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Autore: Vorarephilia    22/09/2013    1 recensioni
Soleil aveva sedici anni e una vita che a molti potrebbe apparire semplice.
Amelie aveva sedici anni e un'esistenza priva di significato.
Soleil aveva un'amica immaginaria, una volta.
Amelie aveva qualcuno con cui passare il tempo, una volta.
Soleil amava guardarsi allo specchio.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 4

Mi sei mancata così tanto.

Eppure mi hai lasciata andare...

 

Amelie

 

Il suo corpo, attorcigliato al mio, era caldo e rilassante.
Era sciocco, in parte, il mio desiderio che lei stesse zitta.
Ricordavo giorni, di dieci anni prima, in cui avevo sentito la sua voce chiamarmi disperatamente dallo specchio.
Era stato in quel periodo in cui mi aveva lasciata per tornare nel suo mondo.

Ero troppo debole, allora, per rispondere al richiamo.
Non ero ancora pronta per ascoltare le sue scuse e, se le avessi lasciato la possibilità di parlare, di sicuro non avrebbe detto altro che quello.

Mi dispiace.

Scusami.

Giustificazioni varie.

No, non ce l'avrei fatta.

Non ancora.
Avevo bisogno di qualche ora di pace, di vera pace, di tranquillità, di suoni.
Nel mondo giusto tutti bramavano il silenzio.
Forse non si rendevano conto di quanto assordante e doloroso potesse essere.
Di quanto facesse perdere la testa.
Io amavo quei piccoli rumori che si intrecciavano alla notte.
Le auto che passavano sotto la finestra di quella stanza, così simile alla mia; i gufi e le civette che strillavano i loro versi, il ronzio degli insetti e la voce, appena percettibile, del padre di Soleil, che borbottava cose incomprensibili contro i personaggi del suo libro.
C'era un'aria piacevole e fresca che girava nella stanza.

Soleil si stringeva a me, inconsciamente, per ricercare un calore che non avevo.
Ero fredda.
Fredda come il ghiaccio. Come uno specchio.
Mi sentivo debole e per nulla desiderosa di addormentarmi, anche se sapevo che mi avrebbe fatto bene.

 

Dovetti cedere definitivamente quando Soleil mi circondò la vita con un braccio e si accoccolò contro di me.
Senza che me accorgessi, il mio respiro si sincronizzò al suo, le palpebre si chiusero e il cervello si spense lentamente, lasciandomi precipitare in un buco di oscurità avvolgente e morbida.
Non feci incubi, quella notte.
Probabilmente sapevo che non c'era più alcun motivo di avere paura.
O forse ero semplicemente troppo stanca.

 

La mattina mi colse in uno stato di abbandono totale.

Ero da sola, di nuovo, ma non all'Inferno.

Ero in un Paradiso che non sarebbe mai stato mio, ma avevo la possibilità di visitarlo quanto mi pareva.

Almeno per quei pochi giorni in cui potevo restare senza iniziare a scomparire.

I Riflessi non erano fatti per vivere nel mondo giusto.

Così come i Giusti non potevano vivere troppo a lungo nel mondo sbagliato.

Nel mio mondo.

Il mondo specchio.

Quando Soleil ci era rimasta per un mese, il suo corpo, nel mondo in cui era nata, stava morendo.

E se lei fosse morta, sarei scomparsa anch'io.

Era questo che ci differenziava.

Io senza di lei non ero nulla, lei senza di me poteva vivere.

Nel senso più letterale della cosa.

Certo, non avrebbe mai più visto le mie pupille bianche negli specchi, ma la sua immagine ci sarebbe stata.

Un po' meno reale, un po' meno viva, ma ci sarebbe stata.

E non sarei stata io.

 

Soleil mi aveva lasciato una nota scritta a mano, sul cuscino.

Me ne accorsi non appena mi sollevai dal letto.

Erano poche parole, scritte di fretta.

 

Sono andata a scuola.

Non andartene, ti prego.

Torno il prima possibile.

Mi sei mancata.

 

Non l'aveva firmato.

Oltre a lei, comunque, non c'era nessuno, in quella casa, che riuscisse a vedermi.

Sua madre forse mi percepiva ancora, come quando io e sua figlia eravamo bambine, ma non ero nulla di più che un'ombra che si nascondeva in fretta, ai suoi occhi.

Di suo padre non me ne preoccupavo nemmeno.

Troppo concentrato sul suo nuovo romanzo per fare caso a creature invisibili che si muovevano in casa sua.

 

Solo alcuni dei Giusti potevano vederci.

C'erano tre categorie in cui i nostri studiosi, che di sicuro non parlavano ma sapevano scrivere benissimo, li avevano divisi: i Ciechi, i Riflettenti e gli Osservanti.

I primi non vedevano nessuno di noi, ed ero sicura che il padre di Soleil, John, fosse uno di loro.

I secondi potevano vedere il proprio Riflesso, nel caso fosse ancora vivo, negli specchi, magari solo per qualche istante, e lo avrebbero sicuramente visto se si fosse spostato nel mondo giusto. Per quanto riguardava i Riflessi altrui, ne coglievano solo per poco l'esistenza, ma il loro subconscio faceva in modo di ignorarli.

Mary era una di loro, una Riflettente.

I terzi, invece, potevano vedere la pupilla bianca del proprio alter-ego ogniqualvolta si guardassero in una superficie riflettente, e si accorgevano – e registravano come reale – la presenza dei Riflessi degli altri, qualora fossero nel mondo giusto.

A quest'ultima categoria apparteneva Soleil.

Ed era anche una Osservante molto potente, da quel che avevo potuto notare.

 

Decisi di darmi da fare. Non volevo aspettarla chiusa in quella stanza, immobile e isolata.

Girovagai per casa sua.

Era bella.

L'edificio era uguale a quello in cui abitavo, ma i mobili, i colori, le luci e tutto il calore che c'era, calore delle persone, della vita, un calore che non si poteva misurare con un termometro, erano molto diversi.

Nel mondo specchio, tutto era scuro e freddo e inanimato.

Invece qui, dalla parte giusta, ogni cosa era meravigliosa.

Ogni singolo, minimo, infinitesimale dettaglio mi trasmetteva delle sensazioni.

Non c'era nulla di ignorabile, nulla che si potesse tralasciare.

Le mie mani bevevano le scanalature e le incisioni di ogni pezzo di legno, di ogni oggetto, di ogni parete.

I miei occhi registravano inesauribili quantità di sfumature differenti per ogni colore.

Le mie orecchie percepivano ogni suono, rumore, melodia e voce.

Oh, le voci.

Erano così belle, così dolci, così vive.

Ognuna era diversa dalle altre, ma le amavo tutte. Da quella piagnucolosa e lievemente fastidiosa del bambino che faceva i capricci e gridava, a quella educata e sottile, un po' rauca, della vecchietta che passava sotto la finestra del salotto.

Non c'era nulla di più meraviglioso delle voci.

Nulla che mi rendesse più felice di questo viaggio.

 

Tuttavia, quando Soleil tornò a casa, mi resi conto che, quel Paradiso, non era sempre un posto felice.

I suoi occhi, blu come il mare di notte, erano arrossati e spenti, le labbra screpolate, la voce, che bisbigliò un debole saluto rivolto a suo padre, era cupa e inconsistente.

Non provai nemmeno a parlarle, o a consolarla.

Cosa avrei potuto fare io?

Non sapevo nemmeno perchè stesse in quel modo.

Era una Soleil che io non avevo mai conosciuto.

Qualcosa nel suo sguardo mi impedì di avvicinarmi, di parlarle, di esprimere tutte le meraviglie che avevo scoperto.

Era lo stesso sguardo vitreo dei Riflessi.

Una cosa che avevo sperato di non dover mai associare a lei.

A tutti, ma non a lei.

Perchè lei doveva essere migliore.

Doveva essere una Giusta diversa dagli altri, come io ero diversa dalla mia gente.

Lei doveva essere come il Sole, sempre calda, sempre accesa, sempre luminosa.

Perchè era così che la ricordavo e la conoscevo.

Era quella, la persona con cui mi sentivo bene, non questa copia spenta e triste.

Sembrava come addolorata e io non potevo fare nulla per farla sentire meglio.

 

 

 

Soleil

 

Il ritorno di Amelie mi aveva spiazzata.

Ero felice, ovviamente.

Da dieci anni, non desideravo altro che rivederla.

Eppure, c'erano ancora cose di lei che mi mettevano paura.

Forse perchè mia madre mi aveva insegnato così, dopo il coma.

O forse perchè conoscevo il mondo da cui proveniva e temevo che tutto quel tempo passato là da sola l'avesse cambiata radicalmente.

Non le avevo parlato la sera prima, se non per quelle due o tre frasi che ci eravamo scambiate.

Parole prive di significato, di sentimento.

Sentii una mano di mia madre che si appoggiava dolcemente sulle mie.

-Ti farai male.- mi disse.

All'inizio non capii, poi iniziai ad avvertire un certo bruciore ai palmi, dove avevo spinto con rabbia le unghie.

-Va tutto bene?- mi chiese, un po' preoccupata.

-Sì.- mentii e le feci un sorriso, giusto per tranquillizzarla.

-Oggi devi vedere la dottoressa.- mi ricordò, riportando la mano sul volante e fissando lo sguardo sulla strada.

Non volevo andare da Fannie Hewett, quel giorno.

Avevo qualcuno di molto più importante che mi aspettava a casa.

Qualcuno la cui sola presenza poteva mandare a puttane cinque anni di terapia psicologica.

Non che mi interessasse, io sapevo che era reale, solo che gli altri non potevano vederla.

Questo mi dimostrava che Amelie era mia e mia soltanto.

Non poteva che rendermi felice.

L'auto di mamma si fermò a pochi metri dalla scuola, le diedi un bacio affettuoso sulla guancia e la ringraziai, come sempre, del passaggio.

Valkirya mi corse incontro, sembrava affannata e agitata.

-Che succede?- chiesi.

Non ero certo pronta per la notizia che mi diede.

Sì e no la recepii, inizialmente.

Fu quasi dieci minuti dopo che compresi le sue parole, i suoi abbracci, le sue carezze accorate.

-...Ospedale... Incidente... Schianto...- tre parole.

Avevo capito solo tre parole del suo lungo discorso, e mi erano bastate.

Corvette era in ospedale. Aveva fatto un incidente con il motorino. Si era schiantata da qualche parte.

Maledizione!

 

Arrivai nello studio della dottoressa Hewett con quasi un'ora di ritardo.

L'avevo chiamata per spostare l'appuntamento, le avevo spiegato le mie ragioni.

Valkirya mi aveva accompagnato, insieme alle amiche di Corvette, Lauren e Glimmer, al pronto soccorso.

Trauma cranico, aveva detto il dottore.

Sala operatoria.

Vedremo come va la notte.

La notte è decisiva.

Non possiamo fare altro che sperare.

Ma le sue parole, quelle che avevo recepito, per lo meno, non mi avevano affatto aiutata a tranquillizzarmi.

Avrei voluto essere lì, quando si sarebbe svegliata.

Perchè Corvette si sarebbe svegliata, lo sapevo.

Doveva.

Non poteva abbandonarci tutti in quel modo.

Avevamo bisogno di lei.

Io avevo bisogno di lei.

-Soleil.- mi chiamò la donna, sfiorandomi la spalla e allungandomi un fazzoletto bianco di stoffa, elegantemente ripiegato.

Mi asciugai lacrime che non sapevo di aver pianto e strinsi il cotone così forte tra le dita che sentii uno strano scricchiolio d'ossa.

-Scusa.- singhiozzai.

-Non fa nulla. È una tua amica, è normale che tu sia preoccupata.- cercò di rassicurarmi.

-Lei è più di questo. Io ci tengo a lei, ma in un modo diverso, in modo migliore.- confessai.

Non mi ero spiegata al meglio delle mie capacità, ma lei comprese.

Non fece commenti e di questo gliene fui grata; si limitò ad annuire e appuntare qualcosa sul suo taccuino in pelle nera.

-Hai più avuto incubi?- mi chiese. Voleva riportare la conversazione sull'argomento principale di quelle sedute.

-Sì. Ho incubi tutte le notti. Ho passato un mese in coma! È normale che abbia degli incubi!- tuonai.

Mi sentivo i nervi a fior di pelle.

Sapevo che avrei dovuto rispondere di no.

Sapevo che avrei dovuto continuare a mentire.

-Cosa vedi nei tuoi incubi?- domandò, calma come sempre.

Lei non si faceva toccare dalle scenate dei suoi pazienti. Non poteva.

-Un mondo sbagliato. Il suo mondo.- dissi, accasciandomi sulla poltrona.

Non ne potevo più di mantenere quel segreto.

Ora Amelie era tornata. Potevo dimostrare al mondo che era reale.

Sempre che il mondo desiderasse vedere e ascoltare.

-Sbagliato? In che modo?- la curiosità si poteva leggere nei suoi occhi, nella sua postura, ora piegata verso di me per sentire meglio i miei sussurri.

-Tutto è grigio e freddo, ma non come la neve o il ghiaccio. È freddo perchè non c'è calore, di nessun tipo. Non c'è aria, non c'è cielo, non c'è luce, non ci sono colori. E tutto, tutto è silenzioso. Nulla fa rumore. Le persone non parlano, non ci sono animali di nessun tipo. La gente non parla mai, non guarda nulla. Hanno tutti le pupille bianche e colori cupi.- mormorai.

-Anche Amelie?-

-Ame parla. Parlava. Comunque si vede che è di quel mondo. Anche lei ha le pupille bianche. Capelli grigi, occhi verde acqua. Pelle chiarissima.- descrissi.

-E perchè? Insomma, lei è tua sorella gemella, non dovrebbe essere uguale a te?- chiese, ora il suo sguardo era sulle pagine di carta spessa e sulla penna che scriveva con veemenza.

-Lo so che non ci credi.- buttai lì, quasi offesa dal suo atteggiamento accondiscendente.

-Fai finta che io ci creda. Per ipotesi.- disse lei, prestandomi solo la minima attenzione necessaria.

Dovevo essere un caso particolarmente interessante se si premurava di prendere così tanti appunti.

Forse quando mentivo non la soddisfacevo abbastanza.

-Ho la mia teoria. Non c'è nulla di certo o, in qualche modo, accertabile. Quando noi ci specchiamo la prima volta, il nostro riflesso nasce anche nel mondo sbagliato. Solo che lì non ci sono luci, perciò ogni colore è più spento, meno vivido.- borbottai.

Ci avevo pensato tante di quelle volte che ormai ero sicura della mia spiegazione.

Lei annuì ma non sembrò molto convinta.

-Quindi è il mondo degli specchi?- mi chiese, ora davvero confusa.

Sembrava che per lei non avesse il minimo senso.

Ovvio, lei non aveva mai visto Amelie o qualcuno che provenisse da lì.

-Sì, più o meno.- risposi.

-Ed è per questo che tua madre ha paura quando stai allo specchio.- aggiunse lei per me.

-Già. Credo che in qualche modo sappia anche lei. Forse fa finta di niente, lo nasconde anche a se stessa, ma lei ha visto Amelie...- dissi.

-Quando?-

-Quando eravamo bambine. Lei guardava sempre nella sua direzione. Guardava lei e la vedeva. Solo che non vuole ricordarselo perchè le fa paura!- esclamai.

Se qualcosa di mia madre mi faceva arrabbiare, era di sicuro quello.

Quel suo negare, quel preferire l'idea di una figlia pazza, piuttosto che l'esistenza di qualcos'altro a questo mondo.

Mia madre era infantile e molto paurosa a volte.

Io e Fannie Hewett parlammo per tutta l'ora successiva e ci salutammo con la promessa che non le avrei mai più mentito.

Se doveva aiutarmi, voleva farlo in modo serio e, se per caso io non avessi avuto alcun desiderio di essere aiutata, come effettivamente era, allora sarebbe stata per me un'ascoltatrice.

Una persona a cui aprire il cuore, in modo del tutto non psicologico, ma umano.

Perchè anche lei lo sapeva: tutti hanno bisogno di sfogarsi e lasciar liberi i pensieri più profondi e importanti, di tanto in tanto.

 

Era tardi quando arrivai a casa.

Mamma non era ancora tornata ed era un bene. Non avevo voglia di vederla. Mi sentivo furiosa con lei, sebbene non avessi una ragione specifica per esserlo.

Forse la sua paura che, da bambina, mi aveva costretta ad abbandonare Amelie, o forse il suo rifiuto di ammettere la sua esistenza. O forse ancora, per il fatto che non mi sentissi per nulla a mio agio a parlarle di Corvette.

Non era colpa sua, quest'ultima cosa.

Eppure la incolpavo.

Perchè non aveva mai capito i miei segnali. Perchè non mi aveva mai chiesto nulla della mia vita sentimentale. Perchè non era mai presente quando avevo davvero bisogno di lei.

Come in quel momento, mentre osservavo Amelie che mi osservava.

Proprio come uno specchio.

Alzai una mano.

In segno di saluto.

Per dirle di non parlare.

Sembrava più a disagio di me, poverina.

Mi dispiaceva mostrarmi in quelle condizioni. Dovevo essere un brutto spettacolo.

Mangiai qualcosa, nonostante avessi lo stomaco chiuso.

Volevo essere in ospedale. Volevo stringere la mano di Corvette mentre attraversava la notte, esserle accanto, darle sicurezza e forza e aiuto.

Non potevo. Non ero una famigliare e gli orari di visita erano ormai terminati da un pezzo.

Non le sarei stata di nessuna utilità, potevo solo aspettare e vedere come sarebbero andate le cose.

 

Fu solo quando mi sedetti sul materasso che Amelie pronunciò qualche parola.

La sera prima non mi ero accorta di quanto la sua voce suonasse rauca.

Non parlare per dieci anni non poteva non avere conseguenze.

-Cos'è successo?- mi chiese, dolcemente, appoggiando una mano sulle mie, come quella mattina aveva fatto mamma.

-Una persona a cui voglio molto bene è stata ferita.- le dissi.

Non sapevo bene perchè, ma non credevo potesse capire l'amore, o il concetto di ospedale.

Per me lei proveniva da un altro mondo, troppo diverso dal mio.

-E morirà?- domandò con aria innocente.

Sentii il cuore che si fermava.

Che effetto dovevo farle?

Non mi ero mai preoccupata di lei.

Non le avevo mai chiesto come stesse, dopo tutti questi anni, anche se era stata in casa mia per un intero giorno.

E le parlavo, invece, di un'altra persona.

Il sottinteso era chiarissimo anche per me, che non lo desideravo far notare: questa persona è più importante di quanto tu non potrai mai essere.

L'avrei capita se mi avesse odiata per sempre.

-Non lo so.- risposi.

-Spero che non muoia.- sussurrò lei, facendosi più vicina.

-Perchè?- la sua reazione mi aveva stupita. Invece di provare gelosia ed invidia, era dolce come solo lei poteva essere.

Dolce e pericolosa, perchè l'avevo notata, quella punta di veleno nella sua voce.

E sapevo che non era data dalla raucedine.

-Perchè ti renderebbe ancor più triste.- rispose lei.

Era così ingenua, a volte.

Mi fece venire voglia di sorridere e di abbracciarla.

-Sei importante per me, Ame, e mi sei mancata così tanto...- le mormorai contro la pelle della spalla.

-Eppure mi hai lasciata andare...-

E lo notai chiaramente stavolta. Senza nessun dubbio.

Era odio.

La sua voce nascondeva un odio profondo nei miei confronti, nei confronti di quello che le avevo fatto, di quello che le stavo facendo anche in quell'istante.

Preferivo gli altri. Lei non era mai al primo posto nella mia lista delle priorità, mentre io lo ero sempre nella sua.

Mi odiava per questo.

E non potevo di certo biasimarla.

Conoscevo il posto in cui l'avevo lasciata da sola.

Un vero Inferno.

E ora che era tornata, pensavo ad un'altra persona.

Anch'io mi sarei odiata, certo, ma Amelie era pericolosa e il suo risentimento mi faceva paura.

  
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