HACKER
CAPITOLO VI
Tower Bridge
«Quindi possiamo
fidarci di lei?»
Mycroft non rispose
subito. L’uomo fissava la punta delle sue scarpe con la fronte aggrottata,
perso in chi sa quali pensieri. Dopo qualche attimo sospirò e annuì lentamente.
«Anche se odio ammetterlo temo proprio di sì, John. Dobbiamo fidarci di lei...
Ma non completamente.»
John lo guardò
sconcertato. «In che senso?»
Mycroft sospirò a
occhi chiusi. «Ho parlato con Martin Freeman, attualmente a guida dei servizi
segreti: Alice lavora effettivamente per lui e afferma di sapere quello che sta
facendo e di avere piena fiducia in lei. Ma c’è qualcosa che non mi
convince...»
«Ovvero?»
Holmes lo guardò
arricciando le labbra. «Non saprei dire esattamente cosa, ma la conosco
abbastanza da capire che ci sta nascondendo qualcosa. È un’abile attrice, ma si
sa, gli attori sono attori, John, e la loro recitazione non corrisponde mai all’esatta
verità.» Fece una pausa, posando lo sguardo sul proprio ombrello. «Dicono che
sia una delle migliori nel suo campo, se non la migliore, ma sono sicuro che
non lo sia quanto vorrebbe essere. Penso che qualcuno ci sia, in grado di
superarla...»
John sbuffò.
Nonostante Mycroft gli avesse raccontato tutto ciò che sapeva sulla donna
faticava ancora a fidarsene.
«In sostanza, John,
faccia ciò che le chiede ma tenga gli occhi aperti. Ha il mio numero, farò del
mio meglio per aiutarla. Freeman è restio dal coinvolgermi in questa storia ma
a quanto pare Alice lo ha convinto in quanto le serviva il suo aiuto, e di
conseguenza, il mio.»
«Hai detto che è il
suo lavoro. Che ha aiutato Moriarty per questo. Ma come sappiamo che non
lavorava più per lui tre mesi fa con la storia del-del...?»
Mycroft annuì.
«Freeman sostiene che Alice si è rivolta a lui poco prima degli eventi con la
signorina Adler, ovvero dopo che l’avevi appena conosciuta, John. Non so perché
Moriarty la abbia lasciata andare, è un bottino abbastanza sostanzioso, ed è
per questo che credo di non potermi fidare di lei ciecamente.»
John annuì, mentre Mycroft si alzava dalla
poltrona e si dirigeva verso porta. «Arrivederci, John, e buona fortuna.»
***
Sherlock giocherellava
nervosamente con il foglietto, rigirandoselo tra le mani. I numeri scritti in
pennarello indelebile nero rilucevano ogni qual volta il fascio di luce della
lampada li colpiva di striscio. 097109. Si morse il labbro.
Alice, seduta poco
lontano, fissava lo schermo del computer, dove gli stessi numeri capeggiavano
nell’immagine della piazza di Trafalgar Square.
Erano in un’ampia
stanza dove decine di uomini sedevano di fronte ai loro computer, intenti nel
loro lavoro.
I due ragazzi
stonavano nel complesso: gli uomini erano tutti vestiti elegantemente, mentre
loro due sembravano appena usciti da una battaglia corpo a corpo. Sherlock
aveva i lunghi riccioli castani arruffati, era dimagrito di diversi chili e
risultava essere più pallido e emaciato. La barba gli cresceva ispida sulla
pelle diafana, appena accennata mentre le borse sotto gli occhi sembravano
farsi di giorno in giorno più pesanti. Non dormiva, perché non ne sentiva il
bisogno.
Alice in confronto era
messa molto meglio, ma anche lei riportava segni di stanchezza. L’ultimo mese
era stato incredibilmente difficile per entrambi.
Subito dopo il
salvataggio erano partiti, lontano dall’Inghilterra, e si erano nascosti sotto
copertura per trovare un modo per smontare l’organizzazione di Moriarty. In
parte ci erano riusciti e un gran numero di uomini era stato arrestato o ucciso
(per qualche strana e inspiegabile coincidenza), ma non erano riusciti a
concludere niente: il piano prevedeva di rimanere nascosti per alcuni anni e
invece qualcuno aveva pensato bene di minacciarli.
«Per quanto tempo
ancora dobbiamo tenere montato questo teatrino?»
I due ragazzi alzarono
lo sguardo dalle proprie distrazioni. Persi nei loro pensieri non si erano
accorti del gruppo che aveva appena fatto il suo ingresso nella stanza.
Martin Freeman li
capeggiava, seguito da un gruppo di persone in giacca e cravatta che si
guardava intorno con superiorità.
Alice sbuffò e
distolse lo sguardo. «Per quanto ce ne sarà ancora bisogno.»
Sherlock ghignò.
Martin in tutta
risposta si passò una mano sul volto, stanco. «Devo ammettere che non avevo mai
usato le mie doti artistiche, e che ne sono rimasto piacevolmente sorpreso, ma
non credo che lo scherzo reggerà ancora per molto. Mycroft per primo era poco
convinto. Quanto ci impiegherà a sospettare di qualcosa?»
Alice sorrise
divertita. «L’importante è reggere il gioco con il dottore...» Sherlock fece
una smorfia. «...fino a quando il nostro criminale non si farà vivo. Poi
vedremo come agire. Pensi che reggerà il colpo, Sherlock?»
L’uomo non si scompose
ma gli occhi gli si velarono.
«E il codice? Novità?»
«Sedici.»
Martin guardò il
detective sorpreso.
«Sedici possibilità di
decifrazione e nessuna sembra calzare a pennello.» Sospirò Sherlock.
Alice si passò una
mano tra i capelli, divertita. «Non possiamo far altro che aspettare. Il nostro
amico si farà presto vedere, ne sono sicura...»
Freeman sbuffò.
Rimasero una decina di
minuti in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri, poi un suono arrivò da
uno dei computer vicini. Gli uomini tutt’intorno si affrettarono e cominciarono
a parlare tra loro, urlando ordini da un capo all’altro della stanza.
In tutta quella
confusione Sherlock e Alice scattarono in piedi e si affrettarono al computer
centrale, seguiti da Freeman e compagnia.
Un messaggio si aprì davanti ai loro
occhi. «Tower Bridge, 2 pm.»
***
John stava per andare a coricarsi per
il suo sonnellino pomeridiano quando improvvisamente il cellulare squillò. Con
uno sbuffo spazientito afferrò lo smartphone e guardò
sconcertato il messaggio appena comparso sullo schermo.
(1:03
pm)
Le
va una passeggiata nei dintorni di Tower Bridge,
Watson? AM
Rilesse un paio di
volte il messaggio, con stanchezza, quasi a sperare che scomparisse da un
momento all’altro. Quando questi non lo fece, si alzò, abbandonando
completamente l’idea di un po’ di riposo, e si vestì in fretta. Appena prima di
uscire scrisse un messaggio veloce a Mycroft poi si lasciò alle spalle la pace
casalinga e si avventurò nel traffico di Londra.
Trovò Alice Moffat ad aspettarlo all’inizio di Tower
Bridge Approach intenta a scrivere freneticamente al
cellulare. Appena lo vide, tuttavia, abbandonò lo smartphone
e gli rivolse tutta la sua attenzione.
«Buon pomeriggio,
Watson. Non ha passato una buona nottata, vero? Avrebbe dovuto prendersi una
pausa per pranzo e mangiare qualcosa degno di questo nome. Il cibo spazzatura
riempirà anche, ma non le fa bene alla salute...»
John soffocò sul
nascere quella domanda che ormai non rivolgeva più da tre mesi, e ricambiò il
saluto. «Ci sono novità?» chiese invece.
Alice sorrise e annuì,
estraendo dalla tasca una lettera. John ignorò la fitta al petto nel rivedere
la scrittura dell’amico perduto. «Tower
Bridge, 2 pm» lesse, «Che cosa significa?»
«Penso che il nostro
informatore segreto ci voglia lì per quell’ora...» sospirò Alice.
John annuì poco
convinto. «Lei pensa che... insomma...» scosse la testa sconsolato come a
scacciare un brutto pensiero.
Alice gli rivolse uno
sguardo triste. «In questo momento non so più cosa pensare, Watson. Ma venga,
sarò felice di rispondere alle sue domande, per quanto mi è concesso. La zona è
controllata. Reciteremo la parte dei turisti curiosi mentre faremo la nostra
chiacchierata.» Sorrise e si avviò lungo la strada che costeggiava il complesso
della torre di Londra, diretta verso il famoso ponte. John la seguì.
«Allora...» cominciò
la donna, «che cosa vorrebbe sapere?» lo incoraggiò gioviale.
John si morse il
labbro. «Perché sta facendo tutto questo? Secondo Mycroft non è lei a lavorare
per i servizi segreti ma il contrario...»
Alice scoppiò a ridere.
«Diciamo che lavoriamo insieme per una causa comune.» Sorrise. «Ma posso
assicurarle che le decisioni non le prendo da sola come invece potrebbe
sembrare.»
«E quale sarebbe
questa causa comune?» si azzardò l’uomo.
Alice arricciò un
labbro. «Londra.»
John ridacchiò.
«Londra?»
«Questa persona sta
attentando ai luoghi più famosi della città, non se n’è accorto?» ribatté
Alice.
John sospirò. «Lei fa
di tutto per evitare l’argomento...»
La donna lo guardò
esterrefatta. «Ovvero?»
L’uomo deglutì.
«Sherlock Holmes.»
«Ah beh...» mormorò
Alice divertita, «lei sembra fare di tutto per parlarne allora...»
John annuì. «Che cosa
l’ha fatta tornare a Londra dopo questi anni? E che cosa le ha fatto cambiare
idea dopo quella notte in piscina per cominciare a passare informazioni su
Moriarty all’MI5? E poi, come ha fatto a fuggire?»
Alice ridacchiò. «Mi
lasci almeno il tempo di respirare, dottore!» Spostò lo sguardo sulla famosa
torre poco lontana e sospirò. «Ho la vaga impressione che Mycroft la stia
annebbiando con le sue idee...»
«Quali idee? Quelle
per le quali Sherlock possa avere un giorno provato qualcosa nei suoi
confronti? E perché c’è l’ha tanto con Mycroft Holmes?»
Alice scosse la testa
pensierosa. «Non vado d’accordo con Mycroft per ovvi motivi, Watson. Penso che nei
miei panni farebbe lo stesso. Per quanto riguarda Sherlock, invece, me ne sorprendo,
pensavo lo conoscesse abbastanza bene. Dovrebbe sapere che con lui le regole
normali non valgono...»
John sbuffò. «L’ho
visto personalmente soffrire per l’apparente morte della signorina Adler, e
successivamente avere paura per un mastino immaginario… Potrà nascondere i suoi
sentimenti sotto strati e strati di non so cosa, ma le assicuro che è umano
anche lui.»
Alice sembrava
vagamente irritata. «Ne parla ancora al presente, Watson... Non lo ha ancora
accettato, vero? Per quanto mi riguarda dubito fortemente che abbia sofferto
per Irene Adler. L’ho conosciuta personalmente e abbiamo avuto modo di parlare
di Sherlock insieme. Le assicuro che si sbaglia.»
John sgranò gli occhi.
«Lei conosceva Irene Adler?»
Alice fece un gesto d’impazienza
con la mano. «La conosco, ma sono cose che non la riguardano.»
John si inumidì le
labbra, ma non osò proseguire oltre con quel discorso. «Mycroft mi ha detto che
quando lei se ne è andata Sherlock è quasi finito in overdose.»
Alice si oscurò e per
un attimo John credette di vedere un velo di sorpresa nei suoi occhi. Poi però
scosse la testa e tornò a guardare il Tamigi con diffidenza. «C’è altro?»
Ormai Tower Bridge era vicino e l’orologio da polso di John
segnava che mancavano dieci minuti alle due. John si fermò e fissò Alice negli
occhi. «Possibile che non le importi niente?» domandò, una nota di rabbia nella
voce.
Il volto di Alice si
indurì. «Me ne importa abbastanza da essere qui, ora. Si è chiesto perché io la
stia coinvolgendo?»
John non rispose,
distogliendo lo sguardo infastidito.
Alice si addolcì
leggermente. «Quanto gliene importa a lei, invece?»
Un leggero colorito
rossastro comparve sulle guance del medico. «Glielo devo. Ha fatto cose
strabilianti e per questo è stato reputato un falso e un ipocrita.»
Alice ghignò. «Se il
mittente fosse veramente lui, come reagirebbe dottore? Non mi sembra tipo da
svenimenti improvvisi.»
John si incupì.
«Semplicemente non è lui, punto. L’ho visto con i miei occhi spiaccicarsi al
suolo, l’ho visto a terra con la testa fracassata e ricoperto di sangue. Che si
sia salvato è impossibile. A meno che non fosse diventato improvvisamente un
mago, ne dubito fortemente.»
Alice ridacchiò. «Non
so se Sherlock apprezzerebbe il suo modo di ragionare... Ma non le piacerebbe
sapere che è vivo e vegeto e che le sta guardando le spalle?»
John annuì
distrattamente perso nei suoi pensieri e per questo non notò l’espressione
colpevole comparsa sul volto della donna.
Continuarono a
camminare in silenzio fino alle due meno cinque, poi passarono finalmente sotto
il grande arco di pietra, passando di fianco alla targa che recava il nome del
ponte. Si guardarono attentamente intorno, ma a parte qualche auto che passava
e alcune persone, per lo più turisti, che guardavano il panorama, non notarono
niente di strano.
Accadde all’improvviso.
L’orologio di John
aveva appena emesso il bip delle due in punto quando
nell’aria risuonò il suono di una forte esplosione.
Tutti i passanti
compresi Alice e John si girarono verso il centro del ponte dove evidentemente un’auto
era appena esplosa e ora bruciava lentamente accartocciandosi su se stessa.
In un attimo il ponte
risuonò delle urla dei passanti e degli allarmi delle auto. John ed Alice, dopo
essersi scambiati un’occhiata veloce, corsero verso il punto dove era avvenuta
l’esplosione. In lontananza si sentivano già i suoni delle sirene, mentre
decine di uomini in completo nero si avvicinavano insieme ad Alice e John.
La donna pareva
furiosa: urlava ordini a destra e a manca, comandando agli uomini di spargersi
e cercare prima dell’arrivo della polizia. Ma era evidentemente troppo tardi:
nessuno trovò niente.
In mezzo alla
confusione John si guardò intorno. Fu il tempo di un secondo. Per un attimo
vide l’alta figura di un uomo, avviluppato nel suo lungo cappotto, in piedi, in
controluce, di fianco al rottame.
Sbatté gli occhi, col
fiato sospeso e il cuore a mille, ma quando li riaprì era già scomparso. Rimase
immobile, boccheggiante, fino a quando Alice non lo richiamò all’attenzione e
lo costrinse ad allontanarsi. «La polizia non deve assolutamente trovarla qui,
Watson.»
John la seguì,
apatico, e si lasciò cadere sul sedile di un’auto nera, mentre Alice gli si
sedeva accanto. Poi l’auto partì sgommando.
Ripresosi dal colpo,
John aprì e chiuse velocemente la mano sinistra, nervosamente.
«Tutto bene dottore?»
gli chiese Alice, un guizzo di comprensione negli occhi.
«Io... sì... sì, tutto a posto... Mi
pare a solo di aver visto...» Si passò una mano sul volto, poi scosse la testa,
mentre Alice si irrigidiva impercettibilmente sul sedile dell’auto.
***
«C’è solo una
spiegazione a tutto questo...» Alice parlava, seria, mentre le immagini dell’esplosione
a Tower Bridge passavano nel servizio della BBC.
Erano ancora nella stanza dei computer, lei, Sherlock, Martin e alcuni
esponenti dell’MI5. La ascoltavano tutti, attenti.
«Conosco solo una
persona in grado di fare tutto ciò, e la conosco abbastanza da riconoscerla.» S’interruppe mentre si portava una mano al volto e si
scostava una ciocca di capelli dall’occhio con un’espressione truce sul viso.
«C’è solo una persona, e il suo nome è Moriarty.»