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Autore: xilovefer    24/09/2013    1 recensioni
La storia di una ragazza che non ce la fa più.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Scarlett



affondai la lametta contro la mia pelle com'era mio solito fare, vidi il liquido rosso scorrere lungo tutto il braccio finendo nella vasca formando un bagno di sangue. non m'importava da un po' di tempo, ormai, il pericolo di poter beccare qualche vena. anzi, forse il mio obbiettivo era quello. vivere o morire. io avevo già preso la mia scelta. osservai l'acqua che a poco a poco si colorava di rosso e immaginai come potesse essere morire lì. la porta chiusa a chiave, l'avrebbero sfondata. come se agli altri importasse qualcosa di me. mi avrebbero trovata lì stesa, il colorito bianco, fredda, spenta, morta. avrebbero pianto, si sarebbero pentiti, e avrebbero ricordato per sempre l'immagine del mio corpo senza vita, le cicatrici, il viso sciupato, le occhiaie. ma nonostante tutto non ero abbastanza forte per abbandonare la mia vita, ma neanche per viverla. ero in un bivio, alcuni lo chiamano il filo del rasoio. basta un passo, in avanti o indietro. la scelta era sempre la stessa: vivere o morire.
tolsi il tappo dalla vasca in modo che l'acqua potesse andarsene via con un po' di me.
con cautela, o semplicemente stanchezza e rassegnazione, presi l'accappatoio, comprato volutamente nero, e mi coprii. lì arriva la parte peggiore, mi guardai nello specchio. il corpo esile, lo stomaco che si rifiutava di ingerire qualunque cosa, le guance scavate, gli occhi spenti e lo sguardo di chi non ce la fa più. tagli e cicatrici in ogni parte, visibile o non, nel mio corpo. mi scese una lacrima, una sola, perchè avevo esaurito anche quelle.
sospirando aprii il rubinetto facendo scorrere l'acqua bollente. la testa mi scoppiava e mi sembrava di poter morire. tirai su la manica dell'accappatoio e misi la ferita appena procurata sotto il getto. feci una smorfia di dolore che durò alcuni secondi sostituendosi con quella di sollievo. con le mani tremanti mi asciugai e come tutti i giorni, ormai, presi dall'armadietto del bagno altre bende e retine con cui impedii al sangue di continuare ad uscire. asciugai i capelli quanto basta e aprii la porta del bagno. il russare di mia mamma mi fece capire che stesse dormendo, le scheggie della bottiglia di vodka che mi aveva lanciato erano ancora per terra e con attenzione le raccolsi cercando di fare meno rumore possibile. andai nella mia camera e mi chiusi a chiave. presi un pennarello indelebile e scrissi la data del giorno numerando quelle scheggie. quelle appartenevano alla bottiglia numero 48 che mi aveva lanciato nel corso dei tempi.
non ho mai capito se mia madre mi volesse realmente bene e neanche se si fosse ricordata che oggi era il mio diciassettesimo compleanno.
rimisi i resti nel cassetto dove conservavo tutte le bottiglie, forse per masochismo o perchè magari un giorno sarei riuscita ad uscirne e avrei visto quanti passi avanti avrei fatto.
Mi misi l'intimo, dei leggins e una felpa di qualche taglia in più, le mie scarpe e uscii di casa passando dal retro.
il cimiterò non era tanto lontano da casa mia quindi ci andai a piedi. nel tragitto, per mia sfortuna, incotrai in gruppo di ragazze. alcune mi guardavano schifate mentre alcune stupite, forse anche loro desideravano essere magre come me. ma non ero io che lo decidevo, ormai era l'anoressia che decideva per me, era la bilancia che non mi faceva mangiare ed era lo specchio a costringermi a vomitare sangue.
arrivata al cimitero il custode mi salutò, lo faceva tutti i giorni regalandomi un sorriso, forse l'unico che ricevevo senza contare quello della foto di mio papà appesa sulla sua lapide.
percorsi il tragitto che ormai conoscevo a memoria e mi sedetti nell'erba vicino alla tomba.
Incrociai le mani e mi misi a pregare, non per me, ma per lui. non m'importava ovunque esso sia, m'importava solo che lui stesse bene. m'importava che lui non stesse soffrendo come in quel momento facevo io.
dopo un'ora stesa vicino alla sua lapide mi alzai e decisi di non tornare a casa.
mi ricordavo il ponte da cui si era buttato mio padre, ci ero andata parecchie volte, volevo raggiungerlo, volevo stare con lui e non con mia madre. schiava dell'alcool.
la strada era deserta, nessuna macchina si vedeva nemmeno da lontano. la nebbia oscurava gran parte del paesaggio. era sicuramente un buon momento per andarmene.
tirai su una gamba, poi l'altra, e mi misi in piedi. avevo gli occhi chiusi e quando li aprii vidi una cosa che avevo già visto parecchie volte nel corso di quei sei anni.
mio padre.
era lì, mi sorrideva, a braccia aperte. mi stava aspettando.
sorrisi, un sorriso di quelli veri, che non facevo da tempo e chiudendo gli occhi feci un passo avanti e mi buttai. riuscii a vedere solo quegli occhi comprensivi dell'unica persona che mi ha voluto bene in tutta la mia vita.
ora sono con lui e sto bene. per la prima volta in sei anni sono felice, e non smetterò mai di esserlo.







(ammetto che avrei voluto scrivere una fine diversa ma la depressione si è impossessata di me e non ho potuto fare altrimenti)
  
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