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Autore: Flami Destrangis    23/09/2013    6 recensioni
Durante la presentazione dell'ultimo libro di Yusaku Kudo a Tokyo, a seguito di un errore Conan torna a rivestire i panni di Shinichi, risolvendo il macabro caso di omicidio in cui si trovano implicati. Nonostante cerchi come al solito di nascondere la sua comparsa, il giorno successivo sul giornale compare una foto della serata in cui sono ritratti lui e Ran. La nuova apparizione del detective liceale più famoso del Giappone sembra destare molto interesse: ma, allo stesso tempo, smuoverà le acque di una storia che non tutti vogliono riportare a galla.
“Mi piacerebbe correre fuori, lavarmi tutto di dosso. Lasciare scorrere sulla pelle ogni problema, ogni preoccupazione, ogni maschera e ruolo ed essere soltanto l'uomo che c'è oltre questo paio di occhiali e quella cravatta che mi piace tanto portare. Che cosa resterebbe secondo te?”
Il padre sembrò lanciargli uno sguardo disperato, come a chiedere aiuto. Come se avesse davvero paura che potesse non rimanere più nulla oltre tutto quello che ogni giorno lo ricopriva. Conan sorrise appena e gli porse la copia di "In bianco e nero" che teneva in mano.
“Ma che domande sono, papà. Lo sai anche tu: resterebbero i tuoi libri"
Genere: Drammatico, Generale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Gin, Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa, Un po' tutti | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In bianco e nero
 
 
“Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, 
schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso... Lei passa per via; un altro passante, 
all'improvviso, lo ferma e, cauto, con due dita protese le dice: “Scusi, permette? lei, egregio signore, ci ha 
la morte addosso ”. E con quelle due dita protese, la piglia e butta via... Sarebbe magnifica! Ma la morte 
non è come uno di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e alieni, forse ce l'hanno addosso; nessuno la vede; ed essi pensano quieti e tranquilli a ciò che faranno domani e doman 
l'altro .”
(L. Pirandello, “L'uomo dal fiore in bocca”)
 


3. E chi la capisce la vita




“La vittima si chiamava Koichi Sakamoto, di anni quarantasei. Lavorava in un piccolo gruppo editoriale che si occupa soprattutto di scrittori emergenti, ed era qui su invito dello stesso signor Kudo, come il resto dei partecipanti alla serata. Dico bene, Takagi?”
L'agente annuì prontamente alle parole dell'ispettore Megure, appuntando sul suo taccuino quanto più poteva esser loro utile nelle indagini. L'ispettore, stretto nel suo immancabile impermeabile arancione, si piegò sulle ginocchia, alzando i talloni e rimanendo in equilibrio sulle sole punte dei piedi. Appoggiò i gomiti sulle gambe, lasciando penzolare le mani. Osservava con cura il cadavere, che, oltre a Kogoro che aveva provato a prestare un primo soccorso, nessuno poteva toccare se non gli uomini della scientifica. Gli occhi del malcapitato erano ancora spalancati, come alla ricerca di un filo di luce che non si decideva a mostrarglisi. La bocca aperta non lasciava fuoriuscire più alcun grido.
Si asciugò il sudore dalla fronte, sistemandosi il cappello. Il suo era un lavoro che non smetteva mai di riservare sorprese: doveva destreggiarsi attraverso casi apparentemente uno più inspiegabile dell'altro, muoversi in costante equilibro, camminare su un sottile filo rosso legato alle due estremità del baratro: percorrere fino in fondo quel filo voleva dire vincere; cadere lungo la corsa era la sconfitta, perché sotto c'era solo il buio dell'incomprensibilità e del fallimento. 
“Poveraccio.” commentò piano, tra sé e sé. Si accorse solo allora che accanto a lui si era chinato Yusaku Kudo.
“Non mi capacito di come un fatto del genere sia potuto avvenire, proprio qui, proprio ora. Era una brava persona. Che io sapessi, non aveva nemici. E' tutto così strano..” aggiunse infine, come rivolto a se stesso. Parlava perso nella propria mente, come sono soliti fare gli scrittori o, in generale, coloro che amano guardare un po' più in là rispetto a ciò che è apparentemente visibile. Megure inarcò le sopracciglia.
“Strano in che senso?”
Yusaku scosse la testa, alzandosi. L'ispettore lo osservava: lo vide guardarsi intorno, come ad ispezionare tutti i presenti: forse cercava qualcuno? Agli invitati non era stato permesso di uscire dalla sala dove era avvenuto il delitto. Erano ancora lì, riuniti in gruppetti, e parlottavano a bassa voce, innalzando un lieve brusio che pervadeva ogni centimetro cubo del salone. Alcuni, più spaventati di altri o forse più facilmente impressionabili, se ne stavano in disparte, per conto loro, non osando più toccare né cibo né acqua: un uomo era stato avvelenato, chi poteva garantire che non sarebbe accaduto di nuovo? La serata era decorsa in maniera così tranquilla, e poi, di botto, quel macabro avvenimento: e il tutto mentre gli invitati tenevano le orecchie puntate sulla straordinaria interpretazione dell'attore. Gli occhi di Yusaku si fermarono infine sul palco. Arthur Newman era accovacciato per terra, seduto a gambe incrociate. Fissava il pavimento, e di tanto in tanto alzava gli occhi a guardare ciò che gli succedeva intorno. Sembrava assolutamente tranquillo.
“Cerchi qualcuno?”
Yusaku si voltò, notando che l'ispettore Megure si era drizzato in piedi, e lo osservava con fare interrogativo. Scosse ancora il capo. Avrebbe voluto sradicare dalla testa dell'ispettore ogni dubbio, ma davvero in quel momento non ce l'avrebbe fatta a sciogliersi in un sorriso rassicurante. Megure lanciò un'ultima occhiata al cadavere e agli agenti della scientifica che vi lavoravano intorno. Takagi era sempre accanto a lui, come il più fido dei collaboratori. Incominciò a parlare lentamente e con tono quasi stanco, come se ogni singola parola pesasse più di una pietra.
“Al momento della morte, accanto a Sakamoto vi erano Ran, Conan, Kogoro, le signore Yukiko ed Eri. Il tuo arrivo si è verificato solo in un secondo momento, dico bene?”
Lo scrittore annuì e Megure sospirò: “Allora mi spiace, ma dovrò interrogarli in modo più dettagliato. Anche se immagino siano ancora provati per l'accaduto.”
“E' il suo dovere. Prego, la accompagnerò io.”
I due uomini si fecero strada tra gli ospiti, prontamente seguiti da Takagi. A lato del salone, vicino ad una delle grandi tavolate, c'era un piccolo divanetto su cui fino a poco prima gli uomini si erano comodamente adagiati per sorseggiare un bicchiere di vino, e le donne per dar sollievo ai loro piedi doloranti per i tacchi, così belli e assassini. Ora, su quel sofà perfettamente spolverato e lucidato, sedeva Ran, in mano una bottiglietta di acqua comprata ad un distributore automatico: si era preferito di non toccare più alcuna bevanda presente all'interno dell'hotel prima dell'omicidio. La ragazza era visibilmente pallida, e teneva lo sguardo fisso a terra: di tanto in tanto un brivido le attraversava la schiena, facendola tremare da capo a piedi. Ed era allora che Eri e Kogoro, seduti accanto a lei, le si facevano ancora più vicini, cercando di farle sentire che non era sola. All'ennesimo brivido, Kogoro si tolse la giacca, appoggiandogliela sulle spalle. Ran face un sorriso stanco, che conservava però i tratti della dolcezza. Yukiko stava  in piedi. Non appena vide il marito avvicinarsi, gli andò incontro, lasciando che lui la abbracciasse: quella serata non doveva finire così. Conan, in piedi vicino al divano, fissava la sala, assorto. Scrutava con sguardo imperturbabile, e osservava in silenzio le mosse del padre e dell'ispettore. Lanciava qualche occhiata al cadavere, e poi deviava lo sguardo, alla ricerca di un qualcosa che solo lui sapeva. Chi lo conosceva bene, chi lo conosceva come Shinichi Kudo, avrebbe potuto subito capire che qualcosa non lo convinceva a pieno. Di tanto in tanto si fermava e, il mento ben saldo tra l'indice e il pollice della mano destra, rifletteva. Poi, quando sentiva le voci di Kogoro ed Eri sovrapporsi per la preoccupazione, si girava con fare apprensivo, e guardava Ran, poggiandole una mano sulle ginocchia e sorridendole per rassicurarla. Quando infine ritornava nel suo mondo, sentiva una leggera rabbia che gli faceva formicolare il corpo: chi aveva colpito Sakamoto stava per colpire Ran. E lui l'avrebbe preso, ad ogni costo. 
L'ispettore fece un cenno a Kogoro, facendogli capire che desiderava parlargli. Dopo aver lanciato un'ultima occhiata alla figlia, l'uomo, che in quel momento si sentiva più padre che detective, si alzò.
“Come sta?”  chiese Megure, riferendosi chiaramente a Ran.
“Come vuole che stia. E' quasi sotto shock, quel bicchiere avvelenato stava per prenderlo lei. E poi invece l'ha ceduto al signor Sakamoto, dicendogli di non preoccuparsi, che avrebbe preso il prossimo..” la voce gli si strozzò in gola. Disse solo, in un soffio di fiato: “Chi avrebbe mai potuto immaginare.”
L'ispettore aspettò ancora qualche minuto prima di parlare, come in segno di discrezione o rispetto. O forse vera e pura preoccupazione.
“Dovrei parlarvi, per riepilogare ancora una volta la dinamica della morte del signor Sakamoto. Eravate con lui al momento del tragico avvenimento.”
Kogoro annuì, capendo le necessità che il lavoro di Megure gli imponeva. In quel momento lui non era un amico, né un conoscente: era l'ispettore che doveva svolgere le indagini, che doveva arrivare ad acciuffare il colpevole. Quello era l'obiettivo, il solo ed unico fine. Kogoro si avvicinò a Ran, dicendole piano: “L'ispettore dovrebbe farci qualche domanda. Te la senti? Vedrai che sarà questione di pochi minuto.”
La giovane alzò gli occhi, accorgendosi solo allora di Megure, di Takagi, di Yusaku e di tutti coloro che erano arrivati, o che le stavano intorno. Fino ad allora aveva visto solo il padre e la madre, e aveva sentito solo quel brutto animale velenoso che le stava divorando lo stomaco e il cuore con quello che avrebbe potuto definire un inconscio senso di colpa. Lei aveva ceduto quel bicchiere a Sakamoto. Non era di certo responsabile della fine dell'uomo, ma non riusciva a levarsi quel pensiero di torno. La morte le era passata accanto, l'aveva sfiorata, senza accorgersene le aveva quasi gettato addosso le sue spore. Improvvisamente ricordò le parole pronunciate dall'attore sul palco:

“Sarò quella zanzara fastidiosa che vi si poggerà addosso e che voi scaccerete con un gesto di stizza: ma sarà tardi allora, perché il veleno scorrerà già nel vostro sangue.”

Quella zanzara le era volata accanto. Incuriosita, aveva meditato se attaccarsi a lei, se nutrirsi del suo sangue giovane, e forse ancora un po' acerbo. E infine, aveva scelto di allontanarsi, attratta da altro nutrimento, aveva scelto una bevanda più matura, e che forse in quel momento riteneva più gradevole. L'aveva risparmiata, lasciandole addosso solo la sgradevole sensazione che lei, la morte, poteva posarsi sulla sua pelle quando più l'avrebbe ritenuto divertente e opportuno, senza che lei se ne accorgesse. 
Annuì alle parole del padre. Se c'era qualcosa che ancora poteva fare, era aiutare la polizia nelle indagini: lo doveva a quell'uomo morto in circostanze così assurde. 
“Prego, ispettore. Mi chieda pure qualsiasi cosa.”
Megure sorrise, felice di poter svolgere il suo compito in un clima di relativa serenità. Ran non era affatto così fragile come poteva sembrare. 
“Vorrei riepilogare brevemente i fatti, così come sono avvenuti. Interrompetemi se vi viene in mente qualcosa di nuovo, o per qualsiasi precisazione riteniate opportuno fare.”
Fece un attimo di pausa. I presenti non dissero una parola. Lo fissavano attenti, con due occhi che annuivano per il loro corpo.  L'ispettore tossicchiò, schiarendosi la voce.
“Durante l'interpretazione di uno dei passi del libro, i camerieri hanno incominciato a girare per la sala con i vassoi da cui i presenti potevano prendere i bicchieri con lo spumante, per il brindisi finale.” 
Si fermò. Nessuna obiezione.
“Un cameriere si è avvicinato al vostro gruppo, composto dalle signore Yukiko e Eri, dal detective Kogoro, da Ran e Conan, e infine dalle vittima, il signor Sakamoto. Sul vassoio vi erano tre bicchieri, dico bene?”
Yukiko annuì: “Io e Kogoro ci siamo serviti per primi. Considerando che sul vassoio era rimasto un solo bicchiere, direi di sì, all'inizio ce n'erano tre.”
Takagi annotò qualcosa sull'agenda, per poi commentare, un po' fra sé e sé, un po' rivolto agli astanti: “Dunque dal vassoio si erano già serviti altri invitati. Come poteva il killer capire quale bicchiere avrebbe preso Sakamoto?”
“Il cameriere potrebbe aver inserito il veleno una volta arrivato al nostro gruppo.” osservò Kogoro, lanciandosi in una delle sue solite deduzioni affrettate.
“Il problema non si risolve comunque. Abbiamo già interrogato il cameriere, e stanno controllando i suoi abiti, alla ricerca di possibili tracce. Per ora, nessun riscontro.” si affrettò a precisare Megure, stroncando sul nascere l'approssimativa deduzione.
“Ma continuiamo. A questo punto, come la signora Yukiko stessa ha confermato, lei e Kogoro si sono serviti. E' rimasto un solo bicchiere sul vassoio. Cos'è successo allora, Ran?”
La ragazza deglutì. Parlò piano, come se fosse confusa nei suoi ricordi.
“Io stavo guardando l'attore che recitava sul palco. Ed ero così concentrata, così rapita dalla rappresentazione.. insomma, ho allungato la mano verso il vassoio senza nemmeno guardare. Le mie dita e quelle del signor Sakamoto si sono scontrate. Lui ha preso il bicchiere in mano, e me l'ha offerto gentilmente. Ma io..” si fermò per qualche secondo. Era forse la parte che le pesava di più. “Io..gli ho detto di tenerlo, e che avrei aspettato il prossimo vassoio. Non c'era fretta. Come avrei potuto immaginare.. se avessi preso io quel...” Non ebbe la forza di continuare. Sentì le lacrime salirle agli occhi, e fece uno sforzo immane per trattenerle. 
“Grazie, Ran. Il brindisi era previsto dopo la fine dello spettacolo. Come mai il signor Sakamoto ha bevuto prima?” chiese l'ispettore, forse più a se stesso che a chi lo circondava.
“Anche io ho bevuto prima del brindisi.” ammise Kogoro. “Lo spumante aveva un aspetto così invitante, e quando il signor Sakamoto mi ha proposto si assaggiarne un goccio, dicendo che nessuno se ne sarebbe accorto, non ho saputo resistere.”
“Che voi sappiate, il signor Sakamoto amava degustare vini o spumanti?”
“Da quanto ne so,” intervenne Yukiko, “il signor Sakamoto era un appassionato di vini. Amava assaggiarne di diversi, e ricordo che l'anno scorso fece appositamente un viaggio in Italia, girandola in lungo e in largo per provare tutte le sue specialità.”
“Forse l'assassino immaginava che Sakamoto avrebbe bevuto prima degli altri, e ha posto il cianuro su più bicchieri?” propose Eri, rimuginando sulla situazione. “Ma anche a questo punto, qualcosa non quadra. Infatti Kogoro ha bevuto con lui, ma il suo spumante era pulito.” 
“Stiamo facendo controllare gli altri bicchieri.” disse Takagi, chiudendo l'agendina e sistemandosi i guanti che si stavano stropicciando sulle mani. “Attendiamo il responso.”
“Comunque, il problema rimane. L'assassino non poteva prevedere quale bicchiere avrebbe preso la vittima: tanto che lo spumante avvelenato stava per finire nelle mani di Ran.”
La ragazza fu scossa da un altro brivido. La madre fulminò Megure, intimandogli con un'occhiataccia di ragionare prima di parlare: Ran era ancora provata dall'accaduto, e di sicuro sentirsi ripetere che era stata ad un passo dallo stramazzare a terra non l'aiutava per niente. L'uomo arrossì leggermente, cercando di scusarsi per quanto detto con un cenno del capo. Poi tornò serio, e fece mente locale su quel caso all'apparenza davvero inspiegabile. Mentre squadrava la sala dall'inizio alla fine, l'occhio gli cadde su Yusaku Kudo, intento anche lui nei suoi pensieri. Ma certo, come aveva fatto a non pensarci prima? Ora che Kogoro, dimostratosi così eccellente in quell'ultimo anno, aveva assunto più il ruolo del padre protettivo che del detective lucido e imparziale, il famoso romanziere di gialli era la sua ancora di salvezza. Yusaku avevo risolto misteri inestricabili, e Shinichi aveva proseguito lungo la sua strada. Se solo anche quel detective liceale fosse stato lì.
“Yusaku.” lo chiamò piano, avvicinandosi a lui. Non voleva che gli altri sentissero. “Senti un po', per caso ti sei fatto una qualche idea su questo omicidio? Io davvero non riesco a spiegarmi come abbia fatto il colpevole a colpire Sakamoto nello specifico.”
Lo scrittore si soffermò un attimo nella sua mente. Poi rispose, con tono calmo.
“Aspettiamo i risultati delle analisi sugli altri bicchieri. Non bisogna trarre conclusioni affrettate.” 
Questo lo sapeva perfettamente anche lui. Mai parlare, mai accusare prima di avere elementi su cui poter provare le proprie parole. Ma era quegli elementi in più che sperava di poter trovare nelle osservazioni argute di Kudo. I giornalisti iniziavano ad accalcarsi fuori dall'hotel, le televisioni a trasmettere notizie riguardo al misterioso omicidio accaduto durante la più importante serata di gala della città. I mass media, affamati di audience e novità succulenti, premevano per sapere qualcosa in più: volevano risposte, risposte che in quel momento neanche un dio onnisciente avrebbe potuto loro dare. Nonostante l'età e l'esperienza, Megure ancora non aveva imparato a scacciarsi di dosso la loro fastidiosa pressione. 
“Che razza di fine. Andarsene via così, da un momento all'altro.”
L'ispettore aveva riflettuto forse più per se stesso che per continuare la conversazione. Non si aspettava nemmeno una risposta da Yusaku: sapeva che, sullo stile di Holmes, amava tenere tutto per sé, intuizioni e deduzioni, finché non aveva in testa un quadro chiaro della situazione. Solo allora avrebbe parlato, lasciando tutti a bocca aperta con una strabiliante ricostruzione. Presentare il puzzle completo era molto più efficace di mostrare i singoli pezzi per poi unirli in un secondo momento. Le menti che spesso peccano troppo di eccentricità amano fare tutto da sole. Ma, in contrasto con le aspettative di Megure, il romanziere rispose. Una constatazione che volò nell'aria, aleggiando tra i due uomini e poi, spinta dal fiato e dai respiri, fluttuò per la sala, andando a posarsi sul destino sconosciuto di quanti stanno al mondo.
“E chi la capisce la vita.”
Yusaku Kudo si incamminò, sparendo tra gli invitati. Megure capì che non voleva essere seguito, e lo lasciò andare. Prima o poi sarebbe tornato, portando con sé, se non la soluzione al problema, almeno il metodo giusto per arrivare a risolverlo. Non si accorse che, accanto a loro, un'altra figurina era scomparsa: il piccolo Conan, quatto quatto, era sgattaiolato via, inseguendo il padre. Di sicuro i due avevano la stessa idea che frullava nel cervello. Yusaku si muoveva a passo svelto, e Conan dovette correre per raggiungerlo. Ma si scontrò con un grosso pancione stretto dai bottoni precari di una camicia. Il dottor Agasa.
“Dottore! Dov'era finito?” chiese stupito il bambino. Nella confusione lo avevano perso di vista.
“Durante lo spettacolo mi sono allontanato dalla sala, per andare al bagno. Poi ho telefonato ad Ai, chiedendole se era tutto a posto. Se devo dirti la verità, quando l'ho lasciata mi sembrava un po' inquieta: ero preoccupato, e l'ho chiamata. Ma la sentivo tranquilla, mi ha detto di non preoccuparmi, di godermi la serata e di non mangiare troppo. Quando sono tornato ho trovato le luci della sala accese, e la polizia stava arrivando: mi sono messo a cercarvi, ma nella confusione non vi ho trovato. Cos'è successo di preciso?”
Conan, preoccupato, guardò oltre il professore: vedeva ancora il padre ma presto, piccolo com'era, avrebbe fatto fatica a rintracciarlo velocemente fra tutte quelle persone. La confusione non si sarebbe presto dispersa, in quanto era stato proibito di abbandonare la sala o comunque quell'ala dell'hotel. 
“Ora non ho tempo per spiegarle tutto, professore.”
Aggiunse velocemente dove poteva trovare sua madre e gli altri, e poi gli chiese solo: “Piuttosto, mi dica.. mentre è avvenuto il fatto lei si trovava fuori dalla sala? Era da solo?”
“S-sì..” rispose quello, spaesato dalle domande.
Che guaio. Il professore poteva trovarsi in una posizione di svantaggio, dato che le persone in sala, tutte in compagnia, erano in possesso di un alibi più saldo. Una persona come Agasa, da sola in giro per l'albergo, avrebbe avuto l'occasione di mettere il veleno nei bicchieri. Bisognava fare presto, trovare il colpevole, quello vero. Corse via, lasciando il professore senza una risposta ai suoi dubbi.
“Ehi, dove vai? Fermati, Shi..” si tappò la bocca da solo. Non poteva di certo pronunciare quel nome in pubblico riferendolo a Conan. 
Da parte sua, il bambino aveva già raggiunto la parte opposta del salone. Il padre era arrivato ad un angolo, vicino al palco. Si avvicinò ai tendoni che si trovavano in fondo, al lato del salone: guardandosi intorno per assicurarsi di non essere osservato, scivolò tranquillamente oltre la tenda, scomparendo. Conan fece altrettanto. Si ritrovò in una piccola stanzetta in penombra: fili di luce penetravano dai bordi della tenda, proiettando giochi di ombre sulle pareti. Il brusio della sala sembrava distante, e si udiva ovattato. Non appena i suoi occhi si abituarono all'oscurità, riconobbe il padre, appoggiato alla parete, le mani in tasca. Era pensieroso.
“Sapevo che mi avresti seguito.”
“Non ti sei allontanato per quello?”
Yusako sorrise: “Volevo un momento di tranquillità per riflettere. Questa stanzetta inutilizzata mi sembrava la più adatta.” 
“La cosa non convince neppure te, vero?”
“Per niente.” ammise l'uomo. “Questo delitto è troppo strano.”
“Quel bicchiere poteva capitare nelle mani di chiunque.”
“E' questo che mi ha fatto insospettire.”
“Pensi quello che penso io?” chiese il bambino, già certo della risposta.
“Penso quello che pensi tu. Ma per esserne sicuro, dimmi cosa stai pensando.”
Conan stava per parlare, quando starnutì di nuovo. Nel trambusto degli avvenimenti, si era scordato di quel pungente raffreddore.
“Dannazione, non si decide a migliorare.”
“Dovrei riuscire a procurarti una medicina per il raffreddore, se ne hai bisogno.”
“Non preoccuparti, l'ho portata con me. Dopo la prenderò. Ora è meglio non distrarci. La prima cosa che mi ha insospettito è la modalità del delitto. Senza dubbio è un metodo sicuro perché è difficile essere scoperti, ma ci sono troppe poche possibilità di riuscita. Se davvero l'assassino aveva intenzione di eliminare Sakamoto, perché usare questo metodo?”
“Mi sono posto anche io il problema. Avrebbe potuto eliminarlo in modo diverso, o in un'altra occasione. Perché scegliere questa serata? E' ovvio che il colpevole sia uno degli invitati o comunque delle persone presenti nell'hotel. In questo modo il suo nome cade direttamente nella lista dei sospettati, in quanto, per avere dei motivi di rancore nei suoi confronti, deve per forza essere una persona venuta in contatto con lui.”
“Osservazione perfetta. Per questo sto iniziando a convincermi che la vittima designata non fosse Sakamoto in particolare.”
“L'ho pensato anche io. Nel mio libro durante la serata di gala avvengono tre omicidi ad opere del serial killer. Uno dei quali con il veleno.”
“E' una delle prime cose che mi sono saltate all'occhio. Anche in quel caso, l'omicidio era apparentemente inspiegabile: e questo perché era del tutto casuale. Il killer non voleva colpire una persona nello specifico.”
“Qualcuno potrebbe aver voluto riprodurre qui, in quest'occasione, quanto avvenuto nel libro?”
“Non è da escludere, ma è solo un'ipotesi.”
“Nel libro però è il secondo omicidio ad essere compiuto con il veleno.”
“Non è detto che l'omicida voglia mietere tre vittime.”
“O forse voleva ucciderle tutte con lo stesso metodo e..”
“.. in questo caso, la polizia dovrebbe rinvenire altri due bicchieri contenenti spumante e cianuro.” concluse il bambino. I due ragionavano di pari passo e le parole scorrevano contemporaneamente nei loro cervelli.
“Ci sono ancora troppi pochi elementi.”
“Ma è una pista che dobbiamo considerare, data la modalità e il luogo del delitto.”
“Poniamo il caso che la nostra idea sia corretta: il cerchio si stringe notevolmente. L'assassino deve per forza aver letto il libro: nel volantino che è stato consegnato stasera la storia è solo introdotta e inoltre l'omicida non avrebbe potuto organizzare tutto all'ultimo. Non c'era il tempo.”
“Non è possibile che qualcuno abbia preso del materiale dal tuo computer, leggendo parte del libro o il romanzo intero a tua insaputa?” chiese Conan, ricordando l'osservazione che aveva fatto Ai quella mattina, e su cui lui era passato sopra scherzando e prendendola in giro per le sue eccessive paranoie.
“Il computer che uso è controllato ogni giorno da un esperto tecnico. Se avesse subito un hackeraggio se ne sarebbe accorto, o almeno nel buon novantacinque per cento dei casi.”
“Rimane un cinque per cento.”
“Consideriamo prima chi sicuramente ha letto il libro. Escludiamo Yukiko, me e te. Resta l'editore e..”
“.. e quel tale attore, Arthur Newman, che ha insistito tanto per recitare il monologo del serial killer.”
Conan aveva scostato appena la tenda, e osservava il giovane ancora seduto sul palco. Non si era mosso da lì, era immobile. E il mondo sembrava essersi scordato di lui. 
“Sospetti di lui?”
“Non appena gli hai detto del pezzo di In bianco e nero che volevi fargli recitare ed è venuto a sapere la trama, ha insisto per leggerlo e ha subito detto di essere stato colpito e affascinato dalla figura del serial killer.”
“Quella figura ha affascinato molti.” osservò Yusaku. Gli sembrava giusto porre una buona parola per quel ragazzo così timido e particolare. Davvero poteva essere lui il colpevole?
“Il giorno dopo è tornato da te, dopo aver divorato il libro. E ha insistito per recitare quel monologo. E poi lui stesso ha affermato di avere un'incredibile capacità di immedesimazione in quel personaggio, come ha dimostrato poco fa sul palco.”
“Ma perché l'avrebbe fatto?”
“E' solo un'ipotesi. Bisogna considerare il fatto che non è mai stato in sala, se non quando è venuto a parlarti. Inoltre per accedere dal palco è entrato dalla porta in fondo al salone, riservata allo staff. Avrebbe potuto mettere il veleno in un bicchiere (o forse in tre, come sospettiamo), e alla fine del suo monologo, tre persone tra gli invitati sarebbero stramazzate al suolo. Pensaci, è finzione che diventa realtà: non è l'obiettivo di ogni attore far diventare reale un personaggio? Lui avrebbe osservato tutto dalla sua postazione sul mondo: il trionfo della sua arte.”
“E' follia.” sussurrò Yusaku con un filo di voce.
“Non lo so, papà. Ma quel Newman non mi convince. Non sono ancora riuscito ad inquadrare il suo profilo psicologico, a capire che persona è. Tu cosa sai di lui?”
“Non mi ha detto granché.”
“Di sicuro avrai indagato in qualche modo.”
“Come fai a saperlo?”
“Al tuo posto io l'avrei fatto.”
Gli scappò una risatina. Suo figlio diventava di giorno in giorno più simile a Sherlock Holmes. O a lui.
“Hai indovinato. Ma non ho scoperto molto. So che sua madre è morta quando era molto piccolo. E' cresciuto con il padre, un attore. Lavorava per un compagnia teatrale di Chicago. Purtroppo anche il padre morì, e Arthur si ritrovò solo a otto anni. Crebbe in un orfanotrofio, e decise di seguire la carriera del padre. Ha lavorato per qualche compagnia teatrale, ma nell'ultimo periodo cambiava in continuazione. Un lavoro qui, uno lì. E dire che è bravo.”
“Com'è morto suo padre?”
“Un incidente sul lavoro.” 
“Recitando?” chiese Conan, stupito. Non era un mestiere granché pericoloso.
“Durante uno spettacolo. Interpretava un personaggio dotato di poteri magici, e dunque in una scena simulava di volare, tramite un meccanismo di ganci, fili e funi. Qualcosa è andato storto, e il meccanismo ha ceduto. Cadendo ha sbattuto la testa. E' morto sul colpo, davanti a più di un centinaio di spettatori e agli occhi di suo figlio. Il caso fece scalpore, ma ormai sono passati vent'anni e quasi nessuno lo ricorda più. Quando ho sentito il cognome di Arthur, però, mi è tornato alla mente.. e ho fatto qualche ricerca, collegando i due. Ho preferito non chiedergli mai nulla a riguardo.”
Rimasero in silenzio per qualche secondo. Entrambi guardavano il palco.
“La finzione che diventa realtà.” disse poi Conan, quasi pensando a voce alta.
“Non lo so, è tutto troppo strano.”
“Sei stato tu, prima, a dirmi che forse la razionalità non è sempre la via giusta. O ti dispiace sospettare di lui?” chiese il bambino, indicando Newman con un cenno del capo. L'attore aveva ora alzato lo sguardo, e i suoi occhi si muovevano febbrilmente tra le persone in sala. Stava cercando qualcosa? Infine, si posarono sul cadavere ancora per terra, con intorno gli agenti intenti a fare gli ultimi accertamenti. Conan lo osservò meglio. Sbatteva in continuazione le palpebre, le dita si attorcigliavano in un gioco di contorsioni. Non era più tranquillo. Era nervoso, deluso, infastidito? Non lo capiva: ma sapeva solo che c'era qualcosa sotto, che non lo convinceva. Se davvero il veleno fosse stato trovato in altri tre bicchieri, quello sarebbe stato un indizio in più. Avrebbero dovuto interrogarlo e controllarlo.
“Forse non voglio ammettere che la tua teoria possa corrispondere a verità.”
“Perché?”
“Significherebbe essere stato usato dall'inizio alla fine. E, peggio ancora, senza rendermene conto.” 
“Se davvero ha fatto quello che penso, era difficile capirlo. Ragionava in modo troppo diverso da noi, come comprenderlo?”
Guidato da un lucido squilibrio.” sussurrò il padre, citando una delle ultime frasi del suo libro.
“Teniamolo sotto controllo.”
“Non si è ancora mosso da lì. E' immobile.”
“Meglio esserne sicuri.” disse Conan, e poi, dopo un altro starnuto, “con un trucco proverò ad attaccargli addosso una delle microspie del dottor Agasa.”
L'altro annuì e basta, senza pronunciare una parola. Stava per passare oltre la tenda, quando il figlio lo richiamò.
“Papà.”
“Che c'è?”
“Dobbiamo ricordare solo una cosa. When you have eliminated the impossible, whatever remains, however improbable, must be the truth.” 
Il padre sorrise un po' amaramente, e sospirò.
“Lo sapevo che prima o poi avresti superato il maestro, Shinichi.”
Lasciò che la tenda oscillasse al suo passaggio e abbandonò il figlio lì, a riflettere su quella frase pronunciata con tono compiaciuto e malinconico allo stesso tempo. A chi si riferiva? Non ad Holmes. Quella frase si riferiva a se stesso, a lui in quanto padre, educatore, formatore. Shinichi stava andando oltre: era lui che lo stava guidando in questo caso, e non il contrario, come spesso avveniva. Il mondo si stava rovesciando quella sera.
“Non è vero, papà. Forse ti ho raggiunto: ma non credo di averti superato.” disse piano, e quella frase gli ritornò indietro, scontrandosi con le pareti e riassorbendosi nella sua pelle.
Non c'era tempo per pensare, non c'era tempo per nulla. Doveva attaccare quella microspia: il suo fiuto gli diceva che quella era la pista da seguire. Prima di uscire dalla saletta, impostò il suo viso e il suo atteggiamento sulla modalità bambino innocente. A quel punto salì di corsa la piccola scalinata che portava sul palco, e saltellando e blaterando qualcosa come: “Accidenti, da qui si vede proprio tutto!”, si avvicinò all'attore e, proprio quando fu quasi accanto a lui, finse di scivolare e cadere rovinosamente a terra. Arthur Newman girò lentamente il volto, sistemò gli occhiali sul naso e chiese con tono incolore: “Che ci fai qui?”
“Ah ah ah” improvvisò Conan, simulando una risatina, “Volevo vedere com'era la sala vista dal palco, e sono scivolato. Comunque le faccio i complimenti per l'interpretazione di prima: è stato davvero bravissimo. Avevamo tutti i brividi, sa? E poi..” disse ancora, rendendo più ingenua che mai la voce “quando quell'uomo è stramazzato a terra, eravamo tutti così spaventati, perché sembrava proprio accaduto quanto lei presagiva con le sue parole.”
L'attore tornò a guardare la sala, e non disse altro che: “E' l'arte. E' andata come doveva, ma non è stato perfetto.” 
Non sembrava più essere intenzionato a parlare, la sua voce ora atona si era richiusa in se stessa. Quanto doveva dire l'aveva ormai detto. Conan, ritenendosi congedato e essendo riuscito a porre la microspia sui vestiti del giovane, se ne andò così come era venuto, terminando la sua maldestra ma credibile recita. 
Che voleva dire l'attore con quelle parole? E' andata come doveva, ma non è stato perfetto? Se la sua ipotesi era esatta, allora davvero la polizia avrebbe trovato altri bicchieri avvelenati. E quell'attore non era estraneo ai fatti, ne era più che certo.
Starnutì di nuovo, e si ricordò della medicina per il raffreddore che aveva portato con sé. Per ingoiare la pillola aveva bisogno di un po' d'acqua, e poteva procurarsela allo stesso distributore dove avevano comprato la bottiglia per Ran. Ma era lontano dal salone, e avrebbe perso tempo, mentre invece preferiva restare in sala a controllare il comportamento dell'attore. Osservare il suo viso, i suoi movimenti su quel palco. Decise che sarebbe andato nel bagno più vicino, e avrebbe usato l'acqua del rubinetto. Di sicuro gli agenti della sala avrebbero fatto uscire un bambino piccolo come lui. In conformità alle sue ipotesi, meno di due minuti dopo si trovava nel primo bagno che aveva trovato, e cioè quello del bar dell'hotel. Con la mente ancora persa nel suo mondo di deduzioni, prese la pillola che aveva in tasca e, bevendo, la ingoiò. Stava per aprire la porta per uscire, quando improvvisamente sentì un dolore al petto. Si ritrasse, appoggiandosi al muro. Cos'era stato? Ansimò. Gli mancava il fiato. Uno spasmo lo fece pulsare, e incominciò a sentire un formicolio in tutto il corpo. Che gli stava succedendo?
Di botto un'immagine gli attraversò la mente. Lui con il mano l'antidoto all'APTX4869, mentre cerca la medicina per il raffreddore; Ran che entra nella sua camera, e lui che ripone una pillola in tasca, sicuro di aver preso quella giusta. Dannazione. Aveva commesso l'errore più stupido che poteva compiere. Aveva preso la pillola sbagliata. I muscoli cominciarono a contrarsi, mentre lui stringeva i denti, nel tentativo di non urlare. Pregò che non entrasse nessuno, mentre i dolori cominciavano a divenire lancinanti. Si morse la manica della giacca, mugolando. Non ricordava che facesse così male. 
Qualche minuto dopo, nel salone della festa, il cellulare di Yusaku Kudo vibrò. Non appena lesse il mittente, l'uomo inarcò le sopracciglia. Il messaggio era breve e conciso:

Papà, ho un problema. Vieni subito al bagno del bar, con il dottor Agasa e dei vestiti. Da uomo.





Il dottor Agasa era uscito ormai da un bel pezzo, e Ai già lo immaginava, nonostante tutte le sue raccomandazioni, in giro tra una tavolata e l'altra, a rimpinzarsi dei cibi migliori. Ma di andare con lui non se ne parlava. Quell'hotel le metteva i brividi: le ricordava la neve, il freddo di quella sera, il bruciore delle ferite sulla pelle, il rosso che macchiava il bianco candido accumulatosi sul tetto, la caduta lungo il camino, la trasformazione. Gin. I suoi occhi esaltati che la fissavano, puntandole contro la fedele pistola. Le aveva sparato più volte, godendosi ogni singola goccia di sangue che usciva dal corpo di lei: voleva ucciderla lentamente.
Ebbe un tremito. Tentò di scacciare i ricordi dalla mente, mangiando un po' dell'insalata che si era preparata per cena qualche ora prima e che alla fine, tra una cosa e l'altra, si era ritrovata a sgranocchiare solo allora. Non aveva molta fame, e poi voleva fare in fretta, e tornare a lavorare sull'antidoto all'APTX4869. Stava studiando dei nuovi componenti, e analizzando nuove reazioni. E sapeva che non era lontana dalla creazione di un nuovo farmaco: non quello definitivo, ma forse più forte e duraturo di quello precedentemente sperimentato. Aveva tenuto nascoste le sue ricerche persino al dottore, sperando che non si accorgesse del suo lavoro più intenso del solito. Il professore alle volte aveva la lingua troppo lunga: e anche se si lasciava scappare tutto in buona fede, Ai non voleva che Shinichi venisse a conoscenza dei nuovi studi sulla pillola che avrebbe potuto riportarli normali. Le avrebbe fatto mille domande, e lei amava lavorare in tranquillità. 
Stava riponendo i piatti sul lavello, quando qualcuno bussò alla porta. Trasalì. Chi poteva essere a quell'ora? Erano le dieci di sera passate, ma il dottor Agasa non poteva essere già di ritorno. Inoltre, aveva portato con sé le chiavi. Ayumi e gli altri erano fuori discussione, era tardi e il giorno dopo c'era scuola. Vide che le mani le stavano tremando: i ricordi le avevano cacciato dentro brutte sensazioni. Fece un bel respiro e decise di lasciare da parte la paura: magari era un semplice vicino bisognoso di qualcosa. Oppure poteva lasciar perdere e non rispondere. Ma probabilmente chi era fuori aveva già visto la luce accesa, e si sarebbe insospettito. Il campanello suonò ancora.
“Che insistenza.” pensò Ai, seccata. Prese la sedia e la portò fino all'ingresso. Vi salì e, prima di scostare la copertura dello spioncino, ebbe un attimo di esitazione, come se avesse paura di ciò che poteva scorgervi. Deglutì e strinse in pugni: basta comportarsi da bambina spaventata. 
Deformato dalle lenti dell'occhiolino, vide, sulla soglia, un giovane uomo con gli occhiali. Era Subaru Okiya. Che cosa voleva a quell'ora?
Scese dallo sgabello e lo spostò di lato, poi scostò la porta giusto per riuscire a sporgere la testa. 
“Salve, signor Subaru.” salutò, senza particolare entusiasmo.
“Ciao.” disse l'altro, con il suo solito sorriso tranquillo. Si aggiustò gli occhiali sul naso, come era solito fare, e poi chiese del dottor Agasa.
“Può parlare con me. Cosa vuole?” chiese senza tanti giri di parole la bambina. Voleva tornare in fretta al suo lavoro, e non desiderava perdite di tempo. Fu allora che notò la valigia che l'uomo portava accanto a sé. Fece scorrere il suo sguardo dalla persona alla valigia, dalla valigia alla persona. Non poteva davvero chiederle ospitalità.
“Quando ho saputo che i genitori di Shinichi avrebbero alloggiato in città questo weekend, ho deciso di prendermi una piccola vacanza, per non creare disturbo, anche se Conan mi aveva assicurato che potevo rimanere. Purtroppo però sono rientrato prima del previsto, e so che i signori Kudo lasceranno l'abitazione non prima di domani. Il professore mi aveva assicurato che, in caso di bisogno, avrei potuto alloggiare da voi.”
“Come mai è dovuto rientrare prima?”
“Motivi personali.”
Ai capì che non le avrebbe detto di più. Cosa poteva fare? La brutta sensazione che all'inizio provava in sua compagnia stava pian piano sparendo. E addirittura, a tratti, le sembrava quasi di potersi fidare di lui. In fondo, in più situazioni aveva aiutato lei e gli altri Giovani Detective; era stato sempre disponibile quando ne avevano avuto bisogno; e, anche se nella sua vita aveva imparato che delle apparenze non bisogna fidarsi, alla fine aprì del tutto e lo lasciò entrare.
“Prego. Deve ancora cenare?”
“No, grazie. Ho mangiato qualcosa ad un bar qui vicino.”
“C'è una camera inutilizzata in fondo a questo corridoio. Può dormire lì.”
Ai si stava dirigendo verso il lavello, per iniziare a lavare i piatti. Subaru, rimasto vicino al divano, aveva appoggiato la sua piccola valigia per terra. 
“Posso anche dormire qui senza occupare altre camere.”
“Non è un problema.”
“In tal caso, grazie. Prima di tutto, in realtà, avrei bisogno di fare una doccia.”
“Il bagno è lì.” glielo indicò la bambina, prendendo in mano spugna e detersivo. 
“Hai bisogno di una mano?”
“No.” rispose immediatamente. Forse si accorse di essere stata un po' troppo brusca, e aggiunse: “Grazie comunque.”
Non riuscì a sorridere, e non disse altro. Si rilassò solo quando l'uomo sparì in bagno, e fu davvero tranquilla quando sentì il getto della doccia. Anche se non era più come prima, comunque la presenza di lui la metteva in soggezione. Era una strana tensione che la teneva fra i suoi artigli, impedendole di muoversi come meglio credeva. Si asciugò le mani e  andò a sedersi sul divano. Cosa poteva fare? Di sicuro non andare in laboratorio, o almeno finché non era lontana da occhi indiscreti. Anzi, si ricordò che aveva lasciato la porta del suo personalissimo atelier aperta. La chiuse a chiave, e poi si ritrovò ancora sul divano. Il suo pensiero vagava di qua e di là, tra formule e provette. Si accorse solo allora di essere davvero stanca. Il lavoro degli ultimi giorni le aveva eccitato la mente, e la stanchezza si era protratta così in là da diventare una lucida forza di inerzia che la mandava avanti ogni singolo passo. Provò a chiudere gli occhi e, meno di qualche minuto dopo, sprofondò in una sorta di torpore fra il sonno e la veglia. Le sembrava di sognare ad occhi aperti, e riviveva pian piano la sua giornata, con calma e tranquillità, la scuola, il discorso di Shinichi, il libro di Yusaku Kudo, gli esperimenti. Si sentiva bene. Poi, improvvisamente, udì il suo nome. Qualcuno la stava chiamando ripetutamente, e Ai ripiombò di botto nella realtà. Aprì gli occhi e si sporse istintivamente avanti, cadendo con un tonfo dal divano. Accanto a lei Subaru Okiya le porgeva una mano per aiutarla a rialzarsi. Aveva i capelli ancora bagnati e profumava di bagnoschiuma e dopobarba.
“Scusami, non volevo spaventarti. Non ti vedevo più, e ti ho chiamata. Non mi ero accorto che ti eri addormentata qui sul divano.”
Ai si alzò da sola, rifiutando implicitamente l'aiuto offerto. Si spolverò i pantaloni, con solo un breve commento: “Non importa. Tanto ho ancora qualcosa da fare.”
“Devi fare i compiti?”
“Sì.” mentì lei, sperando di essere lasciata in pace. Ma, ormai, per quella sera poteva dire addio ai suoi progetti di studio del farmaco. Non poteva arrischiarsi ad operare con un estraneo in casa. Un estraneo, tra l'altro, che non la convinceva ancora del tutto.
“E' per questo che non sei uscita con il dottor Agasa?”
“Non le ho detto che non era in casa.” disse lei, subito sulla difensiva.
“Non ci ho messo molto a dedurlo. All'entrata ho visto le sue ciabatte. E di solito è abitudine venire a salutare un ospite, ma non è venuto, il che vuol dire che non è in casa. Inoltre quando sono entrato hai messo un solo piatto nel lavello. Ma devo ammettere di averlo capito anche prima: ci hai messo molto ad aprire la porta, come di solito fanno i bambini rimasti soli in casa. Poi, appena messo piede qui dentro, ho notato lo sgabello fuori posto: devi averlo usato per arrivare fino allo spioncino, dico bene?”
“Lei è un attento osservatore. Forse un po' troppo.”
“Non volevo essere indiscreto. Mi diverto a fingermi Sherlock Holmes, di tanto in tanto.” rispose quello, sorridendole e aggiustandosi di nuovo gli occhiali sul naso, come era solito fare.
“Sono sicuro che anche a te sotto sotto piaccia provare a investigare un pochino. In fondo, sei così amica di Conan, quel bambino sveglio.” aggiunse poi.
“Non particolarmente.”
“Facciamo un gioco?”
“Non mi interessa.”
“Vediamo cosa puoi dedurre su di me, solo guardandomi.” continuò imperterrito il giovane, non curandosi delle risposte negative della bambina. Ai sbuffò, e si voltò. Si fissarono per interminabili secondi. Strinse appena gli occhi, studiandolo  e fingendo disinteresse. Apparentemente aveva accettato la sfida solo per porre fine a quelle continue domande e dare a quell'uomo la soddisfazione che voleva. Ma forse c'era qualcosa di più, che in quel momento non avrebbe saputo definire.
“Lei porta gli occhiali da poco?”
Subaru per un secondo sembrò essere stato preso alla sprovvista. Poi si rilassò di nuovo.
“Perché me lo chiedi?”
“Ho notato che li aggiusta spesso, come se le scivolassero lungo il naso. Ma non mi sembra che i suoi occhiali siano larghi, per cui ritengo che non sia abituato a portali e non sappia quindi che la maggior parte degli occhiali tende a scivolare e non aderire perfettamente. Perciò le viene spontaneo, di tanto in tanto, tentare di riportarli nella perfetta posizione.”
“Ammetto che ti avevo sottovalutata. Perfetta deduzione, mia cara detective.” sembrò fermarsi, ma poi aggiunse, come a giustificarsi: “Ho portato le lenti a contatto per un lungo periodo, e non ero più abituato ad usare questi.” e indicò gli occhiali.
Ai non disse altro.
“E quindi hai notato solo questo?”
“Diciamo che per ora è tutto.”
“E il dottore si trova alla presentazione del nuovo libro di Yusaku Kudo?” chiese di punto in bianco lui, cambiando argomento.
La bambina annuì. Quante domande.
“E davvero tu non sei andata perché dovevi studiare?”
“Non ne avevo voglia, tutto qui. E non mi sentivo molto bene.”
“Ho capito. A me sarebbe piaciuto molto andarci.”
“Poteva farlo.”
“Ho sentito dire che si poteva partecipare solo se provvisti di invito.”
“Conan le avrebbe di sicuro trovato un posto tra gli invitati. O il dottor Agasa.” 
“Conan è molto amico di questo Shinichi Kudo.”
“Così pare.”
Con queste ultime parole Ai volle porre fine alla conversazione. Non le andava nemmeno di accennare ai presunti rapporti tra Conan e Shinichi. Cosa voleva quell'uomo? Chi si nascondeva dietro quegli occhiali? Era davvero possibile che lui fosse chi Ai sospettava?
“Ti spiace se accendo la televisione? Vorrei vedere il notiziario, in questi giorni non ne ho guardato nemmeno uno.”
La bambina alzò le spalle, come a dire: “Fa' come vuoi.” 
Ben presto la pubblicità invase la stanza. Il telegiornale stava per cominciare, ma mancavano ancora dieci minuti alle undici. Con grande sorpresa di entrambi, però, la sigla arrivò in anticipo. Un'edizione straordinaria, forse? Cosa poteva essere successo?


“Gentili telespettatori, buonasera. Ci è appena giunta notizia in redazione di un omicidio avvenuto all'Haido City Hotel durante la presentazione dell'ultimo libro di Yusaku Kudo. A quanto ci è stato riferito, un uomo è stato avvelenato, ma non è ancora chiara la dinamica dei fatti, e la polizia è all'interno dell'edificio, insieme a tutti gli ospiti. Ci colleghiamo ora con la nostra corrispondente che si trova all'entrata dell'hotel, Izumi Yoshimoto. Izumi, cosa sai dirci su quello che è avvenuto?”

Sullo schermo comparve una donna e, sullo sfondo, uno degli hotel più grandi di Tokyo, illuminato a festa. Vi erano delle macchine della polizia posteggiate davanti. Ai tremò, gli occhi che non riuscivano a staccarsi dalla televisione. I ricordi erano più vicini che mai.

“Qui è ancora tutto molto confuso, la polizia non ci lascia avvicinare, ma da quanto abbiamo saputo un uomo è stato avvelenato. Secondo le ultime notizie si tratta di un tale Koichi Sakamoto, dipendente di una casa editrice di minore importanza. Come dicevi tu, gli ospiti si trovano ancora tutti all'interno dell'hotel, i poliziotti bloccano tutte le entrate e le uscite: forse si sospetta che l'omicida sia uno di loro.”

“Non appena avrai altre notizie, provvederemo subito a darti la linea. E ora parliamo di politica..”

E la voce continuò seguendo la sua scaletta e la sua routine. Un omicidio, all'Haido City Hotel. Proprio come quella volta, come quella notte. E se ci fossero stati di mezzo di nuovo gli uomini dell'Organizzazione? Ma perché colpire due volte nello stesso luogo? No, probabilmente tutto questo non c'entrava nulla, ma lei davvero non poteva fare a meno di percepirla quella paura, la dannata paura che alle volte l'assaliva, e non riusciva mai a controllare. Il suo destino era sempre così incerto, i suoi inseguitori erano forse vicini e lei non lo sapeva, ogni scossone la faceva sussultare. Potevano saltarle addosso da un momento all'altro, senza preavviso, senza esitazione. Maledizione, perché la vita era così precaria. Alzò ancora lo sguardo verso lo schermo. Quella donna era così tranquilla, mentre raccontava i problemi e le disgrazie altrui. Niente sembrava toccarla. Sentì un brivido. Voleva stare da sola. Si alzò e corse in camera sua, infilandosi dentro al futon e scomparendo sotto la coperta. Non aveva freddo, ma tremava. Era ancora troppo fragile. 
Sentì dei passi concitati lungo il corridoio. Poi dei passi più lenti in camera. E infine delle mani poggiarsi sulla coperta.
“Ehi, stai bene? Che ti prende?”
Si rannicchiò su se stessa, cercando di mascherare la voce flebile e strozzata.
“Ho sonno. Mi lasci sola, per favore.”
L'altro non sembrò convinto.
“Non stai bene, dormo qui vicino a te.”
“NO.” reagì lei, quasi urlando. Subaru rimase interdetto, la bambina si era improvvisamente messa a sedere. Aveva i capelli scarmigliati e le pupille tremanti. “Va tutto bene, mi lasci sola.”
Lui capì che non aveva senso insistere. Si alzò, girandosi sulla porta e dicendo: “Sono nella stanza qui accanto, se hai bisogno chiamami.”
Annuì. La luce si spense. Il tono di lui era stato così apprensivo, quasi dolce. Per un attimo, come d'istinto, le venne da alzarsi, da correre, da abbracciarlo. Capì allora di avere un disperato bisogno di affetto. Si ributtò a letto, la paura si era in parte quietata. Nel buio della sua cameretta pensò a Conan, intento ad indagare su quel caso. Non aveva più sonno.
Poi, una folata di vento fece aprire di botto la finestra che aveva dimenticato accostata. Quando si alzò per chiuderla, le parve di sentire il gracchiare di un corvo in lontananza. Ed ebbe come la sensazione che presto il destino sarebbe tornato per farle pagare il suo pegno.




 
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Ok, lo so, sono in ritardo e vi porto un capitolo come questo, che non mi convince per niente.
Purtroppo da quando ho aggiornato non ho più toccato la storia per oltre una settimana, causa studio. Poi mi sono messa a scrivere, e in un settimana e qualcosa è venuto fuori questo: anche qui ho dovuto tagliare, come mi è successo nello scorso capitolo xD la parte finale della storia dell'hotel (qui non compresa) era quella che più fremevo per scrivere, ma alla fine ho posticipato, perché altrimenti davvero il capitolo sarebbe risultato troppo lungo e magari noioso. Vi ripeto che non mi convince proprio, quindi ogni consiglio o parere è il benvenuto.
Purtroppo non ho molto tempo per scrivere, vorrei solo dire un'ultima cosa: dalla prossima settimana comincio le lezioni, il che vuol dire che avrò molto meno tempo per scrivere.. se gli aggiornamenti dovessero diventare più lenti, non preoccupatevi, non ho intenzione di abbandonare la storia: anche perché presto entreremo maggiormente “nel vivo”. Al massimo rallento, ma non mollo! :) Ringrazio tutti per le splendide recensioni che mi avete lasciato, e che mi hanno spronata ed incoraggiata: grazie davvero. Grazie anche a chi legge, a chi segue la storia e a chi l'ha già messa tra le preferite!
Siete meravigliosi davvero :)
Al prossimo capitolo,
Flami
  
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