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Autore: Pichichi    20/09/2013    3 recensioni
Prima classificata al Beta-contest [Multifandom e originali] di e m m e e Charme
Ci sono tante volte in cui la faccio arrabbiare e lei mi dice che sono un cretino.
«Sei un cretino, ma a che cosa pensi?»
Dice proprio così, “sei un cretino”; carica la sillaba “cre” e la sputa fuori come un proiettile, fino a farla arrivare dritta nel petto. Forse è per questo che continuo a frequentarla, perché mi ricorda che sono un cretino.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Annotazioni: la storia si è classificata prima a questo contest. Grazie a MedusaNoir per avermi fatto da beta-reader, alla mela per la pazienza e a Renna perché sì.


FA’ LA COSA GIUSTA



Ho detto a Lavinia che non sono fidanzato, ma non so perché l’ho fatto. Lavinia è una bella donna, anche se non quanto Claudia; si starà chiedendo chi sia la ragazza con cui mi ha visto l’ultima volta, mi ha guardato con una faccia… Sono in ritardo. Chiudo la porta dell’ufficio, do un’occhiata veloce al corridoio e scendo le scale.

Sono tutto sudato, accidenti se fa caldo. Ho lasciato l’auto nel parcheggio dietro l’ASL – un po’ più nascosta del solito – e faccio gli ultimi passi che mi separano da lei quasi di corsa. Apro lo sportello, mi siedo, chiudo gli occhi; mentre aspetto che l’aria condizionata si diffonda mi sbottono i polsini della camicia e arrotolo le maniche fino ai gomiti. Ho i vestiti appiccicati alla pelle e la faccia tutta sudata, i jeans mi stanno facendo morire. Sono quasi le nove. Fra cinque minuti dovrei essere in un’aula ad ascoltare uno dei medici del dipartimento di igiene pubblica parlare del depuratore che dà sul nostro litorale, uno dei soliti corsi di formazione cui nessuno presta mai attenzione. Faranno a meno di me per questa volta.

Allungo una mano verso il sedile posteriore, afferro un pacco di fazzoletti e mi asciugo il viso e il collo. Spero di non avere la camicia bagnata – non posso pensarci, m’immagino già come storcerebbe il naso. Che idiota, non ho nemmeno un deodorante dietro, un profumo, qualcosa; nemmeno una caramella alla menta. Ora va un po’ meglio, l’aria fredda comincia a farsi sentire. Sfilo dalla tasca il cellulare, che mi sono imposto di non controllare sin da quando sono uscito di casa; ho anche messo il silenzioso ed eliminato la vibrazione, ma quando illumino il display rimango deluso: nessuna chiamata, nessun messaggio. Resto a guardarlo per un po’, poi decido di scriverle io: Sei a casa? Sto arrivando.

Non ho alcuna intenzione di andare al corso stamattina, nossignore; metto in moto l’auto e mi allontano dagli uffici. Mi torna in mente Lavinia con le sue sopracciglia improvvisamente aggrottate.

«E allora chi era quella?»

Quella, ha detto proprio così.

«Ma chi?»

Non mi andava di continuare il discorso, ma ha insistito: Lavinia è curiosa, una vera pettegola.

«Quella con cui ti ho visto in macchina l’altro giorno… Quella, sai, con gli occhiali.»

Crede di sapere sempre tutto, è così fastidiosa a volte.

«Forse era mia madre.»

«Non era tua madre, Adriano! Dai, quella un po’ sovrappeso.»

Un po’ sovrappeso, quella un po’ sovrappeso. Sorrido ancora se ci penso. Alla prima coda per un semaforo ne approfitto per prendere il cellulare. Sì, sono a casa.

Claudia non è in sovrappeso, almeno che io sappia. Pensandoci bene, credo che se anche lo fosse non lo noterei.

«Che aspetti a lasciarla?»: è la domanda che fanno i miei amici. Io non rispondo mai.

Sono un po’ incazzato con lei: sapeva che sarei venuto questa mattina e non mi ha neanche mandato un messaggio, non uno. Né il buongiorno, né domande sull’orario di arrivo, niente. Mi pare che Claudia a volte si dimentichi di me, se ne dimentichi del tutto e quando la sera le telefono e la sento rispondere ho la sensazione che si stia ricordando solo in quel momento del suo fidanzato. In realtà non so se fidanzato è proprio la parola giusta, ma non mi è mai importato molto di quello che siamo o quello che non siamo e a quanto pare neanche a lei. I miei amici dicono che la mia è una specie di sfida: è proprio perché lei si dimostra così fredda nei miei confronti che io, testardo, non voglio dargliela vinta; secondo loro non voglio ammettere di non essere riuscito a conquistarla, a farla innamorare. Le loro idee sulla nostra relazione – i “fate così” e i “dovresti” e i “ma perché non” – a me paiono tutte campate per aria e sì, m’infastidiscono un po’. Cosa ne sanno loro, del perché e del percome stiamo insieme?

Ci sono tante volte in cui la faccio arrabbiare e lei mi dice che sono un cretino.

«Sei un cretino, ma a che cosa pensi?»

Dice proprio così, “sei un cretino”; carica la sillaba “cre” e la sputa fuori come un proiettile, fino a farla arrivare dritta nel petto. Forse è per questo che continuo a frequentarla, perché mi ricorda che sono un cretino.

Sono le nove e venti, dovrei essere in tempo per prendere il treno: Claudia ha una casa sul mare, ho pensato di andare a trovarla. Mi squilla il telefono mentre varco l’entrata della stazione.

«Pronto?»

«Sei già partito?»

Sorrido, sapevo che in fondo mi stava aspettando.

«No, sono sulla banchina, alla stazione.»

«Ma sei proprio sicuro di voler venire?»

«Se ti secca potevi dirmelo prima.»

«Non ho detto questo, ti ho chiesto se ne sei sicuro.»

Ecco il suo solito tono controllato, che vale quanto un “sei un cretino” detto chiaro e tondo.

«Sì, tesoro, sono sicuro.»

Sono anche sicuro del fatto che abbia storto il naso.

«Ti fermi a pranzo?»

«Se non è troppo disturbo…»

«Senti, hai voglia di litigare?»

«A me sembra che tu abbia voglia di litigare.»

«Be’, non è così!»

«Sta arrivando il treno, ci sentiamo dopo.»

Non è vero, non sta arrivando nessun treno. Dovrebbe impiegarci altri sette minuti, stando al tabellone. Ecco, ora sono nervoso, chissà perché finisce sempre così. Gli amici non riescono a capacitarsi di come possiamo stare ancora insieme se sembra che ognuno, a tratti, detesti la presenza dell’altro. Io non rispondo, non so cosa dire.

Mi siedo e mi pizzico la camicia, sperando non si noti che sono sudato; dimentico sempre di portarmi un cambio, per fortuna fa abbastanza fresco qua sotto.

«Scusi se la disturbo…»

Ho un sussulto e mi volto verso destra. C’è una suora accanto a me; non mi ero nemmeno accorto che si fosse seduta.

«Scusi se la disturbo, posso chiederle un favore?»

Accidenti quant’è vecchia. Ha la faccia tutta raggrinzita, fa quasi impressione. Tiene fra le braccia una busta da cui spuntano dei fiori, ma non sembra essere quello il problema: estrae una cartellina in cui è racchiuso un cellulare di nuovissima generazione – è un posto un po’ bizzarro in cui riporre un telefono. La suora lo prende con grande premura.

«Vede, mia nipote mi ha regalato questo cellulare, ma io non so proprio usarlo. La madre superiora che abbiamo ospitato mi ha mandato un messaggio e-»

«Le serve aiuto per risponderle» completo.

È come se le avessi tolto un pugnale dal fianco, si apre in un sorriso serafico. Mi racconta della madre, che viene dalla Francia ed è stata ospite da loro per una settimana; le è piaciuto molto il soggiorno, dice. Allungo la mano e prendo il cellulare, domandandole se ha già il contatto in rubrica.

«Il messaggio è l’ultimo ricevuto, guardi.»

Vedo che il numero non risulta memorizzato e appare come una serie di cifre. Apro la conversazione, il messaggio è in francese.

«Cosa devo scrivere?»

«Ecco, scriva solo: merci, bon courage.»

«Merci, bon courage» ripeto.

Digito le parole richieste, le domando se c’è dell’altro e poi premo il tasto invio. Già che ci sono le chiedo se vuole che salvi il numero della madre superiora in rubrica; la suora è entusiasta, riprende il telefono con le mani che le tremano e non smette più di ringraziarmi.

«Ha fatto un’opera di bene, lo ricordi, ha fatto un’opera di bene!»

«Per così poco!»

«Come si chiama?»

«Adriano.»

«Adriano. Oggi ha fatto un’opera di bene, lo ricordi.»

Sorrido imbarazzato e taccio. La suora deve avermi preso in simpatia, perché dopo un po’ riprende a parlare.

«Vede questi fiori che ho qui?» Mi mostra il mazzo che regge fra le mani. «Su, indovini dove devo andare.»

Mi domando perché debba sapere dov’è che va una suora con dei fiori in mano. Mi gratto la testa, faccio il vago.

«Non so, non saprei… dove va?»

«Al cimitero!»

Lo dice con l’aria di chi non vedeva l’ora di raccontarlo a qualcuno; dev’essere una cosa importante.

«Oh, al cimitero» faccio.

«Sì. Ho preso dei fiori di plastica questa volta, perché tanto quelli veri appassiscono dopo poco e siccome non posso andarci così spesso non voglio che-»

«Sì, sì, capisco» la interrompo.

D’improvviso non ho più voglia di starla a sentire, mi sono infastidito. La conversazione langue e rimaniamo in silenzio. Il treno è in dirittura d’arrivo e lo sentiamo avvicinarsi, così cerco di allontanarmi da lei in modo da non dover dividere la stessa carrozza. Quando le porte si aprono schizzo al piano di sopra e m’infilo in un sedile laterale; mi sento un po’ stupido, ma non mi va di rivederla. Mentre mi accoccolo meglio contro la parete la vedo sbucare dalla parte opposta, sempre con la sua busta in mano e l’aria spaesata. Credo che mi stia cercando. Abbasso gli occhi di scatto e mi rannicchio di più per scomparire dietro il sedile. Partiamo.

Sarei capace di restar seduto in maniera scomposta per tutto il viaggio pur di non rischiare d’incrociare di nuovo i suoi occhi. È una cosa scema, lo so, è solo una suora che aveva voglia di parlare e non era capace di inviare un messaggio! Mi raddrizzo a poco a poco, controllando che non possa vedermi. Quando sono sicuro che non sia nella mia visuale mi metto comodo contro lo schienale e m’incanto a guardare il paesaggio che scorre. Sarò da Claudia in meno di dieci minuti e sul telefonino non ho nessuna chiamata. Immagino che per pranzo mi preparerà qualcosa di buono; delle zucchine, probabilmente: Claudia dice che sono ingrassato e che devo mettermi a dieta.

Alzo gli occhi un momento, il controllore sta passando a visionare i biglietti. Merda, ho un tuffo al cuore. Non mi frugo nemmeno le tasche, so che non ho fatto il biglietto. Merda. Mi sono distratto lì sulla banchina, ecco com’è andata – mi sono messo a parlare con quella suora e ho dimenticato di comprare quel cazzo di biglietto. Merda. Il controllore avanza di una fila e mi viene in mente una cosa molto stupida da fare, l’unica possibile: fingere di mettermi a dormire. Se riesco ad apparire abbastanza rilassato è fatta: non sarà così cafone da scuotermi, è il fine settimana e siamo tutti stanchi, stiamo quasi per fermarci.

«Biglietti, prego.»

Merda. Mi torna in mente la faccia di Lavinia quando dice che non so dire le bugie. Ho i palmi delle mani appiccicosi. Sento muoversi qualcosa accanto a me, dev’essere arrivato al mio posto.

«Signore?»

Mi pare che il treno stia rallentando.

«Scusi?»

Ce l’ha con me, lo sento lì, a un passo, con il suo aggeggio al collo, indeciso su cosa fare. Dovremmo essere arrivati. Mi sento tanto un animale che vuol farsi credere morto dal predatore – il treno rallenta, ci stiamo fermando! Schiudo gli occhi, il controllore è passato oltre.

Stringo forte il portadocumenti e mi alzo chiedendo permesso, dico: «Scusate, devo scendere». Forse il controllore mi ha chiamato di nuovo, ma ormai sono alla fine della carrozza e fingo di non aver sentito; incrocio lo sguardo della suora che ho aiutato prima. È veramente anziana, ha delle borse sotto gli occhi così gonfie che fanno impressione. Mi fissa come spiritata.

«Che guarda?» sbotto.

Due passi e sono sulla banchina, ancora nervoso. Le porte si richiudono, il treno riparte, da un finestrino vedo ancora la faccia della suora – non so perché le ho urlato contro, non lo so. Do le spalle alle carrozze che si allontanano, faccio su e giù per la banchina finché non mi squilla il cellulare.

«Sei arrivato?»

È il tono di voce più piatto del mondo.

«Sì.»

«Che hai?»

«Niente, che ho?»

«Che ne so. È successo qualcosa?»

Sto per urlarle contro, me lo sento. Ho una gran voglia di scaricarle un sacco di parolacce addosso, poi vediamo chi la spunta. Prendo fiato, apro la bocca e la richiudo.

«Dove sei?» chiedo.

«Fuori, nel piazzale. Sbrigati, non ho trovato parcheggio.»

Rimetto il cellulare in tasca. Non so che mi prende, ho le mani sudate e mi sento agitato – come se fossi appena sceso da un ottovolante – e proprio mentre vado incontro all’auto blu della mia fidanzata mi prende una voglia immane di fare dietrofront e andarmene. Oh, chissà che faccia farebbe. Entro nell’abitacolo, le do un bacio.

Lei mi fa notare che sono sudato, rispondo che lo è anche lei; storce il naso e mette in moto. Ha un vestito con un motivo giallo stretto in vita che le lascia le spalle tutte scoperte, la scollatura è in stile impero, mentre i capelli sono tenuti su da un fermaglio: è molto carina.

«Allora è da molto che aspetti?» le domando.

«Un po’.»

«Ah, eri impaziente di vedermi!»

Claudia non risponde, piega la testa di lato.

«Cosa c’è, non ti senti bene?»

«Niente, niente… »

Dopo un attimo di esitazione, come a ponderare se valga o meno la pena di rendermi partecipe della cosa, mi spiega che questa mattina le hanno telefonato dalla cooperativa con cui aveva preso accordi solo qualche giorno fa, per dirle che non hanno più bisogno di lei; fa dell’ironia sul fatto che sia stata licenziata ancor prima d’iniziare a lavorare, poi tace di botto. Cala un brutto silenzio, mi sa che ha voglia di mettersi a piangere; forse si aspetta che l’abbracci e le dica qualcosa.

«Cos’hai fatto questa settimana, sei stata al mare?» domando.

Claudia fa un movimento strano, non capisco se è sollevata oppure irritata dal cambio di discorso.

«Sì, peccato che oggi sia nuvoloso, saremmo potuti andare.»

«Se ti va ci andiamo.»

«No, non mi va. E poi non hai il costume.»

Giusto, non ci avevo pensato. Do un’occhiata fuori dal finestrino, stiamo parcheggiando sotto casa sua; un bel palazzo, forse un po’ troppo isolato. Non mi piace il silenzio che è calato, mi allungo per darle un bacio.

«Che fai?»

Claudia alza il gomito per allontanarmi, storce la bocca infastidita. Credo che abbia voglia di litigare – sì, dev’essere proprio così, ha voglia di litigare. Scommetto che è pentita di avermi invitato qui, io che dovrei essere il suo fidanzato, io che sono corretto con le mie amiche, io che sbaglio sempre tutto quanto.

Posa le chiavi sul mobile dell’ingresso e va verso la camera da letto affrettando un po’ troppo il passo. Magari stava aspettando qualcun altro, lì alla stazione – magari sono io il cornuto – per questo è così infastidita; d’altronde lei è sempre infastidita, me lo dicono tutti: quando state insieme non sembrate nemmeno due fidanzati. Io mi stringo nelle spalle, che cosa dovrei dire?

La raggiungo nella sua camera, è sdraiata sul letto con il vestito tirato su e le si vedono le mutande.

«Perché non ti cambi?» fa, indicando con un gesto vago il cassettone.

Sembra che quel semplice movimento le abbia tolto tutta la forza che aveva. Mi tolgo la camicia, appendendola con cura alla sedia. Non sa che dovrei essere al lavoro in questo momento e forse avrei dovuto dirglielo; di certo ora è troppo tardi e poi con questa faccenda della cooperativa chi la sente?

«A che pensi?»

Lancio le scarpe in un angolo e faccio per prendere una sedia.

«No, vieni qui.»

Mi tira a sé, mi abbraccia stretto, è come se mi stesse crollando addosso. Meglio che mi tolga dalla testa di infilarle le mani sotto il vestito, si arrabbierebbe: Claudia è un tipo che si arrabbia facilmente e oggi è una giornata no. Si arrabbierebbe se dicessi qualunque cosa, ma qualcuno deve pur parlare.

«Lo sai, stamattina Lavinia mi ha detto che non so dire le bugie.»

«Chi sarebbe Lavinia? Una dell’ufficio?»

«Sì, non ti ricordi? Te l’ho mostrata da lontano una volta…»

«Quella con l’Audi?»

«Sì, quella.»

Claudia ha storto il naso, sì, non me lo sono immaginato; ha proprio storto il naso. Mi dà una gomitata.

«Che hai da sorridere?» chiede.

Ecco che torna ad aggredirmi, sia mai che ammetta di essere gelosa. Non mi concede niente, non mi fa vincere nemmeno per sbaglio. Le do qualche bacio sulla fronte e le accarezzo un fianco: dopo una settimana che non ci vediamo fare l’amore mi sembra il minimo. Non si sposta e non mi molla altre gomitate, però non raccoglie l’invito.

Sospiro, abbandonando gli intenti maliziosi. È un abbraccio affettuoso, non un preludio a qualcosa di più movimentato – avrò il diritto di poter scegliere qualcosa? Alle volte mi sembra che non le importi niente di me; alle volte mi è davvero difficile non impuntarmi.

Mi accarezza il dorso della mano senza entusiasmo, si vede che ha la testa da un’altra parte.

«Lo sai, stamattina ho detto a Lavinia che non sono fidanzato.»

Claudia ci mette un po’ per capire le mie parole. Si scosta e mi guarda perplessa.

«E perché mai l’avresti fatto?»

«Non so.»

«Come non sai?»

«Non so» ripeto, tirandomi a sedere.

Recupero la camicia e me la infilo; la sento sospirare, sta per arrivarmi una lavata di capo – come se io non avessi voglia di urlarle addosso, come se fosse sempre e solo colpa mia.

«Allora che c’è, Adriano?» dice.

Non è seccata, piuttosto stanca. Mi volto per guardarla: è lì, sdraiata sul letto a tergersi il sudore della fronte con una mano. Non sembra affatto arrabbiata.

«Cosa c’è? Che cosa vuoi che ti dica?» incalza.

Improvvisamente la vedo piccola e sofferente; non mi ha mai guardato con quella faccia, sembra quasi… compassione? Non capisco la sua domanda e glielo faccio notare.

«Che cosa c’è, Adriano? Vuoi che ti dica che ti amo e che ti telefoni a tutte le ore del giorno e che ti faccia trovare un buon pranzetto e-»

«Non ho detto questo» l’interrompo.

Mi sto innervosendo.

«Che ti porti le pantofole appena arrivi a casa, così puoi riposarti? Che sia gelosa della tua collega? Che caschi in questi – perdonami se te lo dico – stupidi giochetti?»

Non dico nulla, fisso i bottoni della mia camicia. Dopo un po’ la sento ansimare e alzo gli occhi; è pallida in viso, sta sudando.

«Che hai?»

«Non mi sento bene.»

«Vado a prenderti qualcosa?»

Finisco di rivestirmi, approfittando del momento per allontanare l’imbarazzo.

«Sì, per favore. Vai in farmacia e compra del Polase.»

Cerca di farsi aria, le suggerisco di togliersi il vestito. L’aiuto a mettersi seduta offrendole la mano ma lei non riesce a stringerla: sta tremando; è un bagno di sudore e non riesce ad alzarsi, così la faccio ridistendere. Vado in cucina a prenderle un bicchiere d’acqua.

«Dov’è la farmacia?»

«Qui vicino, sono un paio di isolati.»

Poggio il bicchiere sul comodino e faccio per andarmene. Prima che possa fuggire dalla stanza mi giunge un flebile ma lucido “Fai presto”.

Esco di casa e mi sembra d’aver infilato la testa in un forno: non si respira, c’è una cappa di nuvole che filtra una luce strana, fastidiosa. Ci mancava il calo di pressione, ci mancava. Attraverso il piazzale che ci separa dal centro del paese e passo dall’altro lato della strada senza che una sola automobile m’intralci. Imbocco una via a caso.

Non so nemmeno se ho i soldi per le medicine, avrei potuto fiondarmi fuori anche scalzo e non me ne sarei accorto; in più questo cazzo di paesino è deserto, non c’è un cane a farmi compagnia. Si sentono solo le mie scarpe sull’asfalto.

Va’ poi a capire se è aperta questa farmacia. Guarda se quella stronza doveva svenire adesso, non posso nemmeno mettermici a litigare; anzi, a pensarci bene è stato meglio così: non avrei retto un secondo di più senza esplodere. Non sarei dovuto venire a trovarla, non so nemmeno che ci faccio qui, in cerca di una farmacia aperta come fossi il suo cagnolino.

Chissà che pensa la gente, guardandomi: ecco un povero scemo in camicia che se ne va a destra e sinistra come un ubriaco. Ho accelerato il passo senza accorgermene; mi guardo intorno per cercare un punto di riferimento, ma non ci sono altro che villette – tutte sprangate e in disuso, peraltro.

Finalmente raggiungo una piazzola, ci sono un paio di autobus con i rispettivi autisti che chiacchierano fumando delle sigarette. Mi avvicino per chiedere informazioni.

«Scusate, sapreste dirmi dov’è la farmacia?»

I due si voltano perplessi. Ecco che pensano: “Questo dev’essere un tipo strano”. Quello con gli occhiali da sole non dice nulla, l’altro mi spiega, con ampi gesti, che devo girare a sinistra dopo essermi infilato nella via che ho di fronte. Li ringrazio e seguo le indicazioni, fortunatamente la farmacia è aperta.

Solo una manciata di minuti e faccio ritorno allo spiazzo con in mano la confezione di Polase – chissà cosa succederebbe se non tornassi a casa, se non le consegnassi la medicina. Gli autobus sono verniciati di un bel blu, i riflessi della carrozzeria spiccano sui colori smorti delle pareti degli edifici.

«Ehi!»

Gli autisti si voltano di nuovo, allungo il passo per raggiungerli.

«Dov’è che andate?»

Siccome i due mi fissano, ancora una volta confusi, accenno all’autobus; il tipo con gli occhiali da sole scoppia a ridere.

«Da qualsiasi parte, bello, dove vuoi tu.»

Anche l’altro ride e scambia un’occhiata con il collega: pensano che sia matto. Indietreggio e me ne vado senza dire nulla, ma sento i loro occhi puntati sulla schiena e le loro risate nelle orecchie finché non ho attraversato tutta la piazza. Sono di nuovo nella strada delle villette deserte, l’unico rumore è quello delle mie scarpe che strusciano contro le pietroline dell’asfalto.

Mi volto di scatto, ma non c’è nessuno alle mie spalle. Eppure mi pareva… Non mi piace questo silenzio. Arrivato a metà strada mi giro ancora, più nervoso di prima, e di nuovo non vedo nessuno. Sento un formicolio lungo tutta la schiena, non riesco a non voltarmi indietro. Possibile che non ci sia nessuno per strada? Spicco una corsa e non mi fermo finché non torno sul ciglio della strada, deserto come l’avevo lasciato. Ho un brutto presentimento.

Ecco lì la casa di Claudia, saranno sì e no cinquecento metri, posso farcela – non devo fare cose stupide. Sento il cellulare vibrare nella tasca del jeans. Dev’essere lei: si starà chiedendo perché ci metta tanto, che fine abbia fatto il suo povero stupido fidanzato mandato a comprarle le medicine. Sono a trecento metri dalla casa; le darò la bustina e poi le dirò che non ho più voglia di rimanere con lei – sissignore, le dirò proprio così! Io sono venuto a trovarla e lei fa l’indifferente, l’orgogliosa. Dev’essere sempre così posata, così seria, così superiore, come se godesse nel farmi sentire un cretino – e ci riesce benissimo.

Mi apre il cancello, deve avermi visto dalla finestra. Varco la soglia preparandomi a litigare.

«Claudia?»

Forse ho alzato un po’ troppo la voce, tanto che rimbomba nell’ingresso. Mi giunge un rumore ovattato dall’interno della casa.

«Allora, l’hai trovato?»

Claudia ha addosso una maglietta enorme che non riesce a coprirle il sedere e le cosce. Un altro discorsetto che andrebbe affrontato è quello sul chi ha bisogno di perdere peso – ma io sono educato, non userei mai questi argomenti: sarebbe un colpo basso.

«Sì che l’ho trovato.»

Lascio la scatola su un mobile. Tiro fuori il telefono dalla tasca e, aggrottando le sopracciglia, le dico: «Potevi anche risparmiarti le sette chiamate, non sono un bambino, so andare a comprare delle medicine.»

«Chiamate? Quali chiamate?»

Guardo meglio: sul display compaiono cinque chiamate perse da un numero sconosciuto, due di Lavinia e poi un messaggio, sempre di Lavinia, che recita: Dove cazzo sei?

«Oh merda» mi sfugge.

Lavinia che cerca di chiamarmi, sperando che io sia tornato indietro solo un momento a prendere una cosa in ufficio, che sia in un bar a fare colazione; la direttrice dell’unità operativa incazzata per il controllo improvviso, la macchina che ho lasciato alla stazione, mi gira la testa. Mi siedo su una poltrona, fisso lo schermo del cellulare a bocca aperta.

«Adriano? Cosa c’è? Cos’hai?»

«Merda.»

Claudia mi raggiunge preoccupata e mi stringe un braccio. Non posso dirle che non sono andato al corso per venire da lei, ha perso il lavoro proprio l’altro giorno.

«Che cosa c’è, cosa c’è scritto?»

«Merda.»

È diventato quasi un piagnucolio. Claudia, spazientita, prende il cellulare dalle mie mani e si acciglia. Intuisco migliaia di pensieri formularsi e disfarsi sotto la sua fronte nei secondi che impiega per rendersi conto della situazione. Non è mai stata un’idiota: schiude le labbra, mi guarda. Ora non ha più quella faccia severa, sembra spaventata.

«Ti sta squillando di nuovo» dice in un filo di voce.

Negli occhi ha tutta la compassione di questo mondo; è come una mamma che non ha il coraggio di domandare al figlio “Perché l’hai fatto?”. So che si aspetta che faccia qualcosa, che faccia la cosa giusta.

Mi rigiro il cellulare fra le mani; sullo schermo lampeggia una sequenza di numeri che non conosco. Sospiro e lo poggio sul divano, lasciandolo squillare.

«Allora, ti senti un po’ meglio?» le chiedo, abbozzando un sorriso.

«Adriano…»

«Hai bevuto un po’ d’acqua, vero?»

Mi guarda ancora turbata – oserei dire ferita, non so bene come interpretare quello sguardo. Sembra che stia valutando se ne valga la pena. Dimmi di sì, non arrabbiarti, non arrabbiarti, dimmi di sì – è questa la cosa giusta.

Dopo un breve silenzio risponde: «Sì, mi è passato, ora va meglio.»

Va a prendere un po’ d’acqua per entrambi. Nel suo bicchiere ha versato la medicina che le ho portato poco fa; la fa girare con un cucchiaino in modo che si sciolga e la beve tutta d’un fiato.

«Dev’essere stato il caldo, il nervosismo… stamattina mi sono svegliata male, ecco tutto. Poi oggi è proprio umido, coperto.»

«L’importante è che tu stia bene.»

Annuisce con aria grave, poi mi guarda e sorride.

«Dovrebbe esserci un costume di mio fratello, da qualche parte. Se ti va possiamo andare a mare. Ti va?»

Se non lo vedessi con i miei occhi non ci crederei, forse non ci crede neanche lei.

«Sì, certo che mi va.»


   
 
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