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Autore: Medea00    22/09/2013    5 recensioni
Raccolta in cui sono contenute tutte le OS che ho scritto per le Seblaine Sundays e l'iniziativa domeniche a tema, organizzata dal gruppo Seblaine Events. Tutti i rating e i generi che mi passano per la testa.
23/06: Supernatural!AU
30/06: Babysitting
21/07: Dystopic!AU
1/09: Aeroporto
15/09: Magia
22/09: Literature!AU
6/10: 4 canzoni del tuo Ipod
20/10: Raffreddore
27/10: Scommessa
17/11: Esame andato male
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Blaine Anderson, Sebastian Smythe | Coppie: Blaine/Sebastian
Note: AU, Lime, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Questa fanfiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events.

 

AVVERTENZE
Questa ff è una AU del romanzo "North and South" di Elizabeth Gaskell. TUTTAVIA, visto che avevo raggiunto le 8000 parole ed ero a metà romanzo, ho deciso di dividerla in due parti. Ergo, la prossima parte la finirò in settimana (o direttamente domenica prossima). Non so se considerarla fuori concorso per questo, decideranno i giudici. Ad ogni modo, l'ho ambientata negli anni sessanta, mentre il libro è chiaramente di stampo ottocentesco (e si noterà molto). Chiedo scusa se ho scritto strafalcioni o se l'ambientazione non è convincente. Enjoy :D





1959.
 
Blaine Anderson era di Brunswick.
Non era certo la città più bella della Florida e nemmeno la più prosperosa; rispetto alle altre città di quello stato, quella aveva qualcosa di accogliente, di gentile. Risiedeva nei modi di fare delle persone che non erano abbastanza ricche da ostentare il loro portafoglio agli altri, ma nemmeno troppo povere da ignorare la loro condizione sociale. La città era piuttosto piccola e poco visitata, dal momento che poco distante c’erano mete molto più interessanti; era sempre soleggiata, con l’aria di salsedine che ti entrava nei polmoni, delle panchine accostate lungo le strade e un negozio di dolciumi all’angolo della piazza, proprio vicino a un delizioso cafè aperto fino a tarda sera. C’era un piccolo faro, sulla costa, presieduto da un guardiano di quasi ottant’anni che continuava a mandare a quel paese ogni cittadino tentasse di dargli una mano. Tuttavia, quando la sua povera schiena gli impediva di fare tutte le scale che portavano fino alla torre di controllo, trovava sempre qualcuno disposto a scortarlo, e senza nemmeno bisogno di chiedere.
Erano fatti così, i cittadini di Brunswick: incredibilmente orgogliosi e testardi, ma con un ottimismo e una fiducia nel prossimo insoliti, visti i tempi.
La crisi economica non si era abbattuta su quei luoghi, troppo ricchi di piantagioni, di spensieratezza e di pesce fresco; le notizie a loro giungevano tramite giornali o televisioni, le ascoltavano con pazienza, ma come cronaca di un paese a cui non sentivano di appartenere.
Isolati sul ciglio della Florida, con prati verdi e fioriti, famiglie che sorridevano e negozi sempre aperti ; lontani dalle intemperie del Paese, dallo sfarzo tipico della Costa Californiana, da ville di lusso e camerieri in completi eleganti, quella città era come un pezzo di Paradiso. E Blaine, semplicemente, ne era innamorato.
Aveva perso il conto delle volte passate a guardare l’orizzonte su una spiaggia bianca e pulitissima, con il suono delle onde a calmare i suoi pensieri, i gabbiani che volavano tranquilli, le barche da peschereccio lontane. Era nato lì, era cresciuto lì e aveva tutta la sua vita lì: i suoi amici che lo avevano accettato per quello che era, senza ombra di esitazione; sua madre e suo padre, che lo avevano sempre amato e appoggiato. Un lavoro sicuro, nonostante non avesse fatto nessun college, troppo innamorato delle arti, della musica, dello spettacolo. Tutti gli volevano bene lì, ed erano stati sempre disposti a dargli una mano.
Blaine sviò lo sguardo dal tramonto. Il biglietto del treno era ancora dentro la sua tasca, che gli appesantiva l’anima. Decise di avviarsi verso casa, una dimora semplice, ma dalla vista sensazionale, incastonata lì dove finiva l’asfalto e cominciava la sabbia. Nel tragitto c’era la gigantesca serra curata da sua madre: sapeva quanto adorasse i fiori, per lei erano importanti quasi quanto i suoi due figli. Entrare lì dentro era come entrare in un’altra dimensione.
Blaine dovette vagare un po’ per trovare quello che stava cercando; non conosceva bene i fiori come lei, e la serra era davvero troppo grande per sperare di riconoscerli subito. Verso metà strada, nascosto tra una siepe di gerani e delle camelie piantate su un terreno umido e fresco, c’era un vaso. Era piccolo, quasi invisibile per chi non avesse prestato attenzione. I fiori guardavano verso l’alto, con i petali grandi e luminosi.
Blaine ne colse uno con la massima delicatezza: era un ibisco giallo. Il fiore preferito di sua madre. Blaine, infatti, significava giallo. Era un nome che ispirava calore, dolcezza, felicità. Rispecchiava perfettamente quella città che lui amava così tanto e che, adesso, era costretto a lasciare.
 
 
Un fischio netto e assordante evidenziò con determinazione l’arrivo dei passeggeri a Norfolk. Lo stridìo dei freni che striscivano contro le rotaie bastò a coprire i pianti sommessi della signora Anderson, mentre tentava di coprire con un fazzoletto il volto stanco e visibilmente provato. Singhiozzava da ore, ormai, rendendo quel viaggio ancora più lungo e stancante di quanto non fosse stato. Blaine era stato in silenzio, così come suo padre: sapevano benissimo che nessuna parola sarebbe stata di conforto. Dopotutto, per una donna che aveva costruito la sua vita in una certa città, trasferirsi dalla parte opposta dell’America di punto in bianco era a dir poco disarmante.
Richard Anderson accompagnò sua moglie fuori dal convoglio, prendendole le valigie e assicurandosi, per quanto potesse, che avesse tutte le comodità possibili; ma la donna si rifiutava di parlargli, si rifiutava perfino di guardare i suoi occhi chiari e pieni di preoccupazione che l’avevano fatta innamorare esattamente trentotto anni prima. Si erano sposati relativamente giovani, sebbene non fosse una novità di quei tempi, ma avevan avuto il secondo figlio soltanto dodici anni dopo il matrimonio. Mentre Blaine era nel fiore della gioventù, con i suoi ventisei anni ben portati, loro erano sulla soglia dei sessanta, e avvertivano in modo molto più insistente la stanchezza del viaggio.
Fu per questo motivo che Blaine si offrì al posto del padre per cercare una casa. Norfolk non doveva essere una città molto grande e, inoltre, suo padre gli aveva assicurato che aveva già chiesto aiuto ad alcuni noti imprenditori della città.
“Sei sicuro di voler andare da solo?” Gli chiese Richard. Aveva la barba perfettamente curata, i capelli sporcati dal fumo che propagava nella stazione, gli occhiali grandi e sottili che fissavano il proprio figlio con amorevole apprensione. Erano molto simili, più simili di quanto Blaine e sua madre Susan erano mai stati.
“Papà, devo soltanto cercare una casa”, lo tranquillizzò, “Voi andate in albergo. Vi raggiungo appena posso.”
Susan non era molto convinta di quell’idea: avrebbe fatto volentieri a meno di passare delle innumerevoli ore con la sola compagnia di suo marito, ma era una donna debole, cagionevole di salute. Aveva bisogno di riposo e di piangere un altro po’, magari guardando dalla finestra quel paesaggio tetro e deprimente.
Blaine salutò entrambi i genitori con un abbraccio, e poi si armò di mappa della città e pazienza, fornito di tutte le indicazioni su eventuali case disponibili, che il padre aveva trovato grazie alle sue ricerche.
Per la prima volta, da quasi due giorni, era finalmente solo e libero di eliminare quel sorriso di circostanza fatto soltanto in onore dei suoi genitori. Adesso Blaine era serio, pensieroso, si aggirava per quella città grigia con l’espressione di un uomo che si sentiva completamente fuori luogo. Mentre lui indossava una camicia chiara, dei pantaloni marroni, i riccioli morbidi e scompigliati sulla fronte, le persone intorno a lui avevano tenute da operaio blu scuro o grigio topo; le donne, indossavano tutte delle gonne lunghe che arrivavano fino alle caviglie, con le maniche delle loro camicie macchiate erano arrotolate fino ai gomiti. Faceva incredibilmente freddo, ma nessuno sembrava accorgersene tranne lui: sembravano andare tutti di corsa, a Norfolk. Blaine non riusciva a capire il vero motivo di così tanta fretta; l’unica cosa che vedeva erano le fredde mattonelle di pietra, le case grigie che sembravano arrampicarsi l’una sull’altra, il cielo coperto di nuvole, dalle quali non passava nemmeno un filo di luce. Tutto sapeva di tetro, di buio, di freddo e di lavoro. Non aveva niente a che fare con la città in cui era cresciuto.
Aveva camminato per quasi mezz’ora quando, con sua grande sorpresa, scorse il mare. Era arrivato a una serie di scogli molto alti e minacciosi, con un vento freddo e pungente che giungeva fin dentro alle ossa. Lo sguardo di Blaine, per un momento, si illuminò, perchè lui adorava il mare e non avrebbe mai pensato di trovarlo lì, come se fosse un ritaglio di bellezza in mezzo a tutta quella tristezza. Ma non era il mare a cui era abituato: questo era incredibilmente spento, con delle onde che si infrangevano sugli scogli di prepotenza, sembravano perfino stanche di dover fare quel lavoro tutti i giorni: nascere, raggiungere la riva e lì morire, schiantandosi con crudeltà. Non c’erano pescherecci a costeggiare la terra, soltanto delle grandi e nere petroliere e, di lontananza, delle navi merci, che facevano manovra per entrare al porto.
Il faro era piccolo, del tutto privo di romanticismo o libertà. Era incastrato tra delle rocce appuntite e sembrava illuminare il luogo soltanto perchè qualcuno, molti anni fa, gli aveva detto di farlo.
Blaine tornò a incamminarsi verso il centro città, rendendosi conto, per la prima volta, di essere arrivato a Norfolk.
 
 
 
“Il soggiorno è molto spazioso.”
Blaine non fece in tempo a mettere un piede dentro quella casa,  di cui aveva trovato la porta aperta. Evidentemente, c’era già qualcuno interessato all’affitto. Non riuscì a vedere chi stesse parlando, erano due uomini, sicuramente, ma si trovavano al piano di sopra e lui, silenziosamente, cominciò a fare le scale a chiocciola.
“Oh no, la casa non è per me”, Disse il secondo uomo. “La sto cercando per conto di un collega d’affari del mio capo.”
Forse si riferiva a suo padre? Sapeva che era in contatto con un certo imprenditore, ma non aveva idea che fosse diventato addirittura suo socio. Tuttavia, poteva essere una possibile spiegazione del loro trasferimento, ma la verità era un’altra: suo padre aveva abbandonato la veste di parroco per una crisi di coscienza. Non riusciva più a credere in un Dio che puniva suo figlio, semplicemente perchè voleva amare un altro uomo. E, visto che un parroco scomunicato era di gran lunga più scandaloso di un figlio gay, avevano scelto di iniziare una nuova vita lì, dove il loro amico di famiglia gli aveva assicurato una vita serena e di ottimi affari. Non avevano capito che la serenità intesa da quell’uomo fosse quella del portafogli, e non dello spirito.
“E che tipo è questo signor Anderson?”
“Un sempliciotto.”
Ci fu un secondo di silenzio dopo quella domanda: probabilmente, i due uomini stavano ridacchiando.
“Da quanto ho capito, è un parroco. O meglio, ex-parroco. Niente di eccezionale. Non ha una grande fortuna.”
“Si sa”, lo sentì sbottare, “Gli uomini di fede e il denaro non vanno mai d’accordo.”
“La fede non ha mai portato la busta paga a casa”, esclamò l’altro, “Da dove viene?”
“Da Brumswick.”
“Brumswick? E che diavolo ci fa uno del Sud qui?”
“Forse non è stato un trasferimento di piacere. Forse doveva trasferirsi per un motivo preciso?”
Blaine strinse le mani a pugno. Era arrivato ormai in cima alle scale, riusciva a scorgere le schiene di quei due uomini pettegoli e irritanti.
“Beh, certamente imparerà che qui al Nord le cose funzionano diversamente.”
“Lo sappiamo bene.” Interruppe quella conversazione a dir poco ridicola con tono fermo e ben deciso. Gli uomini, però, si scomposero soltanto quando scoprirono che fosse proprio quel Blaine Anderson, il figlio di Richard Anderson di cui stavano parlando. Blaine non si degnò del loro sguardo imbarazzato. Con un tono sempre pacato ma, allo stesso tempo, orgoglioso, chiese chi fossero loro.
“Lavoriamo per Smythe”, disse il primo dei due. “Suo padre gli ha chiesto aiuto per trovare casa.”
“Bene.” Si guardò un po’ intorno; la casa non era male. Sicuramente era la migliore vista fino ad allora. “Quanto è l’affitto?”
“Se mi permette, credo che di questi discorsi ne parleranno il signor Smythe con suo padr-“
“Mio padre ha incaricato me per trovare casa”, puntualizzò con una punta di veemenza, “E non ho la più pallida idea di chi sia questo Smythe, quindi, sto chiedendo a lei quanto è l’affitto mensile per questa casa.”
“È interessato ad affittarla, quindi?” Tentò di chiedere l’altro, forse per sviare la conversazione e portarla su toni più cordiali. Ma Blaine non aveva voglia di parlare di quanto fosse luminoso il salotto o sulla condizione delle tubature dei bagni. Quei signori si erano permessi di spettegolare sulla sua famiglia, e se non fosse stata una casa davvero accogliente, probabilmente li avrebbe già mandati a quel paese.
“Sì. Mi piace molto.”
“Smythe pensa che questa casa potrebbe andare bene.”
Smythe. Smythe Smythe Smythe Smythe. Non sapevano dire altro? Non avevano un pensiero proprio? Contava soltanto il parere di questo fantomatico Smythe?
“Dov’è questo Smythe?”
Ci fu un brivido di silenzio.
“Come scusi?”
“Portatemi da lui.” S’incamminò a passo svelto lungo le scale. “Se non volete trattare con me, sarò io a trattare con lui.”
 
 
Scoprì che Sebastian Smythe era a capo di una grandissima centrale tessile, una delle tre più importanti di Norfolk.
Non le aveva mai viste dal vivo, forse perchè in Florida non esistevano, ma ne aveva sentito molto parlare. Non in toni buoni. In realtà, gli avevano detto che le fabbriche erano una scusa per ammalare le persone, e adesso cominciava a capire perchè in quella città si respirasse un’aria così pesante, e il mare fosse così inquinato. Tuttavia, trovarsi di fronte a un edificio del genere, così grande e imponente, lo fece sentire improvvisamente molto più piccolo e più timido di quanto non fosse. Aveva fatto lo strafottente di fronte a quei due, mosso più dall’orgoglio che da altro, ma tutto ad un tratto cominciò a chiedersi chi fosse davvero questo Sebastian Smythe di cui parlavano: quanti anni aveva? Come faceva a comandare una fabbrica così grande?
Venne introdotto nel suo ufficio con calma e ostentata cordialità, suggerendogli di aspettare lì l’imprenditore fino al suo arrivo.
Era un ufficio davvero semplice. L’unica nota di rilievo erano le pile e pile di archivi sistemate sugli scaffali della libreria, che circondava interamente tre pareti della stanza. La scrivania, sebbene ordinata e pulita, era sovrastata da una colonna di fogli di bilanci e altri numeri che lui non riusciva in nessun modo a capire.
Non doveva essere un lavoro semplice.
Si sedette sulla sedia davanti alla scrivania e attese che quel signore si facesse avanti.
Aspettò venti minuti; poi mezz’ora. Superati i quaranta minuti, gli sembrò tutta una grande presa in giro e uscì dall’ufficio a dir poco arrabbiato. Se c’era una cosa che non sopportava, era proprio la maleducazione di quelle persone che si approfittavano della sua buontà; lo diceva sempre sua madre, che era troppo buono e ingenuo. E doveva abituarsi all’idea che non si trovasse più a Brumswick.
La fabbrica era piena di operai alle prese con lavori di estrema precisione; era la parte più sostanziosa della fabbrica, ma Blaine cominciava a credere di trovarsi in una vera e propria città in miniatura. I batuffoli di tessuto volavano nell’aria come fiocchi di neve, così tanti che non si riusciva a vedere oltre i due metri. Nessuno badava a lui: erano troppo presi dal lavoro o, comunque, non interessati alla sua presenza lì. Il loro scopo era portare a casa lo stipendio, glielo si poteva leggere negli occhi stanchi e affossati, nelle labbra contratte in una smorfia, nei visi pallidi e smagriti. C’era solo un ragazzo che stava facendo una pausa, forse per staccare cinque minuti dal suo turno: teneva una sigaretta in mano e cercava insistentemente i fiammiferi dentro le sue tasche.
Blaine vide con i propri occhi i veri effetti della crisi economica americana. Ed era raccapricciante.
E lì, tra le donne che lavoravano come schiavi, gli uomini che indossavano i giornali sotto alle divise sgualcite per ripararsi dal freddo, sopra a una piattaforma collegata con delle scalette, c’era Sebastian Smythe.
Non c’erano dubbi che fosse lui. Nonostante l’aspetto di un ragazzo – doveva avere grosso modo la sua stessa età -, i suoi occhi verdi che controllavano ogni singolo movimento nella fabbrica erano più che sufficienti a capire il suo ruolo di autorità. C’era qualcosa di affascinante in lui. Forse, nei capelli castani pettinati all’indietro, o nel soprabito marrone che metteva in risalto le gambe lunghe e le spalle forti. Blaine non si rese conto di quanto lo stesse effettivamente fissando, fino a quando non vide il suo volto pallido mutare d’espressione nel ringhiare brutalmente contro un ragazzino che stava per accendersi la sigaretta.
Stephens, il suo nome, rimbombò per tutta la fabbrica.
E in un attimo Sebastian stava correndo dietro di Stephen, mentre lui cercava di fuggire alla sua presa. Ma non era abbastanza veloce, oppure, non aveva le gambe abbastanza lunghe. Fu raggiunto dopo nemmeno un minuto e scaraventato a terra con forza; tentò di coprirsi il viso, ma Sebastian riuscì comunque a dargli un pugno tale da spaccargli un labbro, mentre gli urlava quanto fosse idiota, imbecille, che doveva guardarlo negli occhi.
Blaine li aveva seguiti quasi per istinto. Non riuscì a tollerare un secondo di più.
“Smettila! Smettila subito!”
Lo afferrò per le spalle, noncurante di quanto fosse alto, e lo allontanò dal povero operaio trattenendo il respiro per la tensione. Sebastian si voltò verso di lui, i capelli non più ordinati, il fiato scomposto, gli occhi carichi di rabbia.
“Chi diavolo sei”, sibilò trai denti squadrandolo da capo a piedi. Ma Blaine non vacillò, non smise di guardarlo, non abbassò la testa come avrebbero fatto tutti.
“Mi chiamo Blaine Anders-“
“Sparisci.”
Sebastian si voltò di nuovo verso il ragazzo, non degnandolo di un ulteriore sguardo. “Stephens hai infranto le regole per l’ultima volta. Non ti azzardare a tornare mai più.”
“N-no, la prego signore, i miei figli hanno bisogno di mangiare!” Piagnucolò l’uomo sanguinante in volto, mentre si divincolava per mettersi sulle sue gambe.
“Meglio morire di fame che morire bruciati. Vai via. Ora!” Lo strattonò per un braccio, lanciandolo contro un ammasso di filai e facendolo cadere nuovamente come un peso morto. Gattonò fino all’uscita per poi scappare con le mani che si coprivano il volto. Blaine era pallido.
“E tu sei ancora qui.” Sebastian aveva il volto paonazzo dalla rabbia, le vene del collo che pulsavano freneticamente. L’uomo che aveva accompagnato Blaine fino alla fabbrica giunse in quel momento, dopo aver sentito tutto quel trambusto. Blaine avrebbe voluto dire a quello Smythe così tante cose, ma si trovava senza fiato. Lo sentì urlare di nuovo, voleva che andasse via. L’affittuario gli sussurrò di seguirlo, chiedendogli per favore, e lui si lasciò trascinare via da quella fabbrica senza opporre la minima resistenza.
Quello Smythe era un violento, un despota, una persona orrenda. Non aveva mai avuto un’impressione così negativa su qualcuno in tutta la sua vita.
 
Voleva soltanto tornare a casa, farsi una doccia calda e lasciarsi alle spalle quella giornata terribile, assieme a tutta quella città. Blaine camminava per le strade sporche di Norfolk con lo sguardo spento, quasi trascinando il suo corpo. Aveva voglia di piangere.
Ma poi, con sua grande sfortuna si accorse di essere arrivato nel quartiere sbagliato, quello dei sobborghi, della gente più povera, e lui era soltanto un ragazzino dall’aspetto benestante e un portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni.
Gli fu bloccata l’uscita da due uomini con la barba folta, l’aspetto inquietante. Volevano i suoi soldi; era un’elemosina, dicevano loro, ma Blaine temeva che quelle monete le avrebbero ottenute sia con le buone che con le cattive.
“Lasciatelo stare”, sentì dire da un ragazzo dietro di lui, che attirò immediatamente la loro attenzione. “Non prendetevela con i nuovi arrivati soltanto perchè non sanno conoscervi.”
Non avrebbe mai creduto che quei due uomini avrebbero abbassato la cresta così docilmente. Invece sì. Chiesero scusa al povero Blaine, e lo lasciarono alle prese di una nuova conoscenza, un ragazzo alto, dal fisico ben formato e un cappellino da operaio che gli copriva i capelli biondi: Sam Evans.
Sam era il figlio maggiore di otto fratelli. Suo padre era morto in un incidente di lavoro, e sua madre era troppo malata per lavorare. Così, visto che i suoi fratelli erano troppo piccoli, e non voleva che ingerissero la lanetta delle industrie tessili, Sam faceva doppio lavoro sia da Sherman che da Paynes, pur di trovare qualcosa con cui campare. Aveva qualche anno in più di Blaine, eppure, sembrava molto più vecchio. Le sue mani erano rovinate dai filatoi, i suoi capelli sarebbero stati belli, se solo avesse avuto modo di curarli. Doveva essere stato un ragazzo molto bello, pensò Blaine, ma adesso quella bellezza restava soltanto un ricordo. I suoi fratellini stavano giocando con una bambola di stracci, troppo presi dal loro nuovo giocattolo per badare a loro.
“Non sono cattivi qui.” Spiegò Sam, dopo aver preparato due tazze di caffè a casa sua. “Sono soltanto affamati. Molti di loro hanno dei figli che muoiono di fame.”
“È per via della crisi?” Blaine sorseggiò il liquido amaro con estrema calma: era come un toccasana, visto il freddo e le intemperie visssute in giornata. Sam si strinse nelle spalle, non sapendo bene come rispondere: “Dicono che la crisi è nell’Europa e noi ne stiamo subendo le conseguenze. Quello che so io, è che vengono licenziati dieci lavoratori al giorno e ci abbassano lo stipendio di dieci centesimi all’ora. Se ne approfittano, Blaine, è questa la verità. Abbiamo bisogno di più soldi e loro vogliono spendere sempre meno soldi. Sono tutti uguali, gli imprenditori. Avidi e senza cuore.”
Non fece fatica a credergli.
“Ma... senza di voi, le fabbriche non potrebbero funzionare, giusto?” Blaine sviò lo sguardo verso una foto appesa alla parete sbiadita, raffigurante tutta la famiglia. Le immagini di quel povero ragazzo picchiato a sangue erano ancora vivide nella sua mente.
“La penso come te”, mormorò Sam, anche lui sovrappensiero. Blaine decise di cambiare argomento, approfittando per chiedergli una cosa.
“Grazie ancora per prima, con quei due signori, intendo dire. Mi avevano spaventato.”
“Non avevo dubbi, hai proprio l’aria di essere un sempliciotto. Ma tu la prossima volta dagli uno spintone e vedrai che non romperanno.” Suggerì Sam.
“Come facevi a sapere che sono nuovo di qui?”
Sam, senza nessuna malizia, cominciò a ridere così tanto da doversi appoggiare con i palmi sul tavolo in legno. Blaine arrossì di fronte a quel gesto, forse aveva detto qualcosa di terribilmente stupido senza rendersene conto: “Sembro... sembro così tanto un forestiero?”
“Sinceramente? Con i tuoi pantaloni in cotone e la tua pelle abbronzata? Sei del sud, e si vede. È per questo che nessuno ti prende sul serio.”
“Come sarebbe a dire?”
Sam trattenne un sospiro, appoggiandosi sulla sedia: “Voi del sud lavorate su piantagioni e pescherecci all’aria aperta. Non sapete cos’è il vero sacrificio, non sapete cosa vuol dire lavorare diciassette ore al giorno chiusi dentro a una fabbrica. Siete abituati al sole, ai fiori e alla bella vita. Noi invece speriamo soltanto di avere abbastanza giornali per coprirci la pancia d’inverno.”
“Beh forse non sapremmo lavorare a stipendi ridotti e in condizioni igieniche pessime”, Ribattè Blaine, stizzito, “Ma almeno sappiamo cosa vuol dire l’educazione.”
Sam lo guardò incredulo per diversi secondi, ma alla fine sorrise.
“Non vi facevo così orgogliosi, voi del Sud.”
“E io non vi facevo così schietti.” Gli porse la mano estendendosi per tutto il tavolo, pur di afferrare la sua. Nel momento in cui Blaine la strinse capì, dentro di sè, di aver trovato il suo primo amico lì a Norfolk.
 
 
Con il passare dei giorni la situazione migliorò leggermente. Avevano conlcuso con successo il contratto d’affitto – sancito da un dipendente di Smythe e il signor Anderson, in un pomeriggio – e ormai la famiglia aveva cominciato a formare la propria vita lì, un passo alla volta.
Richard Anderson insegnava filosofia in una scuola serale. Ma nessuno, in quella città, era innamorato della retorica e della teoretica, e non avevano tempo da perdere in discorsi che gli sembravano semplicemente parole buttate al vento. Ascoltavano, quando volevano, forse soltanto per rilassarsi un’ora dopo il lavoro o per scappare dai pianti della propria famiglia; perlopiù, dormivano. La vera soddisfazione di Richard erano, in realtà, le lezioni private. La città di Norfolk era divisa in due caste, quella dei lavoratori e quella della gente che ormai non aveva più bisogno di lavorare. Questi ultimi, in particolar modo, tenevano molto all’educazione dei figli, così mandavano i ragazzini viziati e spocchiosi dal signor Anderson perchè leggessero Ovidio, Platone o qualche letteratura classica.
Blaine aiutava la madre con le faccende di casa, rendendosi utile il più possibile; in realtà, cercava soltanto di evitare quel malessere che stava colpendo sua madre sempre più pesantemente.
Ogni tanto vedeva uscire dall’ufficio di suo padre qualche ragazzino con una serie di libri sottobraccio.
Non si sarebbe mai aspettato di vedere Smythe.
 
Mentre stava portando un carico pieno di libri in camera sua, Sebastian aprì la porta di scatto, e si trovarono uno di fronte all’altro.
“Blaine Anderson.” Commentò il primo, inarcando un sopracciglio. “Pensavo che non fossi a casa.”
“Invece ci sono.” Ribattè. Si guardarono in silenzio fino all’arrivo di suo padre.
“Blaine, conosci il mio nuovo allievo, Sebastian Smythe? Ha una mente brillante.”
“Ci siamo già conosciuti, a dire il vero, ed era una giornata no per me.” Sebastian non riusciva a smettere di guardare gli occhi grandi di Blaine, o le sue labbra carnose. “Stavo licenziando un mio operaio.”
“Oh, mi dispiace. Beh, sono cose che capitano, suppongo!” Esclamò il padre, cercando di rallegrare quell’atmosfera che era diventata improvvisamente glaciale. Blaine teneva lo sguardo a terra, non aveva voglia di guardare quel ragazzo.
“Un ragazzo che fuma nella mia fabbrica? No signor Anderson, non dovrebbe capitare. Per questo gli ho impartito una lezione.”
“Non gli hai impartito una lezione”. Era davvero troppo. Blaine alzò la testa di scatto, assottigliando lo sguardo: “Piuttosto, direi che lo hai picchiato a sangue soltanto perchè si stava fumando una sigaretta.”
Soltanto?”
Sembrava avesse appena detto una bestemmia, ma Blaine non arretrò. “È inutile che cerchi di giustificarti.”
“Non voglio, infatti. È vero, ho un pessimo carattere ed ero furioso, ma se tu avessi visto parte della tua fabbrica andare in fiamme per colpa di un fuoco accidentale, con tre morti e otto bambini ritrovati improvvisamente orfani, forse ci penseresti tue volte prima di dire soltanto.”
Richard guardava prima l’uno e poi l’altro con il sudore freddo che gli scorreva lungo la schiena. Blaine continuava a guardarlo come se volesse ucciderlo mentre Sebastian, piuttosto, sembrava come perso nei suoi pensieri, intento ad osservare il suo volto.
“... Sebastian, hai visto che bel tempo oggi? Sembra quasi che sia spuntato il sole!”
“Devo andare. La ringrazio per la lezione signor Anderson. Le va di venire a cena da noi, questo sabato?”
“Oh, beh, volentieri.”
“Bene.” Sebastian afferrò il cappotto e l’ombrello, lanciando un’occhiata a Blaine. “È invitata anche tutta la sua famiglia, ovviamente.”
“Temo che avrò da fare”, commentò Blaine per poi dargli le spalle e salire in camera, appena in tempo per sentire il mormorìo divertito di Sebastian che diceva “Ci avrei scommesso.”
 
 
Sebastian andava a lezione da Richard almeno tre volte a settimana.
Blaine era sempre molto attento a evitare di trovarsi in casa durante quelle ore; di solito usciva, andava a fare delle commesse per la madre, oppure faceva un salto da Sam, per parlare un po’ con lui e giocare con i suoi fratelli e sorelle.
Cercava sempre di tornare a casa il più tardi possibile; eppure, più tardi faceva, e più trovava Sebastian ancora seduto con suo padre, mentre discutevano animatamente di chissà quale letterato della storia antica.
Richard aveva una grande stima del suo allievo. Diceva che era un ragazzo molto intelligente, che non aveva potuto studiare per via di problemi familiari. Bene, forse aveva un fiuto per gli affari, ma non faceva di lui un ragazzo educato e intelligente, pensò Blaine.
E, soprattutto, non gli interessavano minimamente i gossip sulla sua presunta omosessualità.
 
Una volta, Sebastian si fermò a cena da loro. Con suo grande disappunto.
“Complimenti per la casa, signora Anderson”. Stavano assaggiando il pollo con patate quando Sebastian fece quel piccolo, ma gradito, complimento.
“Oh, beh, grazie Sebastian, ma non è poi tutto questo granchè. Ho fatto del mio meglio. Non rispecchia molto l’arredamento di qui, vero?” La donna arrossì esattamente come una ragazzina di sedici anni. Peccato che Sebastian non la vide, troppo preso com’era a guardare Blaine mentre masticava lentamente il suo boccone.
“No, ma se posso dirlo, forse è meglio così.” Sebastian distolse un attimo lo sguardo per sorridere alla donna.
“Ma tu adori Norfolk, non è vero? Qui siete molto... attivi.” Per non dire peggio, pensò Blaine.
“Certo.” Sebastian non ebbe nessuna esitazione nel dirlo. “Lavoriamo molto, ma io non lo vedo come un segno negativo. Preferisco darmi da fare qui, che fallisca o meno, piuttosto che avere una lunga vita nel sud, noiosa e senza preoccupazioni.”
“Non è affatto così.” Blaine parlò per la prima volta, posando di scatto la forchetta. “Non sai niente del sud. Forse siamo meno arrivisti di voi, questo è vero, ma almeno non c’è tutta la sofferenza. E tutto questo per cosa?”
“È un’industria tessile”, parlò a denti stretti.
“Un mercato a cui nessuno importa più da anni.”
Richard tentò di richiamare Blaine all’attenzione, ma i due ragazzi ormai erano presi in una sorta di conversazione privata, che non ammetteva nessun tipo di intruso.
“Se posso dirlo, Blaine”, pronunciò il suo nome lentamente, con un ghigno irritante quanto spontaneo, “Nemmeno tu sai niente del nord. O di me. Non siamo tutti quanti uguali, qualsiasi sia il tuo pregiudizio verso gli industriali.”
“Non è un pregiudizio, è un dato di fatto. Ti ho visto trattare i tuoi dipendenti come schiavi solo perchè sono sotto di voi.”
“No. Mi hai visto licenziare un uomo che stava per mettere a repentaglio la vita di tutti gli altri.”
“Non sono tutti quanti ricchi fortunati come te, Sebastian. Imparalo.”
Forse Blaine aveva toccato un tasto dolente. Lo capì nel momento in cui il sorriso sul volto di Sebastian sparì del tutto, assieme a quell’aria divertita di chi è seriamente interessato a continuare quel dibattito. Adesso non aveva più voglia di parlare, o di discutere con Blaine, di qualsiasi argomento fosse. Liquidò la faccenda in una frase e nessuno ebbe più il coraggio di dire altro.
“Fortunato? Mio padre si è suicidato quando avevo sedici anni perchè aveva troppi debiti di gioco, la fabbrica stava fallendo e non sapeva più come fare a sostenere la sua famiglia. Ho dovuto imparare un mestiere che non mi piaceva quando volevo soltanto studiare, andare all’università e continuare a stare con ragazzi. Quindi no, Blaine, non credo di essere stato fortunato nella mia vita.”
Con la scusa di aver del lavoro da finire, lasciò il pranzo a metà, lasciando Blaine a scansare con la forchetta le patate presenti sul suo piatto.
 
 
Le settimane passarono con inerzia. Sebastian aveva sempre quelle lezioni con suo padre, ma dopo quel dibattito a pranzo, avevano sempre meno occasione di vedersi. Eppure, c’erano dei momenti, quando Blaine era particolarmente felice perchè sua madre si sentiva un po’ meglio, o il sole era comparso dietro alle nuvole illuminando i suoi occhi ambrati, in cui Sebastian si perdeva semplicemente a fissarlo mentre si occupava del giardino. E, in quei giorni, riuscivano perfino a conversare, mettendo da parte tutte le loro differenze e i loro diversi modi di pensare.
Al termine di quelle giornate, Sebastian e Blaine si salutavano con una stretta di mano, e Blaine ricambiava il sorriso del ragazzo, anche se, a dire il vero, era molto più di circostanza del suo.
Passò molto tempo con Sam e la sua famiglia; le loro condizioni peggioravano di giorno in giorno, mentre gli imprenditori erano sempre più severi. Le famiglie morivano di fame, la crisi avanzava, il settore tessile era un settore sulla via della decadenza in favore del mercato chimico, meccanico, energetico.
Era l’alba di una nuova era e loro appartenevano alla parte sbagliata della storia.
Fu per questo motivo che, in una rigida giornata d’inverno, ci fu uno sciopero.
Gli operai avevano occupato le fabbriche con picconi e vanghe, urlando alle porte dei loro datori di lavoro in cerca di aumenti, cibo, stipendi e condizioni di lavoro migliori. Nessuno degli imprenditori voleva cedere ai loro ricatti: si sarebbero rivelati l’anello debole, avrebbero fatto pensare ai lavoratori che potevano, effettivamente, esigere delle cose.
Tuttavia, lentamente, dal momento che le famiglie avevano bisogno di soldi, e gli imprenditori di lavoro, con il passare dei giorni chi più, chi meno, era tornato ai propri incarichi, sempre più deluso e amareggiato, con la consapevolezza di non aver ottenuto niente da quello sciopero, se non una busta paga in meno e dei figli più affamati e in lacrime.
L’unico datore che non acconsentì ai suoi lavoratori di tornare al lavoro fu Sebastian.
Aveva assunto dei lavoratori dalla Cina; era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, la scintilla che aveva dato fuoco all’assalto finale alla sua fabbrica.
Gli operai erano furiosi, devastati. Volevano le teste di quei cinesi che si erano chiusi dentro i magazzini enormi e non se ne sarebbero andati fino a quando non avrebbero riottenuto quei posti.
Blaine si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Era passato a casa di Sebastian per chiedergli il numero di un dottore molto bravo, dal momento che non conosceva i dottori della zona, e non sapeva di chi fidarsi: sua madre stava peggiorando sempre più in fretta, voleva le cure del miglior medico, e al più presto possibile.
Non si era reso conto della calma prima della tempesta, delle strade vuote, della fabbrica disabitata quando salì le scale del suo ufficio e trovò Sebastian con le mani trai capelli e il volto contratto in una smorfia.
Tuttavia, quando vide Blaine, il suo volto cambiò del tutto espressione.
“Che ci fai qui?” Domandò con tono arrogante, come sempre, ma con una punta di insicurezza che fece vacillare, per un momento, l’astio di Blaine nei suoi confronti.
“Ho bisogno di aiuto. Non volevo chiederlo a te, ma sei l’unico che conosco in questa città...”, sussurrò piano. Gli costava tanto ammetterlo, soprattutto a lui. “Mia madre, sta sempre peggio e... mi stavo chiedendo se tu conoscessi un dottore...“ Perchè stava balbettando? Perchè si sentiva così timido? Era solo Sebastian Smythe, dopotutto. Era la nemesi del suo migliore amico Sam. Era un imprenditore senza scrupoli.
Ma adesso, quando lo vedeva circondato da scartoffie, da solo, in una fabbrica che sembrava davvero troppo grande, con i macchinari spenti e silenziosi... non gli vennero in mente quei pensieri. Pensò soltanto al ragazzo che conversava di Ulisse insieme a suo padre, del suono della sua risata da oltre la porta del loro salotto. Sebastian aveva le guance infossate, i capelli scompigliati e sembrava che non dormisse da giorni.
Eppure, lo vide alzarsi in piedi, sempre con quel portamento elegante che lo contraddistingueva; si avvicinò a lui e gli parlò a bassa voce.
“Stai bene?”
Come?
“Non sono io che sto male, ma mia madre è-“
“Ho capito quello che hai detto. Per l’appunto, ti chiedevo: stai bene?”
Dovresti guardarti allo specchio, voleva dirgli Blaine. Perchè, trai due, quello che stava decisamente peggio era lui. Sebastian attese una risposta che non arrivò, così aggiunse: “Non dovresti essere qui. Non voglio cacciarti, di nuovo”, ghignò, “Ma dovresti davvero andare via.”
“Perchè?”
Lo guardò incredulo, forse Blaine era ancora più ingenuo di quanto pensasse.
“Ma davvero non ti sei accorto di quello che sta per succedere?”
In quello stesso momento, i cancelli della piazza si spalancarono di colpo, lasciando entrare centinaia di operai sconvolti, urlanti, volevano la testa di Smythe, dicevano. La sua, e degli operai che aveva assunto, e che erano troppo terrorizzati per lavorare o uscire dalla fabbrica. Battevano le mani contro il portone, tentando a tutti i costi di entrare.
“Sono qui per te?” Sussurrò Blaine, con un filo di voce. Sebastian continuava a guardare dalla finestra con il volto sempre più pallido. Annuì piano.
“Ma... perchè?”
“Perchè ho assunto altri operai al posto loro.”
“Perchè l’hai fatto?!” Sbottò allora. “Non potevi dargli quello che volevano? Sono soltanto famiglie che muoiono di fame!”
“Sono cose che non puoi capire.”
“Aiutami a capire, allora.” Blaine lo guardava dritto negli occhi, ma non era ricambiato. Sebastian parlò rivolto alla finestra, stando bene attento a moderare bene le parole.
“La fabbrica è in rosso. Ho dovuto fare dei tagli. Potevo scegliere se tagliare i salari dei miei dipendenti, oppure tagliare i macchinari. Ho scelto la prima, loro hanno scioperato, ma io ho delle consegne da terminare e questo sciopero è durato sin troppo. Ho dovuto assumere temporaneamente altre persone.”
“Ma... perchè non hai tagliato i macchinari?!” Esclamò Blaine, “Perchè hai tolto ancora più soldi a questa povera gente?”
“Davvero non capisci, vero Blaine? Se taglio i macchinari non portiamo a termine le consegne in tempo. Se non lo facciamo, la fabbrica deve chiudere. E se la fabbrica chiuderà, saranno tutti in mezzo alla via.”
Non aveva mai visto le cose da quel punto di vista; per tutto quel tempo, era vissuto con le parole di Sam nella sua testa. Era stato abituato a pensare a quanto fossero crudeli gli imprenditori, a quanto puntassero soltanto a far loro del male.
Non si era mai chiesto il punto di vista di Sebastian; forse, perchè non aveva mai voluto saperlo.
Gli operai in piazza avevano cominciato a distruggere le cose intorno a loro, frementi dalla collera. A Sebastian tremavano leggermente le mani, mentre si aggrappava al cornicione della finestra.
“Non aver paura Blaine, tra poco arriva la polizia.”
Paura?
“Non ho paura. Non puoi fare qualcosa per calmarli?”
“La polizia li farà ragionare”, sentenziò acido. Blaine lo afferrò per un braccio, costringendolo a guardarlo.
“Ragione? Intendi dire che li massacreranno di botte?”
Non rispose.
“Sebastian.”
Vide il ragazzo trasalire: era la prima volta che lo chiamava per nome.
“Non sono cattivi. Sono solo affamati. Non sanno cosa stanno facendo”, disse con voce ferma, “Devi parlargli. Ma non come se fossero delle nullità, devi parlargli da uomo a uomo.”
E, se prima Sebastian non aveva il coraggio nemmeno di avvicinarsi troppo alla finestra, dopo quelle parole si voltò di scatto e scese subito fino all’entrata, a due metri da terra rispetto agli altri operai. C’erano delle scale, che permettevano di salire da lui, ma nessuno le stava attraversando.
Blaine era alle sue spalle; nel momento in cui gli uomini videro Sebastian a braccia conserte fermarsi davanti a loro, diventarono ancora più incontrollabili. Cominciava a pentirsi di avergli dato quel consiglio. Così come cominciava seriamente a preoccuparsi per Sebastian.
E Sebastian, lui, sembrava che non riuscisse a parlare.
Blaine avanzò mettendosi in mezzo tra lui e la folla, appoggiando le mani sulla ringhiera e parlando con la voce più alta che potesse avere.
“Non serve a niente fare così! Pensate a quello che fate. La violenza non risolverà nulla, se non peggiorerà le cose. Avete una famiglia, dei figli che vi aspettano, pensate a loro.”
Quelle parole guadagnarono un leggero silenzio. Silenzio che venne spezzato nel momento in cui un ragazzo chiese: “Manderete i cinesi a casa?” e Sebastian, sporgendosi con irruenza, urlò che non l’avrebbe fatto mai.
Adesso cominciavano a divincolarsi per raggiungere le scale, e arrivare fino a lui.
Blaine non sapeva assolutamente cosa fare, aveva il cuore che rischiava di schizzargli dal petto, la vista annebbiata dalla paura e il corpo pervaso da brividi che lo scuotevano completamente. Sebastian era lì, immobile, sembrava quasi che stesse aspettando il suo destino, quello che forse si meritava in quanto essere umano.
Con la coda dell’occhio, Blaine vide Stephens raccogliere un sasso da terra. E poi avvenne in un secondo.
Avvolse il corpo di Sebastian contro il suo e lo fece arretrare dentro la fabbrica; Sebastian non riuscì a capire cosa stesse facendo. Vedeva soltanto Blaine premuto contro di lui, i suoi occhi chiari, le sue labbra che cercavano di dirgli qualcosa, ma non riusciva a sentirlo, con tutto quel clamore.
Poi, vide il suo corpo accasciarsi a terra e un sasso rotolare a pochi metri da lui, dopo averlo colpito alla testa.
“Blaine.”
Non Blaine. Non Blaine. Non Blaine.
Un rivolo di sangue scorreva dall’orecchio fino alla base del collo e lui era inerme, privo di coscienza. Respirava ancora.
Sebastian si rialzò in piedi con le braccia spalancate. Dovevano essere contenti di aver ferito l’unica persona che non dovevano toccare, in nessun modo.
Urlò alla folla di prendersela con lui. Sperò che marcissero tutti all’inferno nel momento in cui la polizia arrivò scortata da armi e transenne, e in mezzo secondo si erano dileguati tutti.
 
 
Quando Blaine aprì di nuovo gli occhi, gli girava fortemente la testa. Non riuscì a capire la fonte del dolore, fino a quando non tastò l’orecchio con le dita e si accorse di avere una grande fasciatura che circondava tutta la testa, coprendogli perfino l’occhio destro.
“Il dottore è stato qui. Ha detto che hai la testa dura e stai bene. Ma non devi alzarti.”
Sebastian era seduto su una sedia, di fronte a lui. Blaine era dentro a un letto, ma non era il suo.
“Sei a casa mia.” Aggiunse l’altro ragazzo. “Era più vicina dell’ospedale.”
“Ma cosa..-“
“Ti hanno colpito alla testa” Lo disse come se fosse veleno. Blaine in quel momento ricordò tutto quanto, così, mosso da agitazione, spalancò l’unico occhio utilizzabile e cominciò a fargli domande a raffica.
“Ma la rivolta. Ti hanno fatto male? È arrivata la polizia? È successo qualcosa? Com’è andata a finire?”
“Non mi importa di tutto questo.”
Quella risposta lo prese completamente contropiede.
“Ma come no, pensavo che-“
“Ti hanno ferito.”
Blaine trasalì in silenzio, sorpreso di aver sentito quel tono di voce così amaro.
“Lo so, lo ricordo. Ma il dottore ha detto che sto bene, no?”
Annuì. In silenzio. Sebastian fissò le sue lenzuola di cotone per almeno mezzo minuto.
“Mi dispiace.”
Blaine scosse la testa, leggermente confuso. Perchè si sentiva così a disagio? Perchè Sebastian lo stava facendo sentire a disagio? “Non devi scusarti. Non è stata colpa tua.”
“Sì invece.”
“Ho solo fatto il minimo che chiunque altro avrebbe fatto...”
“Questo non è vero e lo sai.”
“Sì invece, voglio dire-“ Deglutì a vuoto, avvertendo aria fredda. Che cosa aveva capito Sebastian? Che cosa stava cercando di capire?
“Dopotutto era colpa mia se eri in pericolo.” Ci tenne molto a puntualizzarlo. E poi, con estrema decisione, aggiunse: “Avrei fatto lo stesso per chiunque altro.”
Sebastian sembrò completamente spaesato nel sentirgli pronunciare quelle parole. Alzò la testa di scatto, e nei suoi occhi ci lesse un sentimento difficile, che non vedeva da tanto tempo.
“Per chiunque altro?”
Sebastian sembrava geloso.
“Credo di sì. Insomma, sapevo che se gli avessi parlato tu-“
“Ah, giusto, dimenticavo che tu sei l’amichetto loro.” Commentò cinico, con disprezzo: “E che vedi me come l’orco cattivo.”
“Beh, sicuramente avresti potuto essere più razionale quando-“
Io più razionale? Sono entrati nella mia fabbrica. Ti hanno ferito. Per quanto mi riguarda sono soltanto un branco di stolti e non meritano nemmeno le monete che trovano in fondo al fiume.
Ecco il Sebastian che conosceva. Quello crudele, quello vendicativo. Sebbene qualche volta si fosse comportato in modo gentile, Blaine non aveva mai dimenticato quel primo giorno in cui lo aveva visto picchiare a sangue quel ragazzo. Forse era per quello che continuavano a litigare; dopotutto, non avevano niente in comune e Blaine lo sapeva bene.
“Forse non sei un orco”, Rispose allora lui, “Ma non sei nemmeno un Santo.”
“Non ho mai detto di esserlo.”
“E allora smettila di giustificarti.”
Sebastian strinse le lenzuola sotto le sue mani e sembrava quasi una routine, ormai: ogni loro discussione finiva con lui arrabbiato che poi se ne andava.
“Io non capisco.” Disse dopo lungo tempo, e Blaine inclinò la testa da un lato. “Non capisci cosa?”
“Non capisco te. Non capisco se mi disprezzi o se mi ami.”
Un attimo.
“Cosa?”
“Perchè io ti amo, Blaine. Da un po’ di tempo ormai.”
Non era possibile.
Non era assolutamente possibile.
Doveva esserci stato un errore. Uno sbaglio. Un fraintendimento. Blaine non riusciva a proferir parola; semplicemente, continuava a guardare Sebastian, la bocca semiaperta, gli occhi spalancati e increduli mentre con la sua testa riepilogava ogni singolo momento passato insieme, e no, in nessun modo, non avrebbe mai potuto prevedere che succedesse una cosa simile. E Sebastian era lì, che lo fissava. Non poteva amarlo. Non poteva davvero amarlo.
“Non so cosa dire.”
Quelle lenzola non erano mai state così affascinanti da guardare.
“Sei confuso sui tuoi sentimenti?” Provò a dire Sebastian, con una punta di coraggio. Ma no, non era quello il problema.
“Io sono confuso sui tuoi.”
Quel leggero barlume di speranza che risiedeva negli occhi verdi venne annientato del tutto.
“Come sarebbe a dire?”
“Credi che sia uno scherzo divertente? Prendersi gioco del ragazzo del sud?”
“Ma di che diavolo stai parlando?”
“Tu non puoi amarmi, Sebastian. Non puoi perchè a malapena ci siamo parlati in questi mesi e quando lo abbiamo fatto è stato per litigare.”
“Sicuramente non sei tu quello che deve decidere cosa provo o meno”, Ribattè con la rabbia che cresceva ad ogni parola.
“Sì ma so riconoscere quando una cosa è impossibile oppure no, e sai, non ti facevo così crudele da macchinare delle cose simili. Credi che solo perchè sei ricco tutti quanti cadano ai tuoi piedi? Che puoi riscattarmi come se fossi una sfida da vincere? In effetti è proprio degno di uno come te.”
Sebastian mormorò la risposta a bassa voce, ma nemmeno la dolcezza di quelle parole servì ad ammorbidire il gelo nella sua voce.
 “Non voglio riscattarti come un oggetto, Blaine, voglio stare insieme a te, perchè ti amo.”
“Non dovresti! Perchè io non amo te. E non ti amerò mai.”
Forse era stato sin troppo brusco. E non perchè aveva paura di ferire Sebastian, ma perchè Blaine era sempre stato un ragazzo di buon cuore, e non gli era mai capitato di rifiutare un ragazzo in così malo modo. Sebastian riusciva a tirare fuori il lato peggiore di lui.
Lo vide alzarsi in piedi, passandosi una mano trai capelli. La sedia cadde a terra con un tonfo, ma a nessuno dei due importò davvero.
“Sebastian, io... mi dispiac-“
“Per cosa.” Lo interruppe. “Perchè ti senti offeso dal fatto che ti amo? O perchè secondo te posso ragionare soltanto in termini di dare e avere, e mi diverto a mandare a morire i miei operai?”
“N-no! Certo che no...” cercò di raggiungerlo con una mano, di farlo sedere, ma era troppo distante e lui non riusciva ancora a muoversi bene. Il solo tentativo gli diede una forte fitta alla testa.
“Mi dispiace... di essere stato così brusco. Sono negato in queste cose... non so mai cosa rispondere a una dichiarazione e-“
“Oh, ne hai avute tante?” Lo guardò, inarcando le sopracciglia. E Blaine si sentiva così stupido, non intendeva dire questo, ma Sebastian parlò ancora: “Ti succede tutti i giorni immagino. Giustamente.”
“Sebastian, per favore, cerca di capirmi-“
“Capisco. Capisco benissimo.”
Lo guardò per un’ultima volta, prima di sbattere la porta con forza e lasciare Blaine completamente da solo, dentro al suo letto.

























ANGOLO DI FRA


Ringraziate Somochu se scriverò la seconda parte del libro perchè io avevo voglia di lasciarvi così. Sappiatelo.
Anzi ditemi voi se devo continuare o se fa troppo schifo e non ne vale la pena.
Comunque se avete fretta di sapere come continua, vi consiglio il libro. Ma visto che è introvabile, vi consiglio lo sceneggiato della BBC (North&South) che è stra-meraviglioso. E c'è un Richard Armitage da feelings.
Un saluto alle mie Seblainer pazze!
   
 
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