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Autore: Aura    18/09/2013    1 recensioni
Diana cambia città, trasferendosi in un posto dove l'unica persona che conosce è Michele, un tempo suo mentore ma ora praticamente un estraneo, dopo dieci anni in cui non si sono né visti né sentiti. E quando lo rivede capisce che quello che prova è ben più della nostalgia di un'amicizia: ma Michele è anche il suo nuovo capo, e il ricordo del loro passato è troppo bello, così l'unica cosa sensata da fare è cercare di soffocare quel sentimento nascente.
Riprenderà in mano le bottiglie e ricomincerà a fare la barista, lasciando che Michele ancora una volta torni ad essere il suo mentore; lei dovrà solo preoccuparsi di tenere a bada i pensieri che hanno iniziato a tormentarla.
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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daiquiri        










L'aveva accompagnata Michele quella mattina a Vicenza, a firmare l'aumento di livello: le avevano proposto di affiancarlo, diventando di fatto la vice responsabile.
- Come mai mi perdi sulla mania di controllo? Non sei più il super uomo che vuole avere tutto il potere nelle sue mani? - gli aveva finalmente chiesto mentre lui stava guidando, dopo qualche giorno che quella domanda le frullava nella testa. Aveva semplicemente paura che la sua risposta fosse qualcosa di simile a “sai, è la mia ragazza, non la vedo mai”.
- Magari sto diventando un vecchietto. - la prese in giro, senza di fatto rispondere.
- Dai, Michi, non fare lo stupido!
- Allora, punto primo: io ho comunque tutto il potere nelle mie mani. Punto secondo: il capo vuole ingrandirsi, e fare un estivo con i contro coglioni, una mano non mi farà schifo. E punto terzo: se sono il tuo mentore è ora che ti insegni un po' come si manda avanti la baracca.

Che il capo si fidasse ciecamente di lui l'aveva sempre sospettato, dal momento che se ne era sempre stato buono buono a Vicenza, non era mai andato al Daiquiri a interferire; ma quando li vide insieme fu solo più lampante. Continuava a parlargli e a chiedergli la sua opinione su un mucchio di cose, e Michele, con quel suo atteggiamento un po' da “ma non starmi troppo addosso”, lo indirizzava su quella che per lui era la scelta migliore.
Quando poi Michele si era allontanato, le aveva detto che era stato lui a insistere per darle la promozione, e se Michele insisteva tanto voleva dire che ne valeva la pena, così lui le aveva fatto preparare il rinnovo del contratto.
Diana non poté fare altro che scuotere la testa: a lei diceva le cose con il contagocce e poi addirittura insisteva per promuoverla.
Però le faceva piacere, quel suo occuparsi di lei; se solo avesse iniziato a guardarla in maniera diversa...
Fermò il flusso dei suoi pensieri, che la portavano sempre allo stesso punto, e firmò il contratto, ringraziandolo.

- Andiamo a festeggiare. - le aveva detto Michele, mentre risalivano in macchina. Era il giorno di chiusura del Daiquiri, e si sarebbero potuti fermare a mangiare qualcosa fuori senza il pensiero del lavoro; sarebbe davvero potuta diventare una bella serata, se poi non fosse successo il peggio.
Il ristorante era in un paesino sperduto poco prima di Padova, non faceva più tanto freddo così vennero sistemati sulla piccola terrazzina coperta, con vista sulle colline.
Forse era stata l'atmosfera, forse era stato il Valpolicella, ma Diana sentiva chiaramente che il sorriso le si stava inclinando verso di più verso il basso, e non c'era niente che potesse raddrizzarlo.
- Alla promozione e ai tuoi tre mesi a Padova. - brindò Michele, quando portarono il dolce.
Diana spinse di malavoglia il calice contro il suo, e si concentrò con grande impegno sulla sua millefoglie, cercando di dominare il suo cuore e il suo stomaco che le stavano irrimediabilmente rovinando la serata. Perché era una bella serata, peccato che lei lo guardava, lo ascoltava, e quell'atmosfera da serata romantica la spingeva a rodersi, rimpiangendo quello che non aveva. Doveva essere davvero una terribile persona, si diceva, a comportarsi così, ma non poteva farci niente: Michele la prendeva ancora una volta per mano, per farla crescere, ma lei non avrebbe voluto altro che si accorgesse di lei davvero, che l'amasse.
E invece chissà come aveva scoperto quel ristorante, chissà chi ci aveva portato: le aveva viste ancora, le sue amiche, quando erano andate a trovarlo al Daiquiri, e a volte capitava che la sera di chiusura lui uscisse. Poteva, anzi, doveva farlo: non era di sua proprietà, ma se non la invitava probabilmente era perché sarebbe stata il terzo incomodo nei suoi appuntamenti. Ma allora perché non le diceva niente? Gli aveva offerto migliaia di occasioni per farsi dire che era impegnato, ma lui sembrava che non le cogliesse.
- Cos'hai? - le chiese, riscuotendola dai suoi pensieri.
Diana gli fece un sorriso forzato.
- Beh, a volte tu sei strano, e io ti sopporto: potresti fare lo stesso con me.
Si appoggiò allo schienale posando la forchetta, rinunciando alla battaglia con il dolce, e lui la imitò.
- Io non faccio il musone quando si festeggia.
- Ti prego, - disse con il suo miglior tono sarcastico, - non dirmi che sono una musona. Andiamo, pago io: in fondo è la mia promozione che stiamo festeggiando.
Sembrava innervosito da quel suo atteggiamento, ma non fece commenti.
Durante il ritorno Diana guardò fuori dal finestrino tutto il tempo, grata per il buio che nascondeva le sue lacrime. Forse aveva bevuto troppo vino.
Michele rimase in silenzio per tutto il viaggio, e non disse una parola fino a che furono in ascensore, dove le luci illuminarono gli occhi rossi di Diana.
- Senti, si può sapere che cos'hai?
- No. - rimbalzò, secca.
Lui sospirò, sembrava non voler cedere, come lei, d'altronde. Così evidentemente pensò che se lo sarebbe fatto dire per sfinimento, perché la seguì in casa, e sulle prime Diana lo ignorò, comportandosi come se non ci fosse.
Si tolse la giacca e la mise a posto nel guardaroba, andò in bagno a rinfrescarsi il viso e a cancellare le tracce delle lacrime, poi quando tornò in cucina, vedendolo ancora lì, in piedi, si innervosì.
- Non ti viene il dubbio che preferirei stare da sola, magari? Non hai niente di meglio da fare, stasera? Non hai qualcuno che ti aspetta?
- Non riesco a capire che cosa ti è preso, tutto d'un tratto.
Diana si mise davanti a lui.
- Non è colpa tua, tranquillo, è colpa mia: sono io che voglio cose da te che non puoi darmi.
Il volto di Michele si oscurò, di colpo.
- Stai troppo con me: non è sano.
Lei spalancò le braccia.
- Non è mai stato sano tra me e te. - disse platealmente. - Io e te, sempre solo io e te: ma cosa vuol dire “sano”? Io sono sempre stata bene insieme a te, non è questo che conta? Se c'è qualcosa che non è sano, forse è colpa mia. Sono io quella che sta impazzendo, stasera.
Forse la mente le si annebbiò un secondo, o forse si mosse talmente tanto velocemente da non rendersi conto di quello che stava per fare, per potersi fermare di conseguenza; ma era lì, in punta di piedi, le mani allacciate al suo collo. E lo stava baciando. Lui non era propriamente immobile, quindi non vedeva nessun buon motivo per fermarsi, ormai era dentro con tutti e due i piedi in quella pazzia.
E poi, Michele, la stava baciando così bene che in ogni caso non avrebbe potuto.
Quel bacio era come lui, dolce e un po' rude, un po' le accarezzava le labbra e un po' la stringeva a sé, premendole, e annebbiandola di passione.
Poi, la mano di lui sulla sua testa, si staccò di mezzo centimetro, e Diana già capì cosa stava succedendo. Si tirò indietro, non osando guardarlo.
- Ti prego scusami: deve essere stato il vino. - gli disse, tutto d'un fiato.
Sollevò piano gli occhi, e lo vide, ancora lì in piedi davanti a lei, che la osservava muovendo nervosamente la mascella, le labbra serrate.
- Sì, anche io forse ho bevuto troppo. - disse poi, secco. - Sarà meglio che vada.
Quando sentì la porta di casa chiudersi il terreno le franò sotto ai piedi: che cosa cavolo aveva combinato? Come poteva essere stata così stupida?
Passò mezz'ora, prima che ebbe il coraggio di attraversare il pianerottolo.
Michele aprì uno spiraglio, interrogativo, guardandola mentre teneva in mano una bottiglia di Tequila.
Probabilmente era troppo sbalordito, perché aprì la bocca ma non uscì nessun suono.
Diana sospirò per farsi coraggio, e si infilò nello spazio lasciato aperto, entrando in casa.
- Tu mi credi, vero, se ti dico che ho bevuto troppo e non so nemmeno io perché ti ho detto quelle cose e perché... beh, hai capito?
Michele continuava a guardare la bottiglia.
- Sì, ti ho detto che anche io forse devo aver bevuto un po', ma non capisco cosa centri...
Diana sospirò, di nuovo.
- Il problema è questo: io non voglio che quello che c'è tra noi si rovini, e sicuramente causerà dei problemi, così ho pensato che dobbiamo berci su. Non ho mai provato a bere così tanto da dimenticare tutto il giorno dopo, ma forse può funzionare.
Michele si portò una mano sulla fronte, e rise, stanco.
- Non ci credo.
Diana accese la musica, tenendo il volume più basso dei suoi standard vista l'ora.
- Solo che ho pensato: ci chiederemo come mai abbiamo iniziato a bere, e alla fine ci ricorderemo lo stesso di quello che è successo. Ma... - scelse una canzone un po' più movimentata, - non se adesso festeggiamo. Forza, prendi due bicchieri e vieni qui: ci aspetta una bevuta.
Michele era probabilmente troppo incredulo e sbalordito per obiettare, e forse senza crederci troppo nei risultati che sperava Diana, decise di stare al gioco.
Dopo un ora i bicchieri erano stati aboliti, e la musica movimentata anche: si passavano la bottiglia, bevendo un sorso uno alla volta, ed erano finiti a fare discorsi filosofici.
Michele forse era un po' più silenzioso del solito, ma anche Diana stava iniziando ad avere difficoltà a parlare normalmente, tra il sonno e la pesantezza dell'alcol.
- Sono proprio una stupida. - biascicò, ridendo.
- Perché? - le chiese, passandole la bottiglia.
- Per questa bevuta. - mandò giù un altro sorso, nonostante il suo stomaco stesse iniziando a ribellarsi. - non è un'idea stupida?
Michele, già con gli occhi chiusi, sdraiato per terra accanto a lei, sorrise.
- No, in fondo è una cosa carina.
Capì che si stava per addormentare, e lo scosse leggermente.
- Michele. - disse, trattenendo il singhiozzo. - Mi devi promettere, mi devi giurare, che domani ci dimenticheremo tutto.
Lui aprì un occhio,
- Che cosa dovremmo dimenticarci?
- Ecco, bravo. Tieni un altro sorso. - gli passò la bottiglia e lasciò che la mano cadde a terra, troppo pesante per muoversi. E prima che potesse sentire se lui aveva qualcos'altro da dire, già dormiva.

Aprì gli occhi, non poteva vomitare a casa sua. Gattonò per un paio di metri, poi si alzò, e tenendo una mano sulla bocca aprì la porta e attraversò il pianerottolo, maledicendo la serratura che sembrava essersi incastrata; quando riuscì finalmente a entrare non si curò di chiudere la porta, e barcollò in quella che le sembrava una corsa verso il bagno, maledicendo tutto quello che aveva bevuto.
Il suo stomaco doveva per forza essere ormai vuoto: non avrebbe mai creduto di poter vomitare così a lungo. Si sciacquò la bocca e la faccia, ma nonostante l'acqua fosse gelida allo specchio continuava a vedere uno zombie, e la testa sembrava scoppiarle da un momento all'altro.
Si trascinò verso la porta di casa, per chiuderla, e incontrò Michele, che si era alzato a chiudere la sua.
Lo guardò con smarrimento, tenendo gli occhi socchiusi per il mal di testa.
- Non ci posso credere. - piagnucolò, - Michi: sono una vecchia, guardami come mi sono ridotta. Non mi era mai successo!
Lui, che probabilmente non era in condizioni migliori ma riusciva a nascondere meglio il malessere post sbornia, sbuffò una risata stanca, appoggiando la fronte allo stipite.
- Vieni, ti faccio una cosa che ti farà stare meglio.
Diana trascinò i piedi fino al suo appartamento.
- Eh? Io non posso mangiare, tu non sai e non vuoi sapere cosa è appena successo di là. - disse tragicamente. Di tutta risposta lui le mise una mano sulla testa, scompigliandole i capelli già spettinati,
- Fidati di me, Daiana.
Tirò fuori dal freezer una specie di pizza, alta, tagliata a trancio, come quella delle macchinette automatiche.
- Questa è una cosa pessima, - le spiegava, mettendola in microonde, - ma quando la mangerai si gonfierà nel tuo stomaco, come una spugna, e assorbirà tutti gli acidi. - provò a stiracchiarsi la schiena. - Dormire sul pavimento: quella no, non è stata una buona idea. Mi toccherà prendere un antinfiammatorio, se voglio stare in piedi stasera.
Diana, per quanto possibile, spalancò gli occhi, e si mise le mani sulla fronte.
- Ti prego, dimmi che per stasera sarà tutto finito! E non hai qualcosa contro il mal di testa?
- Tieni, rottame. Finiscila, e poi ti darò un antidolorifico.
Faceva persino fatica a masticare, ma una volta mandata giù doveva ammettere che quella cosa plasticosa sembrava fare quello che prometteva.
- Questo giorno segna l'inizio della mia vecchiaia. - disse, teatralmente, mentre ingollava l'antidolorifico insieme ad un fantastico succo di frutta che sembrava avere proprietà magiche con la sua arsura. - Dì un po', - borbottò, - quanto mi hai fatto bere?
Michele mise una bottiglia quasi vuota sul tavolo.
- Quanto ti ho fatto bere? Ho trovato questa, di là, e ti assicuro che non è mia, non l'ho mai vista prima.
Diana bofonchiò una risata, aveva un assoluto bisogno di dormire, ma non poteva addormentarsi lì: ricordava fin troppo bene quella notte che l'aveva portata sul suo divano, che conseguenze disastrose aveva avuto la mattina dopo; quella mattina era andata bene, ma non le conveniva sfidare troppo la fortuna.
- Ora ti chiedo un ultimo favore: aiutami ad alzarmi. - gli disse, porgendoli le mani, - Devo assolutamente raggiungere il mio letto.
Lui nascose una risata.
- Ma guardati: secondo me la fai più grande di quella che è, non puoi stare così male!
Si aggrappò alle sue mani e si alzò in piedi.
- Forse le donne fanno più fatica a smaltire l'alcol: ti assicuro che sto davvero di merda.
Stava per imboccare l'ingresso, ma lui da dietro la deviò verso il divano.
- Forza, mettiti qui a dormire, così posso tenerti d'occhio.
E visto che glielo aveva proposto lui non ebbe niente da obiettare. Si sdraiò sul lato più piccolo del divano ad angolo, Michele accostò le persiane e raggiunse l'altro lato.
- Cerca solo di non vomitare sul mio divano. - l'ammonì.
Ripensò a come le aveva risposto sulla Tequila: aveva sicuramente funzionato, Michele aveva dimenticato il disastroso episodio della sera prima, il loro rapporto era salvo. E con questo pensiero si addormentò profondamente, con in testa una vecchia canzone di Bruce Spristing di cui non ricordava il titolo.






Nda: Cosa dite voi, la Tequila funziona? Con Diana no, ma Michele sembra aver rimosso tutto... o no?
Per i più curiosi la canzone del Boss è Sad Eyes. Io a quanto pare, la storia insegna non riesco a reggere tanto scrivendo una storia senza infilarci dentro qualche riferimento musicale :-P ! E in alcuni casi, come questo, si  riferisce al pezzo che ascolto mentre scrivo il capitolo.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, anche se è un po' strano ;-) alla prossima!
Grazie Bloomsbury,  che così carinamente leggi e recensisci quello che scrivo, ma specialmente grazie perché amo le tue storie!

   
 
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