovresti proteggerlo, non saltargli addosso.
Perché, in effetti, se avessi spento il cervello, mi sarei ritrovato a fargli io stesso del male. Mi sarei ritrovato a provocargli io stesso dei graffi, dei lividi sui bicipiti. Mi sarei ritrovato con i miei stessi denti conficcati dentro le sue carni, sulla spalla bianca, sul collo debole, sotto la clavicola. Mi sarei ritrovato a rovesciarlo a pancia in giù, strattonandolo con violenza, a togliergli anche i jeans, a spezzarlo in due sotto la forza del mio corpo, preda di un desiderio pulsante e naturale e così fottutamente egoista. Iniziai a respirare quasi come in preda ad un attacco d'asma. Nella mia testa riuscivo già a vedere tutta la scena, già immaginavo cosa avrei provato, il piacere che il penetrarlo mi avrebbe procurato. Quasi venni al solo pensiero.
Ma poi Harry cercò i miei occhi, sbattendo i suoi un paio di volte, arricciandoli un poco e facendosi venire delle meravigliose rughette. E le labbra si piegarono, quasi impercettibilmente, all'insù, abbastanza affinché le guanciotte gli si piegassero a formare due incredibili fossette. E questa volta non mi ritrovai sul punto di venire, bensì sull'orlo del pianto, perché mai, in tutta la mia inutile esistenza, avevo avuto il bisogno così impellente di slanciarmi su una persona e abbracciarla, abbracciarla veramente, farle scudo col mio corpo contro tutto e chiunque. Sentivo che se l'avessi chiuso nella morsa delle mie braccia, sarebbe andato tutto bene, se avessi spalancato i palmi delle mie mani aderenti lungo la sua schiena ogni nostro problema sarebbe scomparso, e se avessi posato le mie labbra sulle sue martoriate, se mi fossi accollato il peso del loro gonfiore, forse così, solo così, avrei iniziato a pensare di averlo salvato, in qualche strano eppure tangibile modo.
Vuoi sentire i suoi gemiti ansanti per l'orgasmo e vedere quante lacrime puoi provocargli violando il suo corpo, o vuoi sentire la sua risata roca e vedere quel suo cazzo di sorriso che è l'unica cosa bella a questo schifo di mondo?
Smettere di vivere di respiri, e imparare a respirare sorrisi, i suoi sorrisi, questa era l'unica cosa che volevo dalla vita. Io non volevo essere il suo carnefice, ma l'artefice di quello che di bello lui aveva da donare al mondo, per me. Andare in giro a urlare, come il pazzo visionario di Nietzsche, accusando le persone di aver ucciso, non Dio, bensì quel sorriso che unico al mondo era in grado di illuminare chi lo stava ad osservare. E ridere, tra le urla, perché io, solo io, ero stato capace di farlo tornare, quel sorriso, che non era veramente morto, semplicemente loro non erano degni di vederlo e godere della sua luce, e si era eclissato. Essere preso per pazzo, certo; e fottersene, ovviamente, perché alla fine è la purezza, la verginità, l'innocenza di sorrisi come i suoi che portano alla vera salvezza, alla redenzione dell'anima.
Quanto ti amo, Harry Styles, non posso neanche esprimerlo, a parole. Ma averlo pensato, per adesso questo mi bastava; sapere di amarlo, aver smesso di negarlo a me stesso, era sufficiente a placare istinti di altro genere che mi divoravano il petto dall'interno. Ora, consapevole di quello che poteva significare, iniziai ad accarezzargli il petto, tracciando disegni immaginari grazie ai tagli che insieme componevano figure perfette e fantastiche.
 
"Mi stai dicendo che io merito più di... Questo?" La testa rivolta verso il suo busto, ipnotizzata dalle mie mani sul suo corpo. Il respiro, rotto per l'emozione, la voce, impastata, bassissima. Tutto fece presa su di me, tutto mi spronò a continuare.
 
"No, ho solo detto che tu non meriti... queste. Non meriti il sangue, e neanche il dolore." Tanto le ferite aperte quanto le cicatrici mi facevano venire da piangere. Il pensiero che fosse lui stesso a conficcarsi nella pelle qualcosa che lo facesse sanguinare era insopportabile, ma non trovavo altre spiegazioni per quei tagli così ordinati, così diabolicamente perfetti. Nessun aguzzino la avrebbe mai conciato in quel modo; che Stanley lo avesse preso a pugni, causandogli il livido sulla faccia e le contusioni sulla parte alta del busto, di questo ero sicuro; che i ragazzi lo avessero schiacciato contro il muro facendogli mordere a sangue le labbra, anche di questo ero altrettanto certo. Ma non era possibile che qualcuno lo avesse spogliato -qualcuno doveva solo pensare di spogliarlo, lo avrei ucciso- e lo avesse inciso con una lametta in quel modo. E poi c'erano tagli risalenti a tempi diversi, tutti causati dalla stessa mano, e nessuno sul suo braccio destro. Harry non era mancino, e i braccialetti, una ventina di braccialetti agganciati sul polso sinistro, a nasconderlo sapientemente, confermavano i miei dubbi.
 
"Ti fanno schifo, si vede. Hai ragione, faccio schifo." Corsi con la mano al suo mento, sollevandoglielo e portando i suoi occhi di nuovo lucidi a incrociare i miei.
 
"No, Harry. Sei bellissimo." Entrambi sapevamo che quella frase l'avevamo già sentita, ma continuai
 
"Sei bellissimo, Harry Styles. Vorrei solo sapere, vorrei capire, perché te li fai, perché ti... Tagli, perché, per quanto mi sforzi, non riesco a trovare un cazzo di motivo che ti possa spingere a farlo." Forse fui troppo violento; probabilmente la mia schiettezza lo spiazzò, fatto sta che le lacrime ripresero ad uscire copiose dai suoi grandi occhi, scorrendogli lungo le guance e innaffiando i fiori rosa e bianchi che ancora giacevano ai lati della sua testa, sparsi sul guanciale.
 
"Non trovi un motivo? Te lo dico io, il motivo. Tu non hai idea di cosa sia la solitudine, cosa significhi essere schifato e isolato dai tuoi coetanei solo perché, bhè, perché sei innamorato. Non hai idea del dolore, dell'assurdo vuoto al petto che ti viene quando la gente ti ride sia dietro alle spalle sia davanti alla faccia, ti ride addosso e ti spintona e ti chiama frocio di merda e ti augura la morte, e tu sì, magari non muori veramente, ma dentro sei morto, perché se non sei nulla agli occhi degli altri, allora ti convinci della tua non-esistenza, allora non esisti." Nonostante il pianto, nonostante i singhiozzi che ormai rendevano sconnesse tutte le sue azioni, le sue parole erano più chiare che mai, erano frecce scagliate con estenuante precisione in direzione della mia coscienza.
 
"Harry, io capisco, ma..."
 
"Non che non capisci! Lo sai quando ho iniziato? Vuoi saperlo? Te lo racconto. La prima volta è stata la sera stessa che sono ritornato dall'ospedale. Prima di allora non ci avevo mai neanche pensato, sai? Non ne avevo bisogno. Perché, prima di quel giorno, nella mia ingenuità mi consideravo felice, pensavo che quello che avevo mi poteva bastare. Ed era così, alla fine. A me bastava venire sotto questa casa, tutti i pomeriggi, e allungare un po' il collo, giusto per vedere se c'eri, per sentire che musica stessi ascoltando, controllare che tutto fosse normale, almeno in questa famiglia. Stavo qualche minuto davanti all'ingresso, pensando ad una scusa plausibile per poter bussare alla tua porta, e chiedere di te, ma ogni maledettissima volta pensavo 'ehy, Louis non sa neanche chi sei, vuoi presentarti anche a lui come il solito sfigato che entra in una casa sconosciuta con la scusa che ha il telefono scarico? Pensavo ad ogni genere di giustificazione, ma alla fine non avevo il coraggio di fare nulla, e mi ritrovavo ogni volta a chinarmi velocemente sulle aiuole ai lati della porta, per strappare qualche fiore, qualcuno di questi geranei rosa e bianchi, da portarmi a casa, e sentirti vicino anche se eri la persona più lontana di questo universo. E la notte intrecciavo tutti i fiori che avevo portato via quel giorno, i tuoi fiori, e mi facevo delle coroncine, che avrebbero dovuto farmi sentire ancora più sfigato e strano e femmina, ma in realtà mi facevano solo sentire bene, sentire bello. Insomma, ero felice; felice a modo mio, ma lo ero. E volevo avere la felicità sempre vicina, a portata di mano; per questo un giorno misi l'ultima coroncina che avevo fatto dentro lo zainetto del pranzo; ed è per questo che quel giorno capii che la felicità, se ce l'hai, la devi nascondere, la devi vivere da solo, nella segretezza della tua camera avvolta nel buio, perché se gli altri la vedono, te la portano via. Me la strapparono di mano, la mia felicità, e per ricompensarmi della mia perdita mi somministrarono una bella dose di botte, e di insulti. M-ma questo lo sai, lo sai benissimo. Come sai che quando venni a trovarmi, in quella stanza d'ospedale, me la riportasti, la mia felicità. Ma non era più la coroncina, non erano più dei maledettissimi fiori, oh no, eri tu. Eri venuto, e quando aprendo gli occhi ti vidi così vicino pensai che non me ne ero accorto, ma ero morto. Perché non era possibile che tu mi avessi messo i fiori tra i capelli e mi stessi dicendo l'unica cosa che volevo sentirmi dire, la cosa per cui mi ostinavo a fare quelle fottute coroncine. Sei bellissimo. Volevo che me lo ripetessi all'infinito, eppure tu te ne andasti, ma ricordi, no? mi dissi che mi avresti protetto, che ti saresti preso cura di me. And i'll look after you, mi cantasti. Cos'altro ti dovrei dire, ora? Che altro dovrei dirti, oltre che da quel momento iniziai a sentirmi forte, a sentirmi invincibile? Tu mi avevi detto che c'eri, sapevi che io esistevo. Appena tornato a casa, con la coroncina che mi avevi riportato sui capelli, mi feci il primo taglio, questo sul polso. Era la giusta punizione per non averti convinto a restare, o almeno a ritornare. Mi dovevo punire, il dolore fisico mi sembrava giusto. Anche perché, in realtà, non rischiavo nulla; mi avresti protetto tu, così avevi detto. Iniziai così; e ogni taglio, ogni goccia di sangue che sgorgava da esso, mi ricordava un errore che avevo scommesso. Io merito ogni singola ferita che mi sono procurato: vedi? questa è per aver avuto paura ad avvicinarti, alla mensa; questa è per aver mangiato troppo alle festa dell'estate; questa è per aver avuto pensieri sporchi, pensieri sbagliati, nel vederti a petto nudo alla fine della partita conclusiva del campionato; questa è per quella volta che ho pensato che forse mi avevi mentito, e non ti facevi vedere, non mi venivi a cercare, perché in realtà non mi stavi proteggendo. Le altre, tutte queste, sono perché sono uno sfigato e sono brutto e sono grasso e sono gay e sono inutile ed insignificante. Tutte mi ricordano quanto sia sbagliato. Tutte mi ricordano che, se tu non sei con me, è perché io, al tuo confronto, non sono nulla.”
 
Harry Styles non era adatto per vivere in un mondo come il nostro.
Il problema, nella nostra società, è che le persone perfette vengono scambiate per persone strane, anormali, disagiate. Harry veniva deriso, Harry veniva picchiato, Harry veniva isolato perché mi amava, e per quanto io la trovassi una cosa inconcepibile, lo capivo. Capivo che il suo amore, il suo amore per me, lo avrebbe portato ad una sorta di pazzia, perché un amore così grande, in natura, non può convivere con la normalità, e quel suo stesso amore lo avrebbe condotto nei recessi della civiltà, nei suoi meandri più nascosti. E la cosa più bizzarra che mi capitò in quel momento fu avere la conferma, che anche io lo amavo. Certo, mi dicevo, altrimenti perché non lo assalisti allora con i tuoi amici, e non volli più avere nulla a che fare con lui, e perché stai cercando di salvarlo, di proteggerlo, di tenerlo legato a te?
Ovvio, lo amavo. Eppure, questa non era una consolazione; non lo era per nulla.
Io lo amavo di un amore normale, di quello che spinge le persone a vedersi al cinema, di quello che le porta a fare sesso di nascosto, sui sedili posteriori di una macchina, di quello che le convince a sposarsi e ad avere figli e a litigare e spesso a divorziare. Il mio amore per lui, un amore normale, uno di quegli amori che mai nessuno ricorderebbe come particolarmente toccante. Il mio amore per lui, un amore insignificante.
Ma lui, ma quello che lui provava per me, di normale non aveva nulla.
Era adatto a un film, quei film che danno in televisione il pomeriggio e che fanno piangere le donne.
Era adatto a un libro, uno di quelli che rimangono nella storia, fanno venire i brividi a intere generazioni e restano nell’immaginario collettivo per secoli.
Andava anche bene per una canzone, in fondo le canzoni raccontano delle storie che tutti possono immaginare e nessuno vive sulla propria pelle.
E il suo amore, un sentimento nato per caso, grazie ad un banale incrocio in un corridoio, o ad uno scambio di sguardi a mensa, un sentimento cresciuto col tempo, innaffiato della miglior dedizione, sviluppatosi tra fiori rose e bianchi e tra note musicali ascoltate di nascosto, era qualcosa di prezioso, una piccola gemma di divino calata nell’universo. Il suo amore non era che un mistero, quasi del calibro della fede in dio, quasi come il funzionamento del mondo.
Io non ero mai stato un filosofo, non mi ero mai seduto sotto al cielo stellato per riflettere dei grandi problemi esistenziali dell’uomo. Avevo studiato filosofia a scuola, un susseguirsi amorfo di pensatori, sillogismi, ragionamenti e riflessioni, ma non mi ero mai espresso al riguardo, semplicemente pensavo che c’erano persone, forse più profonde di me, che erano più portate a interrogarsi e a cercare di capire quale fosse il senso stesso della vita. Insomma, ero uno studente liceale, cercavo semplicemente di imparare la lezione spiegata dal professore distratto di turno.
Tuttavia era ovvio che qualcuno di questi filosofi mi avesse colpito più di altri, che qualcuno avesse destato anche nella mia mente un po’ superficiale un qualche tipo di domanda.
Schopenhauer, ad esempio, non mi era stato del tutto indifferente, con quel suo pessimismo cosmico che sembrava dover cogliere anche la più insignificante foglia autunnale, anche il più inutile granello di sabbia. Quella sua concezione dell’amore, poi, aveva fatto breccia nella mia coscienza. L’amore come mero strumento della natura per far progredire la specie, l’amore che serve solo per procreare.
Non che fossi d’accordo. Però come ideologia si avvicinava troppo alla teoria di Darwin, e per chi credeva fermamente della razionalità scientifica, come me, Darwin era paragonabile a dio e la sua teoria sull’evoluzione della specie ad una sorta di bibbia.
Insomma, mettendola nero su bianco, perché un uomo e una donna si innamorano?
Per fare sesso. Per avere dei bambini che a loro volte ne avranno di loro.
Non che fosse tutto così facile. In fondo, le domande non si presentano mai isolate, sono disposte a grappolo, una ne fa nascere un’altra, la prima è il presupposto della seguente.
Ma perché un uomo sceglie una determinata donna, e una donna un determinato uomo?
Il signor Darwin non avrebbe avuto dubbi, al riguardo: è sempre questione di sopravvivenza, si copula con la persona più forte, la più sana, quella che permetterà di avere una prole in buona salute, pronta alla vita. Darwin aveva capito benissimo qual’è il fulcro centrale del funzionamento dell’intero universo: l’egoismo. La donna che sceglie l’uomo più potente, quello che la potrà difendere, è egoista; l’uomo che fa sua la donna più formosa, la più adeguata a procreare, è egoista; anche i bambini sono egoisti, vogliono la madre che ha più latte e il padre più disposto a proteggerli.
Avevo sempre pensato che questo tipo di egoismo fosse giusto, naturale, sano.
Però prima di quel pomeriggio non avevo conosciuto Harry Styles. Ed Harry Styles era un mistero. Quello stranissimo sentimento che per comodità entrambi definivamo come amore era una perla di straordinaria particolarità posta nel mondo per confondere gli animi, per far crollare ogni credenza. Perché il suo amore, di egoista, non aveva assolutamente nulla. Era completamente proiettato ad una felicità che neanche riusciva a definirsi, una felicità spumosa, senza contorni, non astratta ma intangibile, reale ma complicata. Lui mi amava senza chiedere nulla in cambio. Lui mi amava pur sapendo che non c’era alcuna utilità in quello che lui sentiva e provava, sapendo che non sarebbe servito a nulla fare l’amore con me. Lui mi amava in un modo contemporaneamente semplice e potente, in un modo assurdo, ma assurdamente dolce.
Forse è una maledizione, tutto questo. Ma se tu sei maledetto, Harry, lo voglio essere con te.
Aveva smesso di parlare da un bel po’, e da un po’ meno gli era scesa l’ultima lacrima.
Tuttavia non aveva finito. Glielo leggevo negli occhi, che non voleva che quella storia, la sua storia, si concludesse in quella maniera. E proprio guardandolo negli occhi, immergendomi nei suoi due pozzi stagnanti, pesanti e luminosi, capii qual’era il giusto epilogo alle sue frustrazioni, al suo dolore, alla sua inconscia perseveranza e all’enormità di quello che provava per me.
Lo baciai. Coprii velocemente lo spazio tra di noi avventandomi sul suo labbro inferiore, facendo mia quella sua bocca che subito mi riconobbe e rispose.
Rispose con bisogno, come se avesse paura di illudersi, come se già prevedesse la fine di tutto quello.
Rispose con tremore, inesperta come solo le bocche vergini possono essere, dolce come solo quelle pure decidono di essere.
E rispose anche con un sospiro. Perché per tutta la vita tratteniamo sospiri, per paura che questi diventino tremori e i tremori si trasformino in spasmi, ma gli spasmi sono rumorosi e tutti possono sentirli, e quindi per paura che qualcuno ci possa sentire, tratteniamo sospiri tra la gola e la lingua, stando in silenzio. Lui sospirò, liberandosi inconsapevolmente di un peso enorme, quello dell’inadeguatezza.
Perché lui, sotto di me, con il suo viso a contatto con il mio, ad assaporare le mie labbra e a respirare il mio respiro, era a casa.
Si dice che casa è dove si lascia il cuore, e io non avrei mai voluto che mi lasciasse il cuore, quel suo cuore pulsante e particolare.
Lui, con me, era a casa perché solo a casa, teoricamente, si può essere se stessi, ci si può esprimere liberamente.
Ecco. Lui, solo con me, non doveva fingere; non doveva fingere di essere attratto dalle ragazze, non doveva fingere di essere freddo; con me lui perdeva la maschera e rimaneva nudo, nudo e zeppo di anima, l’anima che per motivi intrinseci a se stessa aveva scelto la mia. Non doveva far finta di non amarmi, non avrebbe avuto senso.
Ricambiò il bacio e se inizialmente trasudava insicurezza da ogni minimo movimento, dopo poco tempo capii che le sue labbra erano state fatte apposta per baciare, succhiare, tirare, assaporare, le mie.
Non dovresti fare nulla, nella tua vita, Harry, nient’altro che questo.
Quando provai ad allontanarmi, la fisica dei poli opposti non me lo permise: il suo viso seguì la traiettoria del mio, proprio come una calamita, finché di nuovo la distanza fu coperta e i poli annullati.
Sei un piccolo universo in miniatura, Harry. Un universo che ha bisogni di aiuto, di cure, di piccoli vizi per crescere. Un universo che può, che deve inglobare il mio, per divenire un’unica cosa.
Mi staccai definitivamente, rendendomi conto all’improvviso del buio che ormai penetrava dalla finestra lasciando la camera inondata da una semi oscurità bluastra. Ebbi l’impressione che Harry si fosse offeso, poiché teneva il viso basso, il mento premuto sul collo, mentre i ricci disordinati e ancora grumosi di sangue, intrecciati con alcuni petali, mi nascondevano i suoi occhi. Gli lasciai un bacio sui capelli, leggero. Poi mi alzai e andai ad accendere la luce, euforico come non ero da tempo, forse come non ero stato mai.
 
“Harry, ora come stai? Ti va adesso di vedere un medico?”  dissi con entusiasmo, entusiasmo immediatamente smorzato dalla sua occhiata stralunata.
 
“Non voglio nessun medico. Come potrei spiegare tutto questo?”
 
“Gli puoi dire la verità, cioè che dei ragazzi ti hanno picchiato.”
 
“Non intendevo questo. Volevo dire come spiego tutti questi…tagli.”
 
“Oh.” Lo guardai e ovviamente mi resi conto che aveva ragione.
Stupido, stupido Louis, quanta poca sensibilità che hai. Lo sguardo mi ricadde sul suo petto, e poi fluì con uno scatto alla pancia, ai fianchi, dove i segni erano più profondi, dove piccole cicatrici bianche si intrecciavano con naturalezza a tagli rossi e quasi grondanti di sangue. Mi chiedevo come risolvere quel problema. Anzi, mi chiedevo come poter risolvere quell’intera situazione, perché, onestamente, avevo veramente molta difficoltà a pensare razionalmente dopo quel bacio, il sapore delle sue labbra ancora ad inebriarmi i sensi mi impediva di arrivare ad elaborare una soluzione.
La mente umana procede per gradi. Ogni vita, anche la più minuscola, è come una costruzione di lego, fatta di bisogni su bisogni, alla cui base ci sono le necessità più impellenti, poi via via i bisogni divengono meno legati alla sopravvivenza ma ugualmente necessari. E quello che al momento ti preme di più ti sembra il più necessario di tutti.
Mentre baciavo Harry pensavo che quel bacio fosse l’unica cosa che avevo bisogno per vivere, per andare avanti. Lo consideravo la chiave giusta che mi permettesse l’accesso alla felicità. Solo più tardi, con il senno di poi, mi resi conto di quanto l’uomo non faccia che illudersi, di quanto esso pensi di poter risolvere la sua vita in un sorriso, in un cenno della testa, in un bacio.
E adesso?
Lo guardai, di nuovo. Lui sarebbe potuto bastarmi? Poteva racchiudere in sé tutto ciò di cui io avevo bisogno, dall’aria necessaria per respirare alla risata che mi serviva per sopravvivere a questo schifo di mondo?
E poi lui iniziò a canticchiare. Aveva una voce che era l’esatto opposto della mia, bassa, roca, sexy, ma intonava una canzone che la mia, di voce, conosceva bene.
Oh oh oh, oh oh oh, be my babe, and I’ll look after you.
Non sarebbe stato facile, questo lo dovevo ammettere. Non tutti l’avrebbero accettato, alcuni ci avrebbero deriso, umiliato, magari avrebbero picchiato anche me. Tanti non avrebbero capito, questo era sicuro.
Eppure non ebbi dubbi, quando lo zittii andando a riprendere possesso di quelle labbra rossissime. Non ebbi dubbi del fatto che lo amavo anche io, avrei imparato ad amarlo come lui, con il tempo, aveva imparato ad amare me. Non c’era bisogno che lui fosse perfetto, che fosse la mia anima gemella. Mi bastava sapere che era un’anima affine alla mia, affine e nello stesso tempo complementare, non negli interessi, bensì nell’affetto.
 
“Harry, ti prometto una cosa.” Gli bisbigliai sulla bocca. Non gli avrei promesso che lo avrei amato per sempre, avevo appena iniziato ad amarlo, ma non potevo sapere quando questo fuoco che mi bruciava tra il petto e la gola avrebbe smesso di incendiarmi. Non gli avrei promesso che non lo avrei mai ferito, che non mi sarebbe mai capitato di fargli del male, perché anche l’uomo più buono del mondo vive scatti d’ira incontrollabili. Non gli avrei neanche promesso che sarei stato con lui fino alla morte, sarei stato troppo melenso e finto.
 
“Ti giuro che ti proteggerò, tu mi hai affidato la tua vita e io ne avrò cura come se fosse la mia. Non devi più tagliarti, sono io la causa dei tuoi tagli, sarò anche la loro cura. Non devi più aver paura di quei ragazzi, ti picchiavano perché sapevano che eri…innamorato di me, ora picchieranno me perché io lo sono di te. Non devi più spiarmi dal giardino, non devi più rubarmi fiori dalle aiuole, te li regalerò io, ti sommergerò di fiori fino a che il loro profumo non sarà parte della tua stessa essenza. Non sono e non posso essere un supereroe, ma sai una cosa? posso provare a esserlo lo stesso, per te. Posso salvarti.” Era stupido essere così melenso, eppure era bello promettergli tutto ciò che potevo mantenere, tutto ciò che avrei potuto realmente fare. A cosa serve promettere la luna, quando puoi avere a disposizione tutto il cielo stellato da guardare con la persona che ami?
 
“E tu, Louis, la vuoi sapere un’altra cosa? Ad un certo punto tu non mi potrai salvare più; e a quel punto saprò che dovrò essere io a salvare te.”
Harry Styles aveva trovato la risposta giusta all’enigma che era la vita stessa.
Nessuno può farcela da solo. Lui non ce l’aveva fatta, l’aveva provato sulla sua stessa pelle. Ma poteva farcela, con me a sostenerlo. L’avrei sorretto io, ma con lui al mio fianco a mantenermi dritto, a mantenermi fermo.
Forse sta tutta qua, in fondo, la ricetta per portare avanti una vita degna di essere considerata tale. Forse sta tutto nel capire che colui ha bisogno di te, è la persona di cui anche tu necessiti. E degli occhi verdi come non mai di Harry Styles, mentre mi guardavano ammirati, emozionati, stupiti ed innamorati, questo lo posso giurare, avrei sempre avuto bisogno.







Buonasera, lettore paziente e probabilmente assonnato dopo quattordici pagine di una storia assolutamente non-sense.
Innanzitutto mi scuso per la lunghezza della os, avrei dovuto o abbreviarla o spezzarla in due parti, ma ormai è strutturata così e mi sarebbe difficile un qualsiasi tipo di modifica.
In secondo luogo, le prime dieci pagine le ho scritte tra la fine della scuola e le prove scritte della maturità, quindi mi rendo conto da sola che hanno un determinato stile e sono decisamente diverse dalle ultime, che invece ho scritto stanotte.
E in terzo luogo, sono pienamente consapevole del degrado con cui questa storia finisce. Essenzialmente perché non finisce. Rimane tutto aperto, tutto ancora da vivere. Eppure ho voluto concluderla, e concluderla in questa maniera, perché non volevo risolvere completamente la situazione come, effettivamente, succede nella vita vera, dove niente finisce veramente, dove non tutto trova una risoluzione. Forse darà fastidio un finale del genere, forse mi odierete o forse ne sarete completamente indifferenti.
Vorrei solo sapere cosa ne pensate, io tra queste righe ci ho speso molto tempo e soprattutto tanto, tanto impegno. Fatevi sentire, ve ne sarò eternamente grata. Detto questo, pace, amore e Larry a tutti quanti :)

*sono abbastanza sicura che la conosciate tutti quanti, ad ogni modo, "Look after you" (link al video lyrics 
http://www.youtube.com/watch?v=Vl7spqkXgpY) dei The Fray, è una di quelle canzoni da conoscere perché è veramente stupenda. Probabilmente conoscerete la versione di Louis, meravigliosa anch'essa, una cover, direi, notevole.
 
   
 
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