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Autore: Roxar    21/09/2013    7 recensioni
"— Resterò fuori tutto il giorno — disse Magnus. — Vieni a portare via le tue cose da casa mia. Lascia le chiavi sul tavolo da pranzo."
(Tratto da City of Lost Souls)
Così finisce il loro mondo. Non con uno schianto, ma con un lamento.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Autore

Autore: Roxar
Fandom: Shadowhunters/The Mortal Instruments
Titolo: Non con uno schianto, ma con un lamento
Personaggi: Alexander "Alec" Lightwood, Magnus Bane
Coppie: Alec/Magnus
Tipologia: One-shot
Genere: Introspettivo, Angst, Sentimentale
Rating: Giallo
Avvertimenti: Slash, Missing moments
Introduzione: — Resterò fuori tutto il giorno — disse Magnus. — Vieni a portare via le tue cose da casa mia. Lascia le chiavi sul tavolo da pranzo.
(Tratto da City of Lost Souls)
Così finisce il loro mondo. Non con uno schianto, ma con un lamento.
NdA: Volevo scrivere questo da un sacchissimo, lo giuro. Ma non ho mai avuto giornate veramente tristi e uggiose. Non fino ad oggi. Non che sia una giornata triste, o uggiosa, o piovosa. Ma ero ispirata, ecco.
E quindi niente, è una spassionata versione di come sono andate le cose quando Alec è andato a casa di Magnus a recuperare le sue cose.
Ovviamente, tutti noi, alla fin fine, speriamo non l'abbia mai fatto.
Okay, buona lettura!
Passo e chiudo.

 

____

 

A te.

 

_____

 

And I count my sins, and I close my eyes, and I take it in, and I’m bleeding out, I’m bleeding out for you, for you1.
–E conto i miei peccati, e chiudo gli occhi, e lo accetto, e mi sto dissanguando, mi sto dissanguando per te, per te.

 

Non è sera, non è il crepuscolo.
È quel brevissimo momento di incertezza che precede l'una e segue l'altro. È il cielo che resta sospeso tra l'azzurro del pomeriggio e il blu della sera, è il sole aggrappato ai tetti degli edifici più bassi, che puoi solo intuire, ma non vedere. È la luna piena che indugia sulla linea dell'orizzonte, d'un arancio sbiadito e bruciato, con i suoi molti crateri che, visti da qui, assumono come la forma di una bestia dalla grossa bocca spalancata.
È il momento in cui i lampioni ammiccano un paio di volte prima di stabilizzarsi, generando una luce pallida e cruda come il sole dell'alba, che illumina, ma non scalda.
È quando il mondo diurno va a dormire, cedendo il posto ad una sua copia più oscura, più singolare, forse da allontanare.
È quando le tue scarpe battono quelle molte strade, svincoli e vicoletti ombrosi che hanno mandato a memoria, conducendoti all'ombra di un palazzone dall'aria instabile che serba, ironicamente, lo spettro dei momenti più stabili della tua vita.
Non è sera, non è il crepuscolo.
È quel brevissimo momento di incertezza che precede l'una e segue l'altro. È quando sollevi la testa e i capelli, adesso troppo lunghi, si afflosciano sulle tempie, aprendo il sipario su ciò che adesso ti è precluso. Su ciò che tu stesso hai contribuito a farti precludere.
Non c'è luce alle finestre. Non ci sono battenti aperti e note martellanti di una canzone che non riesci mai a farti piacere. Non ci sono sbuffi di vapore che sgattaiolano via dai piatti bollenti, non c'è il profumo pungente e delizioso del cibo cinese materializzato – rubato – sul piccolo tavolo scheggiato appollaiato proprio sotto il davanzale.
– Mio Dio – sussurri, come davanti alla più grande catastrofe a cui tu abbia mai assistito. Una tragedia che porta il marchio della tua paura e della tua impulsività, che porta il tuo nome scritto tra un anello e l'altro di quella catena di distruzione che oggi ti ha trascinato qui, sotto una casa che volevi fosse anche un po' tua e che, d'ora in poi, ti è concesso solo di vedere da lontano.
Dovresti infilare la mano nella tasca destra, là dove il mazzo di chiavi pesa e brucia contro la stoffa, contro la pelle, smettere di posticipare un momento che sai essere inevitabile. Perché per troppi giorni ti sei ripetuto lo faccio domani e domani non l'hai fatto, per troppi giorni ti sono stati recapitati messaggi dal mittente giusto, ma dal contenuto che ti è sempre sembrato così sbagliato, così impulsivo come impulsivo sei stato tu.
È ora.
Ora di avanzare sino allo zerbino sbiadito, spalancare il portone, raccattare le tue cose e uscire dalla vita di Magnus. In punta di piedi, ma con il rumore di uno schianto.
Ora di contare i peccati, chiudere gli occhi e accettare ogni cosa, nel bene e nel male. Nel bene e nel male.
Ora di togliere la benda e far scorrere il sangue marcio e purificare quello che resta. Dissanguarti per sopravvivere. Che amara ironia è diventata la tua vita!
Ora di afferrare le chiavi, Alexander, aprire la porta, colpire le scale con passi di gomma, aprire un'altra porta. E infine, chiuderle tutte.

 

Don't look back, turning to rags2.
–Non guardare indietro, finirai a brandelli.

 

E adesso eccoti qui, in cima alle scale, in cima al mondo dalle fondamenta scosse pronte a convertirsi in polvere3. Il tuo.
Le dita tremano mentre si affannano per cercare la chiave giusta – lunga e sottile, quella forgiata nel metallo colorato di verde perché, all'epoca, ti sembrava un buon auspicio – e il mazzo tintinna, rompe un silenzio che non vuoi rompere, rischia di svegliare quei fantasmi di un passato non poi così passato che proprio non sapresti come affrontare.
Quando finalmente la rintracci è doppiamente difficile inserirla nella toppa, spingere il battente da cui non filtra luce, ma buio.
Ti senti come una sorta di ladro a cui è stato accordato il permesso di rubare. E come un ladro, scivoli furtivamente nell'appartamento e badi di non produrre alcun rumore mentre la porta torna ad allinearsi allo stipite e l'oscurità ti è addosso.
Perché non è più quel momento incerto tra il crepuscolo e la sera. È come notte, adesso. Simile ad una di quelle molte notti che sapresti ricordare con precisione e dovizia di dettagli. Ma non uguale.
Senti il bisogno di tastare a tentoni la parete sino ad intercettare il profilo liscio dell'interruttore, dissipare il buio e tutto ciò che al suo interno si cela.
Nulla è cambiato. Casa di Magnus è la trasposizione di quel momento, quello tra crepuscolo e sera: immobile, ma pronto a scaraventarsi via e mutare ogni cosa. La disposizione del mobilio e i mobili stessi sono quelli che ricordi: il divano di ruvido cotone grigio (le dita nelle dita, la bocca nella bocca, una matassa di pelle e muscoli e ossa e capelli che sembrava non dovesse sbrogliarsi mai), il tavolinetto basso, dal vetro lucido che tuttavia conserva ancora gli aloni della vostra ultima cena ("Li vedi tutti quegli aloni che la tua lattina sta lasciando? Sappi che li pulirai uno ad uno. Sei avvertito."), gli applique affissi alle pareti, qualche rivista di moda accatastata nel porta–riviste accanto al divano, che sovente hai sfogliato solo per conciliare il sonno o strapparti una risata quando le cose ti andavano particolarmente male.
Sorridi a tutto come se avessi appena ritrovato dei vecchi amici. Allunghi la mano, sfiori ogni superficie per imprimerla bene nella memoria tattile. È deprecabile, controproducente e non dovresti, ma vuoi costruire questi ricordi così da poterli tirare fuori, come fotografie impolverate, quando le notti saranno particolarmente difficili o animate e avrai bisogno di ricordare ciò che hai perso per tentare anche solo di ritrovarlo.
Trai un ampio respiro, perché ti è sembrato di cogliere un sentore familiare... Sandalo. Ti scivola nel naso, nella gola e poi inverte bruscamente la marcia e risale nel cervello, annidandosi tra le fibre di quei ricordi troppo vicini per poter archiviare ma troppo dolorosi da tirare fuori.
Sfreghi delicatamente la gola, là dove il nodo stringe e non ti fa respirare. Fa male, Alec, perché le cose belle, tutte, in qualche modo fanno male. E quando finiscono, uccidono. Forse non subito, forse non del tutto, ma rosicchiano, rosicchiano come topi e ti strappano di dosso un brandello, uno soltanto. E forse cercherai di adoperarti affinché ricresca, come la pelle sbucciata sulle ginocchia, solo per capire che è perduto per sempre.
Adesso puoi capire il paragone tra il vetro e le cose belle. Fragili e splendenti e bellissime. Ma taglienti.
Adesso non vuoi pensarci. Vuoi solo trarti d'impaccio da questa brutta, brutta situazione e andare via, cercando poi di resistere, nei giorni che verranno, alla voglia che avrai di tornare. A Magnus, dopotutto, i cani non sono mai piaciuti.
Stai per inoltrarti nella zona notte, armato del coraggio sufficiente che ti necessita per non accasciarti proprio qui, proprio ora e frignare come quando eri bambino e l'ombrello azzurro ti inghiottì, chiudendosi all'improvviso.
Ma qualcosa, nascosto tra i cuscini quadrati, attrae la tua attenzione. Fiamma e falena, non sai resistere. Un paio di libri con le orecchie ad alcune pagine.
Ti chini sulle ginocchia, carezzi la copertina morbida e lucida del primo libro, una raccolta di poesie di Thomas Stearns Elliot. E ti domandi da quando Magnus legga poesie, che da sempre aborre anche se lo diverte un sacco citarne qualcuna, talvolta.
Lo sfogli lentamente e l'evidenziatore giallo spicca in tutto quel mare di carta e inchiostro. Le parole contenute nella sua scia fluorescente ti appannano gli occhi, così, senza alcun apparente motivo.
Le rileggi, vuoi conservare anche quelle e la tragicità che emana da loro.
Così finisce il mondo / Non con uno schianto ma con un lamento.
E così è finito anche il tuo, di mondo. Non con uno schianto, ma con un lamento: quello della tua voce che gli domandava di restare e tornare, darti una seconda possibilità, un'altra soltanto. Quello della sua voce e del suo non che questo cambi qualcosa.
Non con uno schianto. Ma con un lamento. Sei costretto ad affondare gli incisivi nel dorso della mano e sentirli affondare nella pelle per risvegliare il dolore. Non piangerai, non qui e non ora. Scarti via il libro, lo getti da parte, ma sempre con la dovuta delicatezza.
Secondo libro. Altre poesie, poesie per bambini (per bambini?). Una raccolta di versi vergati dalla mano di un poeta che non conosci. Sfogli velocemente le pagine, cerchi Magnus tra l'inchiostro e la carta. E lo trovi a pagina quaranta, in una striscia di sgargiante evidenziatore verde.
Che cos'è l'opposto di due? Un solitario io, un solitario tu4.
Senti le labbra piegarsi in una curva lenta, gli angoli della bocca tirare verso il basso. Che senso ha raccontare ai bambini l'opposto di due? Non è già abbastanza doloroso per gli adulti? Non sarebbe giusto evitare loro queste perle di saggezza per elargirle magari in futuro?
Scuoti la testa, ricompatti il libro con un gesto secco della mano. Basta poesia, basta stralci di Magnus tra una pagina e l'altra. Ti rimetti sui piedi, scontento di sentire le ginocchia anchilosate e instabili; non fanno altro che ricordarti come ti senti tu, per tutto il tempo. Anchilosato e instabile. Stanco e affannato. Abbracci la stanza con un ultimo, mesto sguardo.
– Addio – sussurri a nessuno, assecondando quel bisogno di porre un punto di chiusura a tutto. Tutto.

 

I've got a lot that's on my mind, I cannot breathe5.
–Ho un sacco di cose per la testa, non riesco a respirare.

 

Trema, il tuo mondo.
Nuove crepe affliggono il terreno sotto le tue scarpe e non filtra luce, ma sbuffi di tenebra. Trema come la Stregaluce prima di estinguersi.
Trema e non sai a cosa appigliarti, non più. In questa camera c'è una tale concentrazione di voi che ti sembra di stare respirando aria malsana e pesantemente contaminata, tossica.
Tremi anche tu. Tremano i tuoi passi che ti portano lì, fino al letto, fino a quella sponda che volevi fosse tua per sempre. Trema la tua schiena mentre si piega in avanti per arraffare il cuscino di Magnus – marchiato da sbavature di glitter e gel per capelli – e rigirartelo tra le mani. E tremano anche le tue dita quando lo scaraventano via non appena l'effluvio di sandalo e sapone da bucato solletica i tuoi sensi. Atterra senza rumore. S'accascia in sussurro di piume e stoffa.
Non con uno schianto, ma con un lamento.
Succede all'improvviso, non te ne rendi neppure conto. L'attimo prima sei in piedi davanti al letto dalle lenzuola sfatte, quello dopo sei costretto ad aggrapparti allo spigolo della cassettiera mentre tutto perde senso e un'onda di emozioni contrastanti risale dallo stomaco, riversandosi in quel punto dolente in mezzo al petto.
Come hai mai potuto anche solo pensare di sottrargli l'immortalità? Come hai potuto perdere di vista le cose per ritrovarle poi spezzate ai tuoi piedi?
Allenti perfino la presa su te stesso mentre ti tieni la testa tra le mani e ansimi, ansimi, rantoli. E ti concedi un singolo urlo mentre il tuo braccio destro spazza via tutto ciò che Magnus tiene sulla cassettiera. Fotografie e suppellettili vengono scaraventate via, a rompersi contro il pavimento. Come le cose ai tuoi piedi.
Non con un lamento. Ma con uno schianto.
Cos'è l'opposto di due? Un distrutto me, un solitario te.
E tra i vetri e la pellicola lucida delle molte fotografie, cogli un lampo azzurro. Un lembo di una sciarpa che forse porta ancora il tuo odore. Tenuta lì, su una cassettiera, tra le fotografie. Nascosta in bella vista.
Chiudi gli occhi, trattieni la rabbia. Così deciso a buttarti fuori dalla sua vita, così deciso a tenerti dentro casa sua.
Rialzandoti e rassettandoti i jeans, non ti resta altro che un grande perché.

 

If I leave tonight, I won't come back6.
–Se me ne andassi stanotte, non tornerei.

 

Indumento dopo indumento, oggetto dopo oggetto, recuperi parti di te per sottrarle per sempre a lui.
C'è quella T–shirt blu che ti ha regalato a Parigi e quella nera che molte volte hai indossato per dormire e che altrettante volte è volata via, ad ammucchiarsi sul pavimento.
Ci sono quei calzoncini sbiaditi che il sole del mattino trovava sempre per primi, eludendo le tende sempre mai chiuse del tutto.
C'è un mucchio di biancheria pulita. C'è perfino un quadrato di abiti che avresti dovuto indossare dopo la doccia, che svetta su tutti gli altri vestiti, intatto e che intatto infili nel vecchio zaino scucito e slavato. Abiti che forse indosserai comunque, ma in un contesto sicuramente diverso.
Ogni volta che tocchi un oggetto, ti ritrovi a chiudere gli occhi e rievocare un preciso momento ad esso collegato. Fa male. Come sferzare con la lingua un dente dolente. Non dovresti, ma non resisti. Vuoi come portare via tutto, tutto, anche ciò che non puoi né toccare e vedere.
Perché una casa non è solo quattro pareti, pavimento, soffitto e qualche porta. Certo, una casa è anche quello. Ma ciò che veramente è – ciò che questa è – in realtà... è un mucchio di ricordi appiccicati agli oggetti, incollati permanentemente7.
Spettri di risate e ansiti, residui di fruscii di pelle contro pelle, rimasugli di profumi e odori.
Una casa è chi ci vive. Questa casa era voi due.
Un solitario tu, un solitario lui.
Sfreghi le mani sul viso tirato e stanco, i polpastrelli che indugiano sui lividi che cerchiano gli occhi provati dalla penuria di sonno – o l'abbondanza di incubi.
Tiri la zip. Fa un rumore strano, graffiante, gorgogliante. Il rumore della fine, ti dici.
Lasci che un passante dello zaino scivoli sulla spalla. Lo senti pesare sulla schiena, dondolare e sbattervi contro mentre ti avvicini alla porta. Non sei pronto, neppure un po', ma non ti è rimasto tempo. Quello l'hai finito da un pezzo. E questo piccolo bonus che ti è stato accordato non ti soddisfa, proprio come le briciole non soddisferebbero un affamato.
Lentamente, i tuoi occhi azzurri – afflitti da giorni da un'ombra grigia che ne smorza la brillantezza e ne incupisce la tonalità – registrano tutto ciò che la memoria può serbare. La forma dell'armadio, le pieghe delle lenzuola riverse sul pavimento, perfino i pezzi di vetro e carta che non hai ripulito, come a voler lasciare un messaggio al padrone di casa. Prosegui e fissi la finestra, le tende aperte, la porta socchiusa del bagno adiacente. La porta della camera. Ripercorri il triste giro per un paio di volte, per sicurezza.
Per bisogno.
Chiudi gli occhi e afferri il pomello. Tiri il battente e, pure a palpebre calate, riesci a vedere ancora la stanza da letto. E voi. Ricordi freschi si mescolano ad altri più stantii, di voi sdraiati tra i cuscini, in piedi contro il muro. Seduti a gambe incrociate sul pavimento a giocare a Scarabeo.
C'è, adesso, un'ultima meta che ti attende. La fine della fine. Raggiungi adagio il tavolo da pranzo, ne tasti la superficie compatta e vetrosa sotto i polpastrelli. Vuoi memorizzare anche quella, anche se d'ora in poi non potrai che collegarla al momento in cui tutto è veramente finito, nonostante tu l'abbia rimandato di giorno in giorno. Un'ultima, ostinata occhiata all'ambiente prima che le tue dita, a fatica, lascino la presa sul mazzo di chiavi che tintinna piano.
Ancora, i tuoi occhi vengono intralciati da un velo di lacrime che non verserai. Premi l'indice e il pollice sulle palpebre. Attendi. Un lieve fruscio ti fa sussultare, le lacrime s'asciugano repentinamente.
Sorridi.
– Ti nascondevi da me? Non ce n'era bisogno – dici piano, chinandoti su un ginocchio per prendere tra le braccia il piccolo gatto che ti fissa quasi con, oseresti, tristezza. Accarezzi il pelo morbido come raso, cautamente, la tua mano che scandisce un ritmo ipnotico e tranquillizzante. Presidente Miao non perde tempo a far le fusa. Senti la pancia vibrare contro la mano sinistra. Riesci a sorridere.
Un'occhiata casuale all'orologio, però, ti rammenta che non puoi più stare lì. Perciò sollevi il gatto fino a che il piccolo muso soffice non è davanti ai tuoi occhi.
– Senti...– Non ci riesci. La gola si serra e ti senti soffocare. Sbuffi, deglutisci, fa male, ma ci riprovi.
– Bada a lui, va bene? Buttaci un occhio anche per me – sussurri, il tuo sorriso trema, distorto dalle lacrime che nuovamente ti appannano la vista e che ancora, con ostinazione, trattieni.
Che strano, pensi, fissando i suoi occhi verdeoro, c'è quasi della consapevolezza.
– Okay – dici, tossicchiando e rimettendo il gatto sul pavimento. Un'unghia resta incastrata nel giubbino e sorridi per tranquillizzarlo mentre, piano, smuovi la zampa, liberandola. È calda, dai cuscinetti soffici. Anche la mano di Magnus, pensi, era calda e morbida.
– Io vado, allora.
Eppure sei ancora qui, che indugi davanti alla porta. Dove tutto è iniziato. Dove tutto si sta esaurendo. Ne sfiori la superficie, vuoi immortalare anche quella, sotto la pelle. E la sensazione che trasmetteva quando la tua schiena nuda vi premeva contro, sospinta dalle mani di Magnus ben salde sui tuoi fianchi. Allunghi la mano, trattieni il dito sull'interruttore. La stanchezza ti si riversa addosso tutta assieme, portando con sé decine di notti insonni e mattinate ancora più lunghe.
Buio. Apri la porta e non ti volti neppure mentre tiri per chiuderla.
Fine.

Ti costringi a drizzarti sulle zampe posteriori e, dolorosamente, sproni il tuo corpo ad abbandonare le sembianze di Presidente Miao – il quale adesso ti guarda con interesse, appollaiato sul davanzale – per recuperare le tue.
Tutto muta, ma non i tuoi occhi verdeoro che, nel buio, brillano, ammiccano.
E piangono
.

 

I am on my knees. Oh, forgive me8.
–Sono in ginocchio. Oh, perdonami.

 

____

 

NOTE:
1. Imagine Dragons, Bleeding Out
2. Imagine Dragons, It's time
3. Ispirato ad un passo di "Non t'importa", Nals
4. Opposti, ancora opposti e qualche differenza, Richard Wilbur
5&6. Imagine Dragons, Hear me
7. Frase liberamente ispirata alla battuta di Jack Sparrow in "Pirati dei Caraibi – La maledizione della prima luna".
8. Imagine Dragons, Drive

   
 
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