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Autore: Wrecking_Ball    24/09/2013    1 recensioni
Questa è la mia storia; prometto di non tralasciare nulla.
Prima vi verrà da sorridere e poi verserete qualche lacrima: non venitemi a dire che non siete stati avvertiti.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Justin Bieber
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 18

La malattia proseguiva inesorabilmente il suo corso, che accelerò con l'arrivo di marzo.
Sharley aveva aumentato ancora il dosaggio dei farmaci antidolorifici e si sentiva troppo male per riuscire a mangiare.
Si stava indebolendo e sembrava destinata a essere ricoverata in ospedale, nonostante tutto.
Furono i miei genitori a cambiare le cose.
Mio padre era rientrato da Washington, lasciando frettolosamente il Congresso mentre erano ancora in seduta. A quanto pareva, la mamma lo aveva chiamato dicendogli che se non fosse tornato subito, poteva tranquillamente restarsene a Washington per sempre.
Quando mia madre gli raccontò quello che stava succedendo, lui replicò che Hegbert non avrebbe mai accettato il suo aiuto, che le ferite erano troppo profonde ed era tardi per agire.
«Questa questione non riguarda la tua famiglia e nemmeno Hegbert Sullivan, o fatti successi in passato», replicò lei, rifiutando di accettare le sue ragioni. «C'è di mezzo nostro figlio, il quale è innamorato di una ragazzina che ha bisogno del nostro aiuto. E tu troverai il modo di aiutarla.»
Non so che cosa avesse detto mio padre a Hegbert, né quali promesse gli avesse dovuto fare o quanto sia costata l'intera operazione.
Fatto sta che Sharley fu presto circondata da costosi macchinari, fornita di tutte le medicine necessarie e accudita da infermiere a tempo pieno, mentre uno specialista passava a trovarla diverse volte al giorno.
In questo modo lei sarebbe potuta restare a casa.
Quella sera per la seconda volta piansi davanti a lei.
«Hai qualche rimpianto?» le chiesi. Era sotto le coperte, con un ago nel braccio attraverso cui entravano nel suo corpo i farmaci di cui aveva bisogno.
 Era pallida in viso, e magrissima. Non riusciva quasi più a muovere un passo e quando si alzava, aveva bisogno di essere sostenuta.
«Tutti ne abbiamo», mi disse, «ma ho avuto una vita meravigliosa.»
«Come puoi dirlo?» esclamai, incapace di nascondere la mia angoscia, «con quello che ti sta succedendo?»
Lei mi strinse la mano, debolmente, e mi sorrise con tenerezza.
«Certo», ammise, guardandosi intorno, «poteva andare meglio.»
Nonostante le lacrime, risi, pentendomene all'istante. Avrei dovuto essere io a confortarla.
«Ma per il resto sono stata felice», proseguì. «Davvero. Ho realizzato tantissimi desideri, e le persone a volte non riescono neanche a realizzarne uno.»
Mi guardò negli occhi. «Mi sono persino innamorata e sono stata ricambiata.»
Io le baciai la mano quando lo disse e me la posai sulla guancia.
«Non è giusto», commentai.
Lei non rispose.
«Hai ancora paura?» le chiesi.
«Sì.»
«Anch'io.»
«Lo so. E mi dispiace», disse lei.
«Che cosa posso fare?» domandai disperato.
«Niente. »
Ti prego, Signore, dimmi che cosa fare!
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«Mamma?» domandai più tardi quella sera.
«Sì?» Eravamo seduti sul divano davanti al fuoco acceso. Quel pomeriggio, mentre studiavo, Sharley si era addormentata e sapendo che aveva bisogno di riposare, avevo deciso di uscire dalla sua stanza in silenzio. Prima però l'avevo baciata dolcemente su una guancia.
 Era stato un gesto innocente, ma Hegbert era entrato proprio in quel momento e io avevo letto emozioni contrastanti nei suoi occhi.
Mi aveva guardato rimproverandomi anche di aver infranto una delle regole della sua casa, per quanto tacita.
Sapevo che se lei fosse stata bene, non mi avrebbe più permesso di mettere piede lì dentro. Comunque, non mi aveva accompagnato alla porta.
«Pensi che noi abbiamo uno scopo nella vita?» le chiesi, turbato.
Era la prima volta che le facevo una domanda simile, ma era un momento particolare.
«Non sono sicura di capire quello che intendi», mi rispose mia madre.
«Voglio dire... come si fa a sapere quello che bisognerebbe fare?»
«Ti riferisci al tempo trascorso con Sharley?»
Annuii, per quanto confuso. «In un certo senso. So di comportarmi nel modo giusto, eppure... manca qualcosa. Passo il tempo con lei a parlare e a farle compagnia, ma...»
Mia madre concluse la frase per me. «Pensi che dovresti fare di più?»
Feci cenno di sì.
«Non so che cosa potresti fare di più.»
«Allora perché mi sento così?»
«Penso che sia perché sei spaventato e ti senti impotente e anche se fai di tutto, le cose continuano a diventare sempre più difficili... per entrambi. E più ti sforzi, più ti sembra che non ci sia niente da fare.»
«C'è un modo per smettere di sentirsi così?»
Lei mi abbracciò e mi strinse a sé. «No», disse a bassa voce, «non c'è.»
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Il giorno dopo Sharley non riuscì ad alzarsi. Era troppo debole persino per camminare con il mio aiuto, così rimanemmo in camera sua.
Si addormentò dopo pochi minuti.
Trascorse un'altra settimana e Sharley peggiorò costantemente, perdendo le forze.
 Costretta a letto, sembrava più piccola, quasi una bambina.
«Sharley», la implorai, «dimmi che posso fare per te.»
Lei adesso dormiva anche per ore, persino mentre le parlavo. Non si muoveva al suono della mia voce; il suo respiro era rapido e debole.
Ero seduto, pensando a quanto l'amavo. Tenni la sua mano vicino al cuore, sentendone la fragilità delle dita. Una parte di me avrebbe voluto piangere, invece posai la sua mano sulle lenzuola e mi voltai verso la finestra.
Perché, mi chiesi, il mio mondo era crollato in quel modo?
 Perché era successo proprio a lei?
Era stato davvero Dio a farmi innamorare di lei?

Oppure l'azione era stata frutto della mia volontà? Mentre Sharley dormiva, avvertivo sempre più intensamente la sua presenza accanto a me, eppure le risposte alle mie domande non diventavano più chiare.
Notai sul comodino un ritaglio di giornale accanto al bicchiere con l'acqua. Lo presi e mi accorsi che era un articolo sulla recita, pubblicato sul giornale della domenica il giorno successivo all'ultima replica. Nel riquadro sopra il testo, c'era l'unica fotografia che fosse mai stata scattata di noi due insieme.
Sembrava passato così tanto tempo. Avvicinai il foglio al viso. Mentre osservavo la foto, mi ricordai di come mi ero sentito quella sera, quando l'avevo vista vestita da angelo. Mentre stavo per scoppiare a piangere, d'un tratto compresi.
Dio, o comunque qualcuno lassù, finalmente mi aveva risposto e ora sapevo che cosa dovevo fare.
Non sarei potuto arrivare più in fretta, nemmeno con la macchina. Presi tutte le scorciatoie che conoscevo, attraversando i cortili delle case, scavalcando palizzate e in un caso passando per il garage di una casa e uscendo dalla porta di servizio. Tutto quello che avevo imparato della città mentre crescevo mi tornò utile e, sebbene non fossi mai stato un grande atleta, quel giorno ero inarrestabile, sospinto da ciò che sentivo di dover fare.
Non mi preoccupai del mio aspetto e quando arrivai, rallentai il passo, cercando di riprendere fiato mentre mi avviavo verso l’ ufficio del preside sul retro.
La porta era aperta. Il padre di Sharley mi fissò quando mi vide sulla soglia.
Non mi invitò a entrare, ma distolse subito lo sguardo, posandolo sulla finestra. A casa, pensai, lui affrontava la malattia della figlia pulendo ossessivamente le stanze, ma nel suo ufficio c'erano carte sparse sulla scrivania e libri lasciati in giro ovunque, come se da settimane nessuno avesse messo in ordine. Capii che quello era il posto dove lui si rifugiava per pensare a Sharley; dove lui veniva a piangere.
«Preside?» dissi a bassa voce.
Lui non mi rispose, ma io entrai lo stesso.
«Vorrei restare da solo», bisbigliò con voce roca.
Mi avvicinai risoluto alla sua scrivania e lui mi lanciò solo un'occhiata fugace, prima di tornare a guardar fuori.
«Per favore», mi chiese. Il suo tono era scoraggiato, come se non avesse più la forza di affrontare nemmeno me.
«Vorrei parlarle», replicai, deciso. «Non insisterei se non fosse molto importante.»
Hegbert sospirò e io mi misi seduto come quando gli avevo chiesto il permesso di portare sua figlia fuori a cena per l'ultimo dell'anno.
Mi ascoltò in silenzio mentre gli esponevo la mia idea. Solo quando ebbi finito, Hegbert si voltò a guardarmi.
 Non so che cosa ne pensasse, ma grazie al cielo non si oppose.
 Si asciugò gli occhi con le dita e si girò di nuovo verso la finestra.
Penso che persino lui fosse troppo scioccato per dire qualcosa.
Corsi di nuovo, instancabile, sospinto dall'energia del mio proposito.

 Quando raggiunsi la casa di Sharley, entrai senza bussare e l'infermiera che era in camera sua uscì a vedere che cosa fosse quel trambusto. Prima che potesse parlare, la interpellai.
«É sveglia ?»
«Sì», rispose cauta la donna, «quando si è svegliata, ha chiesto dove fossi finito.»
Mi scusai del mio aspetto disordinato e la ringraziai, chiedendole se poteva lasciarci soli. Entrai in camera di Sharley accostando la porta dietro di me. Era pallida, terribilmente pallida, ma il suo sorriso mi fece capire che lottava ancora.
«Justin! », disse con voce flebile, «grazie di essere tornato.»
Presi una sedia e mi misi vicino a lei, prendendole la mano. Nel vederla lì sdraiata mi venne un groppo alla gola.
«Ero qui prima, ma dormivi», le spiegai.
«... mi dispiace. Non riesco proprio a fare altrimenti.»
«Non preoccuparti piccola. Mi ami?» le chiesi.
Lei sorrise. «Sì.»
«Quindi vuoi farmi felice..» mentre glielo domandavo, sentii il cuore accelerare, come impazzito.
Lei distolse lo sguardo, aveva il volto solcato dalla tristezza. «Non so se sono più in grado di farlo.»
«Ma se potessi, lo faresti?»
Amore, rabbia, tristezza, speranza e paura si mescolavano nel mio animo, acuiti dal nervosismo.
Sharley mi lanciò un'occhiata incuriosita e il mio respiro si fece affannoso. Tutto d'un tratto mi resi conto che non avrei mai sperimentato nei confronti di un'altra persona un trasporto altrettanto forte.
 Mentre le restituivo lo sguardo, questa consapevolezza mi fece desiderare per l'ennesima volta di poter cambiare le cose.
 Sarei stato pronto a scambiare la mia vita con la sua. Volevo comunicarle i miei pensieri, ma il suono della sua voce tacitò le emozioni che si agitavano dentro di me.
«Sì», disse infine, con la voce debole eppure ancora piena di promesse. «Lo farei. Farei di tutto.»
Ritrovato il controllo, la baciai, poi le posai una mano sul viso, accarezzandole delicatamente la guancia. Rimasi stupito dalla morbidezza della sua pelle, dalla gentilezza che vidi nei suoi occhi.
Era perfetta anche in quel momento.
Un altro nodo mi si stava formando in gola, ma come ho detto, sapevo quello che dovevo fare.
Dato che dovevo accettare il fatto che non era in mio potere guarirla, quello che volevo fare era darle qualcosa che lei aveva sempre desiderato.
Era ciò che il mio cuore aveva continuato a suggerirmi.
Fiducioso, mi chinai su di lei e inspirai profondamente. Quando espirai, queste furono le parole che uscirono dalle labbra con il mio respiro.
«Mi vuoi sposare?»
  
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