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Autore: RuboLaVitaDentroDiMe    23/09/2013    0 recensioni
Avremmo semplicemente dovuto essere qualcosa di diverso, io e te, Culodritto.
Non è così?
Saremmo dovuti essere un padre e una figlia normali, come tutti quelli che vedi camminare per strada.
E invece ci siamo ritrovati ad essere due estranei.
Va bene così, Culodritto. Restatene lontana. Non roviniamo questo lungo lavoro che ci ha divisi così deliziosamente. Continuerò a parlarti nella mia testa come ho sempre fatto.
Tu, semplicemente, fammi il favore di non ascoltare.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A papà, perché lui me le ha sempre cantate,
le canzoni che voleva dedicarmi.
E perché credo che mi voglia bene con tutti i suoi
quattro quarti,
anche se io non ne valgo nemmeno uno.


 

 

Forlì, 6 Settembre 2013

 

È passato un altro anno, sai?
Non so come mi è venuto in mente, né il perché, ma all'improvviso ho questa inconsistente consapevolezza che mi ronza nelle orecchie.
È passato un anno da cosa, Culodritto? Perché ho scelto proprio questo 6 settembre ordinario e nebuloso per capire che Messer Tempo non smette mai di farci visita, ci porta via i sorrisi che abbiamo tenuto nascosti nel taschino interno della giacca e, a lungo andare, lascia solo tanta polvere nei nostri pensieri ormai arrugginiti?
Cerco sempre di spolverare, qui dentro. Proprio per questo. Di spolverare e di tenere la mia testa bella pulita, perché ormai tua madre è riuscita a contagiare anche me e perché Messer Tempo mi sta cortesemente sul cazzo, tesoro mio, per cui non ho intenzione di lasciargli più spazio di quello che merita, nelle mie preoccupazioni.
Tutto scorre, Culodritto. Tu, io, il mondo... e non sono certo il primo a godere di questa consapevolezza filosofeggiante.
Non riesci a immaginarlo, sbaglio?
Forse puoi guardare il cesso, dopo che hai tirato lo sciacquone, mentre la tua merda scivola via.
Se non hai abbastanza fantasia, quello potrebbe funzionare.
Ma forse non dovrei nemmeno usare queste parole – sì, quelle che poi hai bisogno di sapone per togliere il sapore amaro dalle labbra. A te non sono mai piaciute, vero?
Personcina a modo, Culodritto. La gente ti definirebbe così. Io non definisco per principio, lo sai e lo hai sempre saputo. Odio a braccio, senza nemmeno sapere cosa sto odiando perché non ho voluto dargli un nome.
È passato un anno dal 6 settembre di un anno fa, probabilmente ordinario e nebuloso come lo è anche questo.
Sai, forse, cos'è stato ad accendere la scintilla?
Ieri ci hai detto che te ne vai.
Che hai intenzione di andare a convivere con Lui, ma il succo è quello, che tu lo rigiri come ti pare. Te ne vai.
Penso che ti ho avuta tra le palle per tutto questo tempo e ora... Ora non so più cosa succede.
Ti ho detestata da subito, sai?
Da quella prima volta che ti ho vista, tra le braccia di tua madre, avvolta in una coperta bianca.
Lei sorrideva, mentre ti guardava, e io non riuscivo a capire il perché. Eri tutta rossa, il visino accartocciato, gli occhietti stretti stretti, il tuo corpo era tutto piegoline. Tua madre era sempre stata fissata con le cose stirate per benino e tu... tu eri stropicciata.
Una partoriente non va affaticata, lo sanno tutti. Perciò ti avrei dovuta stirare io, capisci? E io odiavo stirare. Avrei dovuto infilarti nel pacco di camice, pantaloni e gonne, e avrei dovuto sopportare la condiscendenza di mia moglie che mandava ordini dal letto.
Bastava questo, per non avere nemmeno voglia di starti vicino.
Che carina, guardala. Sembra un topolino.
Dicevano tutti così, i nostri amici, quando alla fine erano capitati in massa in ospedale per poterti guardare da vicino.
Carina.
Eri brutta, Culodritto, non prendiamoci in giro più di quanto non facciamo già. Eri brutta come lo sono tutti i bambini piccoli: congestionata in viso, voce stridula, gambette e manine sempre in movimento, come una cimice che non riesce a rimettersi sulle zampe.
Probabilmente se fosse stato per me ti avrei tenuta per un piede e ti avrei portata in giro così, il più lontano possibile dai vestiti che IO avrei dovuto lavare, se tu li avessi sporcati di vomito.
Un topolino, Culodritto. Dicevano veramente che sembravi un topolino.
Avrei dovuto sorridere, a quelle parole? Forse.
A casa mia i topolini si catturavano nelle trappole e poi si annegavano nel canale che scorreva al confine dei campi, perché altrimenti mangiavano il mais e i pulcini.
Quasi quasi ci avrei fatto un pensierino, ma poi saresti uscita dall'acqua ancora più stropicciata, piccola mia, e allora chi l'avrebbe sentita, tua madre?
Ricordo anche la prima volta che ti ho presa in braccio, ora che penso bene.
Strillavi come un'aquila, tra le mani delle infermiere, abituate con una sorta di rassegnazione irritata a quel suono tanto molesto.
Mamma dormiva, Culodritto. Mi chiedevo come ci riusciva, con tutto quel casino. E tu? Te lo ricordi, nella tua mente ballerina, quando sei caduta come un sporta di limoni tra le mie braccia?
Hai smesso di piangere e mi hai guardato con quegli occhi verdastri così schifosamente grandi e hai aperto la bocca in una smorfia sdentata.
Che stupide siete, voi donne. Così ho pensato in quel momento, vedendo quella specie di adorazione infantile nel tuo comportamento.
Stupide e masochiste.
Andate sempre a impelagarvi in quelle situazioni da cui non uscirete intere, tesoro mio.
Un uomo può farvi del male? Ed ecco che voi lo seguite come cagnolini adoranti, perché lui possa usarvi come vuole, così avrete tutto il diritto di piangere, dopo, quando lui avrà approfittato del vantaggio che gli avete dato.
Un uomo vi detesta? È solo a lui che volete dare tutto il vostro amore.
Un padre non vuole un figlio? Ed ecco che quella bambina così bruttina riuscirà ad adorarlo.
Non è cambiato nulla, alla fine, sai?
Sei rimasta sempre la stessa, anche se sei diventata carina, un po' troppo per i gusti di un padre. Ti sono spuntati i denti, i capelli, i pensieri, i sogni, le domande...
Ma sei rimasta comunque una rompipalle.
Le risposte no, non ti sono cresciute addosso come tutto il resto. Forse era per quello che te ne stavi sempre attaccata al mio culo a chiedere il perché di tutto, scricciolo.
Perché il mondo gira?
Perché le persone sono cattive?
Perché la mamma piange, cose le hai fatto?
Perché tu non sorridi mai?
Perché la nonna assomiglia così tanto all'albero secco che abbiamo in giardino?
Perché questo?
Perché quello?
E quelle erano domande facili, Culodritto. Solo che a volte ti spuntava sulle pellicine delle labbra qualcosa di difficile, e allora sì che erano cazzi.
Mi vuoi bene?
Ti volevo bene? Se mi avessi chiesto se ti detestavo non avrei nemmeno avuto bisogno di pensarci un secondo. La risposta era ovviamente sì. Ma... ti volevo bene?
Era difficile volertene, sai? Ogni tanto bagnavi il letto di notte, facevi capricci perché “questo non mi piace, fa schifo”, te ne giravi senza pantaloni per protesta e io dovevo rincorrerti perché tua madre non riusciva a starti dietro, decidevi che il foglio era troppo piccolo e che sul muro i pennarelli avrebbero fatto un bell'effetto...
Solo che non riuscivo a dirti di non volerti bene. Non ce la facevo proprio.
Non per scrupolo nei tuoi confronti, sia chiaro. Se fosse stata la verità te l'avrei detta subito, credevo tu ne avessi il diritto. Ma... io per primo non riuscivo a capire.
Era come quando mi chiedevano se amavo tua madre.
Ed è stato strano, ma col tempo ho imparato ad essere padre... a dare abbracci e baci sulle guance, ad accettare quelli appiccicosi con cui ricambiavi tu, a darti qualche sculaccione quando ne combinavi una delle tue, a darti consigli, a volerti proteggere.
E a quel punto tu non mi hai più fatto le tue domande difficili, nemmeno quando la mia risposta sarebbe stata un sì rassegnato. Dopotutto credo sia stato meglio così.
Siamo stati lontani, per tutto questo tempo. Un po' per colpa mia e un po' per colpa tua, Culodritto.
Siamo stati così lontani, ma ci siamo tenuti i nostri punti di incontro, come quelle volte il cui la tua mano scivolava nella mia e io la stringevo, sentendo che ti affidavi a me che ero io, a doverti guidare.
È strano dire che quelli sono i momenti di cui ho sempre avuto più paura, nella tua vita?
Perché tu ti stavi mettendo nelle mie mani, tesoro mio. E io avevo il dovere di proteggerti, prima di tutto da me stesso.
Ti spaventi se ti dico che ricordo tutto di te, Culodritto? Che ti ho osservata per tutto questo tempo cercando di capirti? Di capire che cosa era uscito da quegli spermatozoi che io avevo sparato dentro tua madre in un attimo di distrazione?
E scommetto che rideresti, se ti dicessi che, porca troia, non ci ho mai capito nulla.
Però ricordo, e tutto sommato credo di non pretendere di più.
Ricordo quando hai dato il tuo primo bacio. Non me l'hai mai detto, figurati se ne avresti mai avuto il coraggio, l'ho capito da solo. Non è stato poi così difficile, tutto sommato. È bastato guardare il sorriso timido ed elettrizzato che tu e tua madre vi stavate scambiando e le tue dita sottili che continuavano a passare piano su quel labbro inferiore troppo grosso per fare a paio con quello superiore, come se le tue mani volessero accertarsi che la bocca fosse ancora allo stesso posto e che nulla in te fosse cambiato.
Ricordo quando non riuscivi ad andare in bicicletta, quando ancora eri troppo piccola per poterlo fare secondo quanto mia moglie sosteneva – ma tanto tu ti eri impuntata, quindi, che voleva farci? – e che mi sei corsa incontro, mostrandomi con il naso gocciolante tutti i segni che il pavimento aveva lasciato su di te quando tu ti eri buttata fra le sue, di braccia, come in quel momento facevi di nuovo con me. E chissà cosa ti avrei lasciato addosso io.
Ricordo la prima volta che mi hai portato un ragazzo in casa, per presentarmelo con tutti i sacri crismi. Si chiamava in qualche modo? O è sempre stato una figura senza nome? Importa davvero qualcosa, dopotutto? D'altronde era terrorizzato almeno quanto lo eri tu, di fronte al mio sguardo, lo stesso che dopo tutti questi anni non è ancora riuscito ad ammorbidirsi.
Quanto tempo sono rimasto a fissarvi sudare freddo in attesa di una mia parola?
Beh, avete intenzione di rimanere così per tutta la sera? Non avete niente di meglio da fare? Io sì, se proprio volete saperlo.
Mi hai fatto una bella ramanzina dopo che lui se n'è andato, Culodritto. A quanto pareva le mie parole ci andavano raramente, a braccetto con la cortesia e la buona educazione. Ho preso una ramanzina da te e me ne sono cuccata una persino peggiore da tua madre.
Ma che ci volevi fare? Ero già padre, a quel tempo, e la gelosia era nel “kit fai da te per il padre modello” che mi avevano fornito cortesemente al centro commerciale. Ho detestato allo stesso modo – grammo più, metro meno – tutti i ragazzi che sono entrati nella tua vita, fosse per una passeggiata trai i tuoi sentimenti, fosse per una lunga maratona. Compreso questo che adesso pretende di condividere il suo futuro con te e che di sicuro si prenderà la briga di rispondere sempre alle tue domande difficili, di amare te e pure i tuoi figli, di sorriderti... di non doverti proteggere da se stesso.
Mi ricordo tante altre cose, non pensare il contrario: la prima volta che hai fatto sesso – nemmeno riuscivi a guardarmi in faccia, da quanto ti sentivi in colpa, chissà verso chi, poi... te stessa, magari? – la prima volta che mi hai chiamato papà, quando che mi hai chiesto il permesso di farti stare fuori fino a sera tarda, tutte le volte che hai preso un brutto voto in filosofia, perché quella maledetta materia non voleva entrarti in testa...
Ricordo talmente tanto di ciò che sei stata che non riesco quasi a vedere come sei ora.
Quando ti guardo, per me, sei solo una confusionaria accozzaglia di momenti passati, volati via come pappi di tarassaco.
Hai la massa di capelli ricci come molle che avevi quando eri piccola. Il cerchietto rosso con le roselline che non vedo più da tanto tempo, ormai. Gli occhi truccati di mascara, sbavato dal sudore o dalle lacrime. Il rossetto di mamma spalmato sulle labbra e anche fuori, perché ti piaceva giocare ad essere un clown – già, non ad essere adulta e spostata, come tutte le bambine... semplicemente, un clown. Il petto piatto che è rimasto praticamente sempre lo stesso. La seria camicia bianca che usi per andare a lavoro, su cui sono spalmate le macchie di pomodoro e le proteste di mamma perché proprio non capisce come si possa far vestire di bianco delle cameriere di un ristorante, ristorante-pizzeria, la correggi tutte le volte. Le dita lunghe che suonano il pianoforte solo perché lo vuole papà e tu non sei abbastanza grande per capire che non devi fare niente per qualcuno che non sia semplicemente tu. Le unghie con la french manicure perché a dipingerle di nero e a cercare di essere ribelle e diversa, una buona volta, non ci sei mai riuscita, ma forse forse un po' io ci speravo, invece. Il costumino con Minnie disegnata sia davanti sia dietro, giusto per farla vedere bene a tutti, quello che mettevi quando ancora il pezzo sopra non serviva a nulla e tutti ti avrebbero scambiata per un bambino, non fosse stato per il rosa che ti gettavi addosso in qualsiasi forma. Le gambe lunghe e sottili, maledettamente storte come le ho sempre ricordate, piene di lividi, graffi e crosticine – perché le punture di zanzara non le hai mai potute sopportare – ma perfettamente depilate, perché un giorno, all'improvviso, hai deciso di essere donna e di non volere tutta quella pelliccia addosso. Uno dei piedi con una scarpa con il tacco, di quelle che usavi per andare in discoteca, e l'altro piccolino, con la scarpina pelosa che ti abbiamo infilato quando siamo andati a passeggiare per la prima volta, dopo essere usciti dall'ospedale...
Fra un po' tutto questo assurdo collage di te non ci sarà più e tutto quello spazio che tu ingombravi, ora risuonerà di silenzio.
Non so come dirlo, ma credo che mi mancherai.
Insomma, non dovrò più lottare per il bagno, la mattina, non troverò più i tuoi capelli lunghi infilati chissà come dentro le mie mutande, non ci saranno più assorbenti sporchi dimenticati sopra il cestino – tranquilla, Culodritto, succedeva di rado: questo non fa di te una persona disordinata, puoi giurarci – non vedrò più i tuoi sguardi di superiorità quando io non capisco una citazione e perdonami se non sono riuscito a farmi cinque anni di liceo come te, tesoro mio: io le cose me lo sono dovute sudare molto più di quanto tu abbia mai dovuto fare...
In qualche nebuloso modo sento che avrò nostalgia di te.
Ti lascio andare tranquillo, comunque, anche se preferirei doverne fare a meno, perché so che sei in buone mani: non le Sue – non farmi ridere, quell'uomo è perfettamente indegno di te, piccola mia, ed è per questo che ti piace tanto – semplicemente... le tue.
Forse, ora che te ne vai e io non ho più nessun contegno da mantenere, posso anche ammettere un sacco di cose...
Primo fra tutti il fatto che ho una valanga di rimpianti, con te, Culodritto. Più di quanti dovrebbe averne un padre normale, suppongo.
Avrei dovuto conoscerti di più, in questi ventinove anni, o almeno provarci, giusto per non dovermi trovare ad essere triste perché una mezza estranea se ne va per sempre da casa mia.
Avrei dovuto suonarti e cantarti quelle canzoni che da giovane mi ero ripromesso di dedicare ai miei figli, perché a quel tempo ancora ci credevo. Te le ho sussurrate in silenzio, invece, facendo finta che tu potessi sentirmi e non capirmi, così come era giusto che fosse.
Vorrei essermi seduto accanto a te, almeno una volta, e a verti chiesto come andava, sul serio e non per cortesia, ma invece siamo sempre rimasti accovacciati su quel divano, separati dalla voragine dei due grandi cuscini di seduta, chiacchierando di cose squisitamente inutili e deliziosamente codarde, urlandoci in silenzio quello che veramente premeva tra le costole.
Vorrei aver imparato a capire i tuoi pensieri dai tuoi movimenti, dai tuoi respiri, dal rumore che facevano le tue idee rigirandosi nel cervello, come ho desiderato ogni volta che mi passavi davanti e io capivo che c'era qualcosa di sbagliato nel modo in cui camminavi, ma non sapevo cosa.
Avrei voluto che tu nascessi lontana dall'anno in cui sei nata. Non voglio dire un'altra epoca, mi fa sentire più vecchio di quanto io non sia veramente... solo un altro tempo. Quel tempo in cui la città era lontana, era esotica. Quel tempo in cui tua madre ti avrebbe proibito di fare il bagno nel fiume dietro alla vigna, ma tu l'avresti fatto comunque e poi lei ti avrebbe scoperta perché i tuoi occhi erano arrossati da far schifo e non sapeva se era acqua o erba. Quel tempo in cui tu saresti ritornata a casa coperta di polvere, con qualche occhio nero per una polverosa azzuffata con un bambino che ha accusato tuo padre di aver rubato una gallina al suo. Quel tempo in cui scivolavamo sui fossi ghiacciati con lo slittino e le dita rigide come rametti di frassino. Quel tempo in cui Lui sarebbe venuto a lanciarti sassolini alla finestra e nel tentativo di attirare la tua attenzione avrebbe svegliato tutta la casa meno che te. Quando avresti rubato l'uva di nascosto a quei filari così invitanti che c'erano sulla strada di casa. Quel tempo in cui la televisione non c'era e l'aria crepitava della voce spezzata della radio...
Invece sei nata con un telecomando in mano e un mouse sotto i piedi. Un pulsante per cambiare mondo, un click per cancellare tutto ciò che non ti piace.
Non hai fatto fatica, vorrei che tu ne avessi fatta molta. Solo per farti capire cosa si prova.
Saremmo stati ancora più lontani di quanto siamo ora, tesoro mio: la vita di campagna non era fatta per essere dei padri presenti ed amorevoli come bisogna essere ora. Già. Saremmo stati due veri e propri estranei, ma almeno tu saresti stata viva.
Vorrei averti detto che ti volevo bene quando ero in grado di farlo, perché se me lo chiedessi ora esiterei di nuovo. Te ne voglio, tesoro mio, sul serio, ma... ma...
Avrei voluto lasciarti qualcosa in più di me, invece dell'uomo che sono non hai assolutamente nulla.
Ma quest'ultimo è solo un rimpianto intermittente, che va e viene: a conti fatti, sono contento che tu non mi assomigli; hai preso tutto da tua madre, grazie a Dio, o chiunque esista, da qualche parte.
Ogni tanto ancora capita che tu abbia una qualche fugace espressione di quelle che io rivedo sulla mia faccia quando mi guardo allo specchio, succede che tu ti lasci sfuggire di bocca una delle mie frasi tipiche, succede che pronunci una parola con la mia stessa inflessione.
Sono attimi di puro panico, in cui vedo caderti addosso tutto quello che io stesso ho sulle spalle. In quegli istanti vorrei venire da te e prenderti a sberle fino a rendere il tuo viso irriconoscibile, lontano da qualsiasi forma esistente, così da scongiurare quel pericolo che ti grava addosso e che tu nemmeno conosci. Ma non è mai stato necessario: tu poi torni ad essere subito lontana anni luce e posso tranquillizzarmi, sapendo che sei al sicuro dall'essere me.
Non hai fantasia, tu, Culodritto. Te lo ripeto – o forse lo ripeto solo a me stesso – da tanto tempo, ormai. Sai di essere fortunata, per questo?
Chiunque altro, al tuo posto, vedrebbe nella propria vita una fila inutile di eventi, uno attaccato all'altro, senza senso, decadente, logorante... Non tu, tu amerai la rollante routine della tua vita e non ti importerà nulla di nulla.
Ti sposerai, prima o poi; tuo marito ti amerà per quel poco che la sua mente senza fantasia gli consentirà; formerete una famiglia, un giorno, se mai avrete il coraggio di farlo: uno stipendio da cameriera e uno da meccanico non basteranno mai, lo sai, vero?; non programmerete nessun figlio, se mai dovesse arrivare, poco male, vi adatterete e pitturerete la sua stanza con le nuvole; farete sesso quando vi ricorderete di essere una coppia e di avere dei bisogni fisici, ma vi ostinerete a dire che state facendo l'amore; invecchierete assieme e tornerete a farci visita di tanto in tanto; la vita lascerà i propri segni su di voi e voi non lascerete nessun segno nel mondo; ma soprattutto di tutto questo nemmeno vi accorgerete, vi alzerete semplicemente, la mattina, e andrete avanti lungo il percorso che vi siete tracciati.
Dio, quanto deve essere bello poter vivere così. Non chiedere nulla, non pretendere, non sperare, non sognare, semplicemente esistere nel modo più semplice che esista.
Hai idea di come sia, invece, essere dei sognatori, Culodritto?
Io lo sono stato. Forse lo sono ancora, ma di certo non ci scommetterei più di qualche centesimo.
Ho voluto per tanto tempo cercare di cambiare l'ordine delle cose, e prima di tutto trovarlo, uno stramaledettissimo ordine, se mai poteva esistere. O cercato di capire, di dire, di lottare, di essere in divenire... Ho fatto talmente tanto che alla fine non ho fatto niente.
Forse ti sarebbe piaciuto, Culodritto, se solo fossi stata più simile a me. Ti sarebbe piaciuto camminare per le strade e vedere in tutto quello che ti circonda un filo che collega tutti, avresti avuto sulla lingua metafore esplosive come fuochi d'artificio, le tue idee sarebbero state lanterne cinesi da far volare in aria... Avrei voluto mostrartelo, se solo io e te fossimo stati due persone diverse. Avrei voluto mostrarti veramente il rovescio del mondo, le sue cuciture, invece della stupidissima collezione di francobolli che ho tenuto nel cassetto dei calzini per così tanto tempo.
Ti prego, Culodritto, cerca di fare qualcosa della tua vita. Anche qualcosa di mediocre, di apparentemente inutile, ma che ti renda felice. Ti prego, provaci. Fai finta di esserlo, almeno. Convinci te stessa. Ma non ritrovarti a sessant'anni con la consapevolezza di essere una persona sbiadita, incolore, inconsistente.
Sai come ci si sente ad essere dei falliti, tesoro mio? Sai quanto male fa?
Io sono stato anche questo. E stavolta posso dire con discreta sicurezza che lo sono ancora.
Forse ora che te ne vai posso sputarti addosso qualcosa che non sono mai riuscito a dire a nessuno, a parlare proprio a te del passato più passato, di quello che non ne accenni nemmeno per sbaglio, perché farlo ti darebbe la misura della sua lontananza.
Non me ne frega un cazzo di quando ero bambino o ragazzo. Sono semplicemente stato come molti altri e ora come ora mi ritrovo a rimpiangere di non essere rimasto così comune. Di non essere rimasto una maledettissima confezione di pelati posata in serie sugli scaffali del supermercato.
È del mio essere giovane uomo, che voglio parlarti, Culodritto. Di quando ho scoperto che era l'Arte, quello che volevo fare, quello che volevo essere.
Volevo essere Musica, Letteratura, Poesia, Teatro, Danza, Scultura... qualsiasi cosa gli altri non fossero in grado di capire e che avesse un senso così senza senso da essere l'unico senso possibile.
Per un po' ce l'ho fatta.
Avevamo una Factory, sai? Proprio come quella tanto famosa di Andy Warhol, quella che sicuramente tu hai studiato, perché fra le stupidamente troppe materie che vi appioppano c'è anche Storia dell'Arte – storia dell'arte, Culodritto? Davvero? Che cosa stupida. L'Arte va vissuta, tesoro mio, non c'è altro modo per farla esistere. Era una cosa semplice, di poche persone, in un paese in culo al mondo come era il nostro. Una Azienda A Conduzione Familiare, più che una Fabbrica, ma ci bastava.
Se avessi un album di fotografie di quegli anni potrei mostrarti la luce che forse ti sorprenderesti a scoprire nei miei occhi. Ti assicuro che quelli sono gli stessi di ora.
Eravamo artisti, vivevamo o per l'essere o per l'apparire a seconda del tempo, ci rivoltavamo l'anima come calzini, bruciavamo come fiammiferi – quelli con la testa blu, eh, ché quelli rossi nemmeno si accendono – e vivevamo come tante piccole falene che picchiano la testa contro la lampadina.
Ho anche amato, in tutto quel tempo. Forse ti sembrerà strano saperlo.
Forse troverai assurdo che io – tuo padre – sia riuscito ad amare davvero.
Ben due persone.
La prima è stata... beh, il suo nome non importa, vero? Dopotutto lei, alla fine, non mi ha lasciato nulla. Ma è da lei che ho cominciato a fare vera Arte, quella che viene dall'amore non ricambiato, dal cuore a pezzi, dal rimpianto di qualcosa che poteva essere e che invece non sarà mai.
Se n'è andata, alla fine. Cazzo, no, non una di quelle metafore per dire che ci ha lasciato le penne, semplicemente ha preso ed è andata in cerca di qualcosa di meglio che quattro squattrinati disperati con le pezze al culo. Non ne ho più saputo niente. Riderebbe di me, se mi vedesse ora, ma non credo che potrebbe farlo nemmeno se volesse. Quella bruciava talmente tanto che si sarà consumata prima di tutti noi, probabilmente in un vicolo e con una siringa ancora piantata nel braccio.
Il secondo è stato diverso. È stato la mia toppa. Quello che ha tappato il buco che lei aveva lasciato. Gli ho permesso di avvicinarsi solo per il bisogno di essere amato senza la fatica di dover ricambiare e poi un giorno, così, puff!, mi sono ritrovato ad amarlo.
Ti ricordi il fratello di tua madre? Sì, zio Mario, quello tanto volgare che tu detesti e che io, anche se non ho mai voluto darlo a vedere, apprezzo più di chiunque altro, nella nostra famiglia, perché lì siamo tutti ciechi, ma lui ci vede, almeno un po'. Ti ricordi quando diceva che sembravo avere un palo su per il culo?
La cosa divertente è che ce l'ho avuto veramente per un sacco di tempo e, vaffanculo a tutti i perbenisti benpensanti come tua madre, mi è sempre piaciuto.
Te lo ricordi invece zio Michele? Quello zio che non era zio, quello che è spuntato in casa come un fungo, all'improvviso, quello che papà, zio Michele ti sorride sempre, perché tu non fai come lui?, quello che ogni tanto ti guardava in viso con una smorfia? Ecco, lui è stato il mio amatissimo cazzo in culo e tua madre gli sorrideva senza neanche saperlo.
Bell'uomo che sono stato, vero?
E poi cos'è successo, ti chiederai?
Niente. Ho solamente scoperto che non è il genio a riuscire, nella vita, ma semplicemente l'uomo che è in grado di conformarsi al sistema, di trovare un posto nel mondo in cui risulti produttivo.
Non voglio farti credere di essere stato un genio, Culodritto. Non sarebbe giusto nei tuoi confronti e nemmeno nei miei. Sono semplicemente stato più vicino al confine della follia di quanto non sia concesso a qualcuno che vuole farcela, in qualche modo.
E così me ne sono dovuto andare anche io.
A cercare una vita diversa, che mi desse qualche via d'uscita.
E così, passo dopo passo, eccomi qui.
Ho conosciuto tua madre; mi sono spostato; mia moglie mi ha amato per quel poco che la sua mente senza fantasia le consentiva; abbiamo formato una famiglia, alla fine, abbiamo trovato il coraggio di farlo: uno stipendio da operaio e uno da segretaria non bastano mai; non abbiamo programmato nessun figlio, ma tu sei arrivata e, poco male, ci siamo adattati e abbiamo pitturato la tua stanza con le nuvole; abbiamo fatto sesso quando ci ricordavamo di essere una coppia e di avere dei bisogni fisici, ma ci ostinavamo a dire che stavamo facendo l'amore; siamo invecchiati assieme e il passato torna a farci visita, ogni tanto; la vita ha lasciato i propri segni su di noi e noi non abbiamo lasciato nessun segno nel mondo; ma io di tutto questo mi sono accorto, e ancora ora mi sveglio la mattina chiedendomi perché.
Ti direi una bugia se ti dicessi di aver imparato ad essere felice anche in questo modo. Sarebbe una vera cazzata. Semplicemente, non sono felice.
Ma sarebbe anche una bugia dirti che non ho imparato ad amare tua madre e a voler bene a te. Vi ho detestate, odiate, disprezzate e tutto il resto. Ma vi ho anche amate.
Ho amato il vostro ordine a tutti i costi, che non tiene conto dell'entropia universale, ho amato i vostri capelli scuri. Ho amato il modo in cui tua madre piegava indietro il collo, quando io tornavo da casa e le poggiavo un bacio sulla pelle della gola, abbracciandola da dietro. Ho amato il suo respiro sul petto quando ogni tanto si stringeva a me sotto le coperte. Ho amato il modo in cui lei mi perdonava le sberle che ogni tanto mi sfuggivano dalle mani sul suo viso. Ho adorato la tua bocca a O quando ti addormentavi e quel piccolo filo di saliva colava sul cuscino attraverso la fessura lasciata dal dentino caduto e messo sotto il cuscino.
Sono semplicemente un uomo spezzato, Culodritto. Un uomo diviso.
Spero ti basti sapere che tu e tua madre vi siete guadagnate guadagnate metà di me, un quarto una e un quarto l'altra. L'altra metà a Michele, ma era giusto così, tesoro mio. Lui se ne merita una intera.
Potrei chiederti di vivere e di fare tutto quello che io non sono riuscito a portare a termine, sai? Amare veramente, vedere il mondo, capirlo, essere qualcuno, volare a visitare ogni anfratto nascosto, creare parole nuove per descrivere la realtà...
Ma non sei la persona giusta, a cui lasciare tutti questi desideri, perciò me li terrò per me, fino alla fine, irrisolti come un cruciverba di quelli che rimanevano vuoti a metà per mesi, perché li facevamo a turno solo quando eravamo in bagno.
Chissà per quanto ancora dovrai fingere di venire a trovarmi, Culodritto. Non credo che ti rimarrò tra i piedi ancora a lungo, sai? Mi sorprendo già di essere arrivato a questo punto, di non aver mai scoperto, strada facendo, di avere qualche malattia che mi consumava da dentro.
Perciò intanto vai, portati via il mio ricordo piegato nel portafoglio insieme a vecchi scontrini e carte fedeltà di supermercati...
Ti affido al mondo o forse affido il mondo a te, non saprei quale delle tue scegliere. Tanto vi farete male a vicenda comunque e nessuno dei due ne uscirà vincitore. Perciò fa lo stesso.
Però la vuoi sapere, alla fine, la risposta alla tua domanda?
Mi vuoi bene, papà?
Per un quarto, quello che appartiene solo a te, mi sei estranea come le centinaia di impronte di piedi sulla sabbia di una spiaggia qualunque. Per un quarto, quello che appartiene a tua madre, ti adoro. Per una metà, quella che appartiene a Michele, ti detesto.
Tutto qui, tesoro mio. Tutto qui. E scusami se è poco.


Papà 



 



Note:
Non so esattamente perché ho deciso di pubblicare questa cosa. In realtà questa non è nemmeno una storia, come ho a più riprese fatto notare a me stessa. Era semplicemente un esercizio di scrittura di quelli che faccio ogni tanto, giusto perché ho un blocco dello scrittore che non se ne va e non mi garba molto l'idea di perdere la mano con la scrittura solo perché non ho idee (cosa che mi succede spesso, a quanto pare: sia di perderci la mano, sia di non avere idee)...
Non mi piace e credo sia per questo che ho voglia di pubblicarla. Ultimamente il mio mondo funziona tutto al contrario, anzi, nemmeno al contrario, che perlomeno presupporrebbe un ordine... semplicemente funziona tutto alla rinfusa.
Perdonate quindi questa pseudo-storia e scivolate oltre, perché uno studente classicista in piena ripresa è fuori controllo e non c'è nulla da fare per poterlo aiutare (come testimonia il tentativo di scrivere le note d'autore in verso Saturnio).
La storia è strana, lo vedete anche voi. Dovrebbe essere la lettera di un padre alla figlia, ma è tutto talmente cozzante da... da essere strano.
Non voglio commentare oltre, in realtà. Parla tutto da sé e si fa cattiva pubblicità in tutta automonia. Le manca solo la capacità di autocestinarsi per portare a termine il lavoro che dovrebbe fare.
L'unica cosa da evidenziare, a questo punto, è il titolo, preso dall'omonima canzone di Guccini, che ho amabilmente stravolto, stuprato e abusato in più e più modi, giusto perché non sono una bella persona.
Quindi, questo... e niente in più.
Alla prossima
LadraDiVita
  
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