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Autore: VasHappeninPotato    21/09/2013    1 recensioni
Non capivo davvero il perché mi avesse abbandonata.
Lui mi aveva detto che mi avrebbe salvata, perché allora si era allontanato da me?
Le uniche parole che mia madre mi disse furono ‘Lascia stare, lascia che lui giochi con gli altri bambini, lascia che lui si allontani da te e che se ne penta’.
Da quel giorno lasciai che le cose accadessero, senza che io mi opponessi a loro.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Niall Horan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Let it be.

 
A Beatrice, la mia migliore amica, per il nostro primo anno insieme.
 
 
 
Mi trovavo nel parco di Mullingar, dove i bambini si radunavano per giocare.
Non avevo molti amici e quel giorno ero sola, dondolando avanti e indietro sull'altalena, annoiata.
Un bambino si avvicinò a me sorridendo.
Aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri, paffutello, con le guance di un rosso fuoco.
Stringeva al petto un leprecano di peluche e si guardava intorno, osservando gli altri bambini che giocavano a palla.
Si sedette sull'altalena accanto alla mia, cercando di posare lo sguardo su di me senza che io me ne accorgessi.
«I miei amici non vogliono che io giochi con loro perché mi porto sempre dietro il mio peluche e perché parlo con le femmine» confessò, sperando che lo ascoltassi.
«Il tuo leprecano è carino- gli sorrisi, mostrando un sorriso sdentato e provocando la sua risata che face battere il mio piccolo cuoricino -e poi se parli con le femmine che problemi ci sono? Sei un principe» sussurrai.
Lui mi rivolse uno sguardo stranito.
«Io sono un supereroe» mi corresse.
«I supereroi si comportano come i principi, salvano la loro principessa o ragazza» gli spiegai con aria da saputella.
Lui annuì pensieroso.
«Tu sei una principessa?» mi chiese poi.
«Io sono solo una bambina» risposi, continuando a dondolare sulla mia altalena.
Lui rimase deluso della mia risposta ed abbassò lo sguardo, rigirandosi tra le mani il suo pupazzo.
«Quindi non posso salvarti?» domandò nuovamente, facendomi arrossire.
Perché mi faceva quella strana domanda?
Voleva salvarmi da cosa?
«Certo che puoi salvarmi, i supereroi salvano anche le bambine normali» esclamai, facendolo sorridere.
I suoi occhi si specchiavano nei miei.
Erano così belli.
Sembravano finti.
Erano di un azzurro stupendo e quando sorrideva erano ancora più brillanti.
Sorrideva con gli occhi.
Scese dall’altalena, ed io lo seguii a ruota.
«Mi piace quando sorridi con gli occhi» sussurrai al bambino biondo davanti a me.
Lui rimase a fissarmi inarcando le sopracciglia. I suoi occhi chiari mi scrutavano dall’alto in basso, non capendo cosa volessi dire e ritenendomi pazza.
«Beth, dobbiamo tornare in casa» mia madre mi richiamò e io scappai via, lasciando solo il mio amico.
«Aspetta!» mi fermò, afferrando un lembo della mia magliettina azzurra. Mi girai, aspettando che parlasse. Le sue guance si colorarono leggermente.
«Tieni» mi porse il suo piccolo leprecano di peluche, che afferrai sorridente.
«È il mio peluche preferito, mi ha detto che vuole stare con te per oggi» continuò grattandosi la nuca, imbarazzato.
«Ci vediamo domani?» chiesi al bambino, che annuì subito, prima ancora che finissi la domanda.
Corsi da mia madre, che mi prese per mano, conducendomi a casa.
 
 
 
Il giorno seguente, quando tornai al parco, stringendo il peluche tra le mie braccia, trovai il bambino del giorno prima a giocare a palla con gli altri.
Cercai di attirare la sua attenzione salutandolo con la mia piccola mano, ma ottenni solo un suo sguardo di sfuggita.
Perché mi stava ignorando?
Mi sedetti sulla mia altalena, stringendo sempre il leprecano tra le mie braccia.
Dondolai tristemente, finché il sole scivolò lentamente oltre l’orizzonte e mia madre venne a prendermi per riportarmi a casa.
Da quel giorno il bambino non mi rivolse più la parola, dopo qualche mese non tornò più in quel parco.
Non capivo davvero perché mi avesse abbandonata.
Lui mi aveva detto che mi avrebbe salvata, perché allora si era allontanato da me?
Le uniche parole che mia madre mi disse furono ‘Lascia stare, lascia che lui giochi con gli altri bambini, lascia che lui si allontani da te e che se ne penta’.
Da quel giorno lasciai che le cose accadessero, senza che io mi opponessi a loro.
 
 
 
«Hai quindici anni ormai, quando ti deciderai a mettere via quel peluche?» mi domandò mia madre, riferendosi all’omino vestito di verde posato sul letto.
Sorrisi istintivamente.
«È un regalo, ci sono affezionata» risposi, prendendolo e giocherellandoci facendolo passare da una mano a l’altra, per poi infilarlo nello scatolone delle mie cose per il trasloco.
Me ne stavo andando a Londra.
Un sogno che si avverava.
Avevo visitato Londra all’età di dodici anni e me ne ero innamorata da subito.
Dopo tre anni, mia madre era finalmente riuscita ad ottenere un trasferimento ed a me sembrava tutto così irreale, così perfetto.
Infilai altre cose nello scatolo per poi chiuderlo con lo scotch e trascinarlo faticosamente nella macchina.
«Hai preso tutto?» mi domandò mia madre sorridente. Annuii salendo in macchina.
«Si va a Londra!» urlai, facendo ridere lei e il tassista.
Londra era così bella.
Quel posto era quasi ‘magico’, tutto era più bello lì.
Mia madre aveva comprato una piccola villetta per noi due, il giardino era spazioso e il profumo d’erba tagliata era dannatamente forte e rilassante.
La casa aveva le pareti di un bianco panna, le poltrone e il divano erano di pelle.
Era tutto così nuovo e allo stesso tempo all’antica.
Amavo tutto della mia nuova abitazione.
«Ti piace qui?» mi domandò mia madre, io annuii sorridente, per poi correre al piano di sopra, alla ricerca della mia stanza.
La trovai per via del mio nome scritto sulla porta scorrevole in legno.
Appena entrai, posai la scatola con le mie cose sul pavimento, per poi osservare il mio nuovo alloggio.
Il letto era coperto da una trapunta azzurra, la moquette color panna era morbida e calda, la finestra che affacciava sul giardino impediva la vista con delle tendine blu.
Amavo già la mia stanza.
Cominciai a svuotare gli scatoloni, attaccando qualche poster sull’armadio e sopra il letto.
L’unica cosa negativa era andare ad una nuova scuola.
Dover conoscere i nuovi compagni, i nuovi professori e abituarsi all’idea di non rivedere più i miei vecchi amici.
Però, dopotutto, mi piaceva l’idea di ricominciare tutto da capo.
Dovevo solamente lasciare che le cose accadessero.
 
 
 
«Lei è quella nuova» sentii una ragazza sussurrare ad un'altra osservandomi, facendomi sentire a disagio. Di solito non mi dispiaceva se qualcuno si accorgesse di me, ma in quel momento, essere al centro dell’attenzione era l’ultima cosa che volevo.
Passai a ritirare gli orari e cercai la mia classe, provando ad ignorare l’imbarazzo di non conoscere nessuno ed essere sola.
Mi sedetti all’ultimo banco, l’aula era ancora vuota, dato che tutti gli alunni erano all’esterno a chiacchierare tra di loro.
Al suono assordante della campanella, la classe cominciò a riempirsi.
Nessuno osava occupare il posto accanto al mio.
Se l’anno cominciava in quel modo, non pensavo sarebbe migliorato.
Il professore entrò tirando per il colletto un ragazzo biondo.
«Horan, se ti trovo un'altra volta a fare quello che stavi facendo, ti spedisco dalla preside. Oggi la passi liscia solo perché è il primo giorno. Ora siediti all’ultimo banco» il mio cuore sussultò, quando mi accorsi che l’unico posto all’ultimo banco libero era quello accanto a me.
Il ragazzo si avvicinò a me, sedendosi sulla sedia vicina alla mia.
Tenni lo sguardo basso, finché il professore non pronunciò il mio nome, facendo l’appello.
«Beth Lightwood. Sei nuova, vero?» mi chiese l’uomo seduto alla cattedra, mentre tutti gli sguardi si spostavano su di me.
«Sì» riuscii a sussurrare, per poi ripetere a voce più alta, visto che nessuno aveva sentito, tranne il mio compagno di banco, che aveva riso lievemente.
«Di dove sei?- mi chiese il ragazzo, spaparanzandosi sulla sedia, incrociando le braccia all’altezza del petto –Non capisco di dov’è il tuo accento, hai detto solo una parola» si spiegò meglio, accompagnando le sue parole con un alzata di spalle.
«Sono irlandese, mi sono trasferita ieri» gli occhi azzurri del biondino cominciarono a brillare e la sua bocca si aprì formando una piccola ‘o’ dallo stupore.
«Anche io sono irlandese! Mi sono trasferito qualche anno fa! Mi manca così tanto l’Irlanda» confessò con sguardo assente e malinconico. Mormorai un “Mi dispiace” non sapendo cos’altro dire.
Lui alzò lo sguardo guardandomi e sorridendo lievemente.
Sussultai, pensando che quello sguardo mi fosse maledettamente familiare.
Il biondo alzò un sopracciglio leggermente divertito dalla mia reazione, per poi girarsi verso la cattedra e continuare a seguire la lezione.
Dovevo ammettere che era davvero un bel ragazzo e mi schiaffeggiai mentalmente per non aver capito da subito che lui fosse irlandese.
Si vedeva da lontano un miglio con quelle guance rosse, la carnagione chiara e quella stana aria da elfo.
«Tu come ti chiami?» domandai curiosa. Il ragazzo si girò nuovamente verso di me sorridendo, e mi accorsi che uno dei denti davanti era leggermente storto, ma non rovinava il sorriso, anzi, lo rendeva ancora più particolare.
«Niall Horan, sono il pagliaccio della classe se ti può interessare» ridacchiò, e mi accorsi che aveva la risata più bella che avessi mai sentito.
 
 
 
«Buon compleanno Beth!» urlarono in coro le persone riunite accanto a me, facendomi colorare le guance per l’imbarazzo. Era il mio sedicesimo compleanno, e tutti i miei parenti erano venuti dall’Irlanda per festeggiarmi.
Tra le moltitudini di barbe e capelli bianchi, spuntavano un ciuffetto biondo e un sorriso smagliante, che non entravano decisamente nel contesto.
Era così strano avere un migliore amico maschio e nemmeno un’amica femmina, però a me andava bene così, Niall era così solare e dolce che mi bastava avere solo lui e nessun altro.
Gli volevo bene, anche più di quanto si può voler bene ad un semplice amico.
Mentre gli invitati mangiavano la torta e chiacchieravano tra di loro, una mano mi afferrò il polso e mi trascinò fuori dalla mischia, verso la mia stanza.
«Ti devo dare il mio regalo e non mi va di avere gli sguardi di tutta la tua famiglia addosso» mi spiegò ridacchiando e chiudendo la porta della mia stanza alle sue spalle.
Si infilò una mano nella tasca posteriore dei jeans e ne tirò fuori una scatolina infiocchettata, che poi mi porse.
«Spero ti piaccia» sussurrò grattandosi la nuca, imbarazzato.
Cominciai a scartare il pacchettino, sentendo il suo sguardo addosso e arrossendo.
Aprii la scatola e vi trovai un ciondolo a forma di trifoglio in argento, con una catenina dello stesso materiale. Spalancai la bocca dallo stupore e corsi ad abbracciarlo.
«Oh mio Dio, Niall, è stupenda. Grazie, grazie, grazie» lo ringraziai affondando con il viso nel suo collo. Lui ridacchiò nuovamente e nervosamente, poi circondò insicuro i miei fianchi, ricambiando l’abbraccio.
«Ho pensato che l’Irlanda è la cosa che ci accomuna di più, poi quando ho visto il ciondolo ho pensato subito a te e ho capito che sarebbe stato il regalo perfetto» mi raccontò, facendomi sentire in un attimo speciale.
Mi staccai dall’abbraccio improvvisamente imbarazzata, boccheggiando qualcosa di incomprensibile. Non l’avevo mai abbracciato in quel modo, ed ora potevo capire il motivo del suo imbarazzo.
«Vuoi che te la metto?» mi chiese poi, sorridendo entusiasta.
Io annuii e gli porsi la collana, per poi girarmi e permettergli di agganciarla. Niall aprì la catenella e fece posare il ciondolo nell’incavo tra i miei seni, le sue mani fredde sfioravano la mia pelle accaldata, mentre faceva passare il filo argentato attorno al mio collo. Quando chiuse il gancetto, io stavo trattenendo il respiro. Mise le mie mani sulle mie spalle e mi fece voltare verso di lui, per poi far scivolarle lungo le mie braccia, facendomi venire i brividi.
«Ti sta benissimo» affermò, con lo sguardo puntato su di me. Teneva la bocca semiaperta e respirava quasi affannosamente.
Si avvicinò, fino a quando le nostre labbra si sfiorarono appena. Mi scansai, avendo paura di sbagliare, e lui mi osservò con sguardo perso.
«Non lo so, Niall. se stessimo facendo la cosa sbagliata?» gli chiesi preoccupata, lui sorrise lievemente.
«Lascia che le cose accadano, Beth» mi sussurrò vicino al mio orecchio, per poi mettere le sue mani sui miei fianchi e baciarmi. Il mio cuore cessò per un attimo di battere, per poi ricominciare più veloce di prima, sentii un nodo chiudermi lo stomaco per tutto il tempo che le sue labbra restarono sulle mie.
Quando si staccò, vidi il suo sguardo andare dietro di me.
«Anche io avevo un peluche come quello da piccolo,- disse ridacchiando e indicando il piccolo leprecano seduto sul mio letto –poi lo regalai ad una bambina, ma non essere gelosa» scherzò, per poi tornare a guardarmi.
 
«Tieni» mi porse il suo piccolo leprecano di peluche, che afferrai sorridente.
«È il mio peluche preferito, mi ha detto che vuole stare con te per oggi» continuò grattandosi la nuca, imbarazzato.

 
Staccai le sue mani dai miei fianchi, improvvisamente infastidita.
 
«Perché non gioca più con me, mamma? Cosa gli ho fatto?» chiesi a mia madre, guardandola con i miei piccoli occhi lucidi ed impauriti.
«Lascia stare, lascia che lui giochi con gli altri bambini, lascia che lui si allontani da te e che se ne penta».
 
Gli occhi mi si inumidirono guardandolo.
Mi ero ordinata di dimenticare che la gente si allontanasse da me, da quando lo conoscevo, perché lui in quell’anno c’era stato, e per una volta avevo pensato che a qualcuno potevo piacere.
Ed invece no, lui mi aveva abbandonata prima ancora di conoscermi, ed io avevo la terribile paura di vederlo andare via di nuovo.
«Mi hai abbandonata quando ero solo una bambina!- il suo sguardo sembrava confuso e preoccupato, mentre cercava afferrare i miei polsi per farmi calmare, inutilmente -È tutta la mia fottuta vita che lascio che le cose accadano, da quando tu mi hai lasciata! Ora mi sono stancata, Niall» era la prima volta che alzavo la voce con Niall, lui sembrava agitato, mentre cominciava a realizzare che la bambina a cui aveva affidato il suo peluche ero io.
«Beth, ero solo un bambino! Non potevo capire ancora quali persone erano più importanti per me. Quando quei bambini non videro il mio peluche, mi invitarono a giocare e mi dissero che se volevo frequentarli ancora dovevo smetterla di parlare con le femmine. Loro erano tanti, tu una sola, ero solo un bambino che voleva avere degli amici!» lo osservai con sguardo triste, la sua pelle era diventata bianco latte.
«Però io ero l’unica che ti aveva accettato così com’eri, non ti avevo chiesto di cambiare» sussurrai, sfinita dalle urla, mentre una lacrima scivolava giù sulla mia guancia.
«Mi dispiace» abbassò lo sguardo, consapevole di aver sbagliato. Per un attimo mi sembrò di rivederlo bambino, con la testa bassa, mentre mi raccontava di non essere accettato dagli altri.
«Vai via,- lui alzò lo sguardo di scatto, non avendo ricevuto la risposta che si aspettava –avevi detto che mi avresti salvata, invece non l’hai fatto, vai via, ti prego» fece un passo indietro, per poi girarsi.
«Niall- lo fermai e lui si girò speranzoso verso di me. Mi staccai il ciondolo dal collo e presi il leprecano di peluche, per poi porgerglieli –questi sono tuoi».
Niall afferrò gli oggetti e mi rivolse un ultimo sguardo prima di uscire.
Mi accarezzai lentamente il collo con la punta delle dita, dove poco prima si erano posate le sue mani.
«Avevi detto che mi avresti salvata» sussurrai, con la voce spezzata dalle lacrime, scivolando piano a terra.
 
 
 
Girai lo sguardo da un'altra parte, quando lui mi affiancò all’uscita da scuola.
Sbuffai, infastidita, e lui sospirò di risposta.
«Per favore Beth, ero un bambino, cosa nel sapevo io sui sentimenti? Un bambino di quattro anni pensa solo ad avere tanti amici e a giocare» lo ignorai, anche se aveva ragione, in parte. Probabilmente se non lo avevo perdonato era solo perche avevo paura. Paura di fidarmi di lui e di rimanere sola di nuovo.
«Non riesco a stare nemmeno una giornata senza ridere e parlare con te, senza vedere il tuo sorriso, il modo in cui ti sposti i capelli su una spalla, le tue guance che si colorano ogni volta che ti senti in imbarazzo…- lo degnai finalmente di uno sguardo, e mi accorsi che stava fissando il vuoto, davanti a se, sorridendo tristemente. Si girò verso di me, facendomi sussultare –Ti amo» ci misi un po’ ad elaborare tutte quelle parole, e quando ne capii il significato spalancai la bocca sorpresa.
Aveva detto di amarmi? L’aveva davvero fatto?
Lui? Che mi aveva baciata solo la sera precedente?
Lui? Che era stato il mio migliore amico per quasi un anno?
Presi aria per rispondere, ma dalla mia bocca non uscì nemmeno una parola.
Ci fermammo entrambi, e lui mi prese il viso tra le mani, per poi avvicinarlo al suo.
«Cosa hai provato ieri sera? Sii sincera» quasi non ascoltai nemmeno le sue parole, tanto ero dispersa nel blu dei suoi occhi.
«Io non…- scossi la testa, confusa –Io volevo che tu mi baciassi, la velocità dei miei battiti mentre le tue mani erano su di me era di sicuro fuori dal normale, però pensavo che fosse tutto sbagliato, dopo che mi hai detto ‘Lascia che le cose accadano’. È una vita che me lo sono sentita dire e che me lo sono detta, da quando sono con te mi sento diversa, speciale, e quella frase ti faceva sembrare come tutti gli altri, e faceva sembrare me la bambina di quattro anni che aveva appena perso un amico e si dava la colpa di tutto» confessai, dicendo le cose come le pensavo, mentre le parole scivolavano dalle mie labbra come un copione.
«E se io ti dicessi che mi sono innamorato di te? Questo ti farebbe sentire speciale? Ti sembrerebbe tutto giusto?» mi chiese, sorridendomi, e mi ricordai il sorriso di quel bimbo che mi guardava speranzoso di vedermi il giorno successivo. Annuii, e lui pronunciò nuovamente quelle due parole, e il mio cuore perse un battito, e le sue labbra toccarono le mie, e io mi sentii nel posto giusto.
«Ehy Niall, sai una cosa?- lui mi guardò alzando un sopracciglio, aspettando che parlassi –Tu sei un angelo, non un supereroe» sorrise, e riprese a baciarmi, sentii che tutto era perfetto, e in un attimo mi ritrovai in paradiso, con il mio angelo irlandese.



 
  
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