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Autore: caleidoscopio    24/09/2013    7 recensioni
La realtà è più difficile da comprendere e accettare di una situazione non esistente, magari frutto della propria immaginazione.
Per esempio, adesso Ashton sta pensando che quello che vede non è possibile; che Ruth, magari in quello stesso momento, è a casa sua, e sta finendo di mangiare i suoi cereali al cioccolato, rigorosamente senza latte, perché il latte ha un saporaccio disgustoso.
Questa volta, però, casa Irwin al ritorno di Ashton non sarà nient’altro che l’ennesima casa vuota.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ashton Irwin
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nobody's home.













 
Ashton e Ruth neanche se lo ricordano da quant’è che si conoscono.
Non danno importanza a questi particolari irrilevanti. Perché dovrebbero, in fondo?
Hanno cosa più importanti a cui pensare, tipo come pagare l’ultima rata dell’affitto di Ashton, o andare a vedere il nuovo film con Leonardo DiCaprio.
Quando qualcuno glielo chiede, entrambi rispondono semplicemente che si conoscono da sempre.
Perché, d’altronde, è così.
Sono stati l’uno la presenza costante dell’altra dall’asilo a quando si comincia pian piano a capire a cosa potrebbe servire il sesso opposto.
Ma ad Ashton piace pensare al giorno in cui si sono conosciuti davvero come un assolato ultimo venerdì di scuola –l’ultimo venerdì del primo anno delle medie- quando lui si era presentato con un sorriso da deficiente stampato sul volto e qualche parola scarabocchiata sul palmo della mano.
Si era piazzato davanti a Ruth , e senza tanti preamboli l’aveva trascinata lontano dalle sue amiche (“Perché cavolo queste ragazze vanno sempre in giro in gruppi!?”), ignorando apertamente le sue proteste.
E quando finalmente il ragazzo aveva considerato sufficiente la distanza tra loro e il gruppo di femmine (“Che palle, oh.”), aveva spalancato la mano e ripetuto a voce alta quelle tre fatidiche parole che l’avevano perseguitato per giorni e notti, ma che era sicuro si sarebbe comunque dimenticato al momento fatidico. “Esci con me?”.
Ruth aveva ridacchiato, preso fiato per parlare, e ridacchiato di nuovo.
Ridacchiava un sacco, quella ragazzina.
“Ash…”.
“Non per forza oggi!” l’aveva interrotta lui, sull’orlo di una crisi di panico. “Insomma, quando ne hai voglia. Magari quest’estate, o a settembre, o l’anno prossimo…”.
“Ok”.
“Davvero?”.

E, tanto per precisare, Ashton e Ruth sono usciti insieme sia quel giorno, sia per tutta l’estate, che per i successivi anni.
Ora sono cresciuti, e, si sa, crescendo tutto diventa più complicato. Non bastano più delle parole scarabocchiate sul palmo della mano, quando si parla del futuro.
Non è una parola che fa un po’ paura?
Insomma, è come pesare allo Spazio. Sai che c’è solo perché te l’hanno detto, e di certo non hai idea di cosa potrebbe trovarsi al suo interno.
Come possiamo sapere come saremo ridotti tra vent’anni? Non lo sappiamo e basta.
Tiriamo avanti per quello che possiamo.

Ashton e Ruth, pur conoscendosi da sempre, non sono mai stati nient’altro che amici, perché Ruth non vuole rovinare niente di ciò che c’è tra loro.
L’unica domanda è: cosa c’è tra loro?
Ma di nuovo entrambi preferiscono non porsi il problema.
Che importanza ha darsi un’etichetta quando si può semplicemente vivere?
Non importa ciò che si è, ma come si agisce.
Puoi dire di essere un cristiano, pregare tutti i giorni dieci Ave Marie e venti Padre Nostro, e poi propagare terrore tra la gente passeggiando per le strade con un fucile carico.
E allora, che senso ha dire di credere in un Dio che predica l’amore quando tu, per vivere, spezzi vite innocenti?
Nessuna.
E Ruth e Ashton non sono ipocriti.
Si vogliono un bene immenso, questo è scontato. L’amore può pure passare in secondo piano.
Ruth vuole fare la scrittrice. Per questo passa tutti i lunedì pomeriggio al corso di scrittura creativa, che riesce a pagarsi lavorando come barista in una locanda in centro.
Se c’è una cosa che la caratterizza, è che Ruth non si lamenta mai, nemmeno quando le gambe le si piegano dalla stanchezza e le spalle si incurvano, come se stesse sostenendo il peso del cielo, come Atlante, il Titano condannato a tenere alta la volta celeste per l’eternità.
Ecco, Ruth sorride, con gli occhi lucidi e la voce incrinata, e va avanti.
E quando arriva a casa e si butta sul letto, se solo qualcuno osa disturbarla, è un ammasso di cellule eucariote morte.
Il letto sul quale si butta quando è stanca, però, è sempre quello di Ashton.
Perché, lei, una casa non ce l’ha per davvero. E se ce l’ha, è solo un edificio vuoto, senza nessuno al suo interno per il quale valga la pena viverci.
Quelle rare volte in cui suo padre la obbliga a tornare, giusto per verificare che la figlia sia ancora viva e possibilmente in salute, lei ci rimane giusto lo stretto necessario, poi torna da Ash e dorme nel suo letto, rannicchiata sul suo petto, sincronizzando i loro respiri regolari.
Ashton, dal canto suo, ha solo due donne nella vita: Ruth e la musica.
Per la prima ha quasi perso la speranze. Quasi.
La seconda è un’altra storia.
Ruth ripete in continuazione che lui e la sua band hanno talento. Li sente suonare tutte le volte che si esibiscono nei suoi turni alla locanda, che, guarda caso, trasmette anche musica dal vivo.
È solo in quelle sere che le due donne della vita di Ashton si incontrano, quando si lascia andare e batte quasi con furia le bacchette sul cuoio dei tamburi, e sa che Ruth è li che lo ascolta, che la sua mente è con lui e lo sostiene.
Ed è una cosa figa da morire, andiamo.


Ruth ricorda perfettamente l’ultima volta in cui ha indossato un vestito: era nero, lei aveva sedici anni e si trovava al funerale di sua madre.
Quella volta, Ruth aveva pianto più di quanto avesse mai creduto possibile. Si era prosciugata, totalmente.
E dal quel giorno, Ruth non aveva più pianto, ne aveva indossato vestiti o indumenti neri.
Tante cose scure, certo, ma mai nere.
Il perché, in realtà, non lo sa nemmeno lei. A dir la verità, Ruth crede di non sapere proprio un cazzo della sua vita, o tantomeno di se stessa.
Che sia per questo che le piace tanto scrivere?
In fin dei conti, i suoi personaggi li conosce piuttosto bene, o almeno spera.
Scrivere le permette di sapere. Sa cosa succederà al prossimo passaggio, e sa chi tradirà chi e con chi.
Perché è frustrante essere sempre alla ricerca di risposte, ma non riuscire a trovarne nemmeno una.
È frustrante cercare il sapere, ma non essere abbastanza abili da trovarlo.

Il giorno del diciannovesimo compleanno di Ruth, Ashton apre gli occhi con la consapevolezza di volerle comprare qualcosa di davvero bello.
Per questo esce presto di casa, si infila una giacca un po’ troppo logora e si fionda per le strade Sydney.
Ha solo vaghe idee su cosa potrebbe piacerle, ma non si preoccupa, e pensa che, magari, quando il regalo perfetto gli capiterà davanti agli occhi, sarà in grado di riconoscerlo.
Se solo avesse abbastanza soldi per potersi permettere un portatile… così Ruth la smetterebbe di imprecare contro i fogli volanti del racconto che sta tentando di scrivere.
Una buona scrittrice ha sempre un portatile, dannazione.
A meno che non abbia abbastanza soldi neanche per comprare un paio di scarpe nuove.
Ok, Ruth tende per natura al risparmio, ossia a far sparire ogni centesimo dentro un grande –e quasi vuoto- salvadanaio a forma di mucca. Quindi, volendo, le scarpe se le potrebbe pure comprare. Un portatile magari no, ma almeno delle scarpe…
Oh, lasciamo perdere…
Ashton si riscuote e si guarda in giro. Cosa potrebbe apprezzare veramente una ragazza come Ruth? Dolce e acida allo stesso tempo, come la panna –come piaceva definirla ad Ash?
Ruth dice spesso che l’unico uomo con cui sarebbe mai andata a letto tanto per divertirsi, è Jared Leto, il cantante dei Thirty Seconds to Mars.
Lo dice per far arrabbiare Ashton, e lui lo sa, proprio come lei sa che ogni volta funziona alla grande.
E la vetrina del negozio di dischi si stagliata davanti al ragazzo come una sottospecie di miraggio.
Scrolla le spalle, e spalanca la porta.

Quando Ashton torna a casa trova un post-it attaccato al frigorifero, in cui Ruth spiega di essere dovuta andare dal padre per il suo compleanno. Sarebbe tornata la sera stessa. Aveva anche voluto aggiungere un “Che due coglioni, però”, tanto per evidenziare il suo già lampante entusiasmo.
Tutto ciò che Ashton fa, è sorridere, e aspettare che il sole cali oltre l’orizzonte per poter rindossare la giacca e camminare a passo svelto verso quella che Ruth definisce sempre “il covo di coglioni”, stringendo in mano un regalo che non avrebbe mai consegnato.
Cammina velocemente, e sente qualcosa di sbagliato nell’aria.
Non è un odore, è più una sensazione.
Accelera e si guarda attorno, come se all’improvviso potessero sbucare due uomini incappucciati e ucciderlo e…
Non fare il paranoico!, si dice, scuotendo la testa, ripetendosi che si sta solo lasciando condizionare dall’atmosfera lugubre del vicolo in cui procede più correndo che camminando.
L’ultimo isolato prima della casa di Ruth.
Ed eccolo li, quell’edificio che per lei è sempre stato così vuoto…
E che i quel momento appare così sbagliato.
Ashton ha le gambe molli, gli occhi spalancati e la gola secca, e un vortice di luci blu e rosse gli sembra quasi vogliano risucchiarlo che lo circonda.
Lascia cadere l’ultimo cd dei Mars –impacchettato solo un po’ alla cavolo- sul marciapiede e impone alle sue gambe di continuare a procedere –e al suo stomaco di non vomitare.
Un po’ più da vicino, riesce a vedere tutto con una maledetta chiarezza, e gli sembra di morire.
C’è il padre di Ruth. È in piedi davanti a un piccolo fagotto bianco macchiato di scuro.
L’uomo ha gli occhi rossi, e non per l’effetto delle luci; Ashton lo vede chiaramente quando si volta lentamente verso di lui, con il volto impassibile e neanche la minima traccia di sentimento negli occhi. Ma la sua voce, Ashton pensa che quella non l’avrebbe mai dimenticata in tutta la sua vita. “Stava venendo da te”.
Una macchina, alle spalle dei due, giace immobile e un po’ fumante addossata alla parete di una casa. Ha il paraurti ammaccato, e delle tracce di sangue sul parabrezza.

La realtà è più difficile da comprendere e accettare di una situazione non esistente, magari frutto della propria immaginazione.
Per esempio, adesso Ashton sta pensando che non ciò che vede non è possibile; che Ruth, magari in quello stesso momento, è a casa sua, e sta finendo di mangiare i suoi cereali al cioccolato, rigorosamente senza latte, perché il latte ha un saporaccio disgustoso.
Pensa che lui andrà a casa, e festeggeranno il compleanno della ragazza insieme, come sempre.
Come sempre…
Questa volta, però, casa Irwin al ritorno di Ashton non sarà nient’altro che l’ennesima casa vuota.







Ollè.
Non ho la minima idea di come cominciare questo spazio autrice.
È la primissima volta che pubblico qualcosa in questo settore.
Ed è anche la primissima volta che pubblico qualcosa di così deprimente, aiuto.
In realtà, avrei intenzione di cominciare una long sui ragazzi *schiva una spranga di metallo*.
Non su questo genere, però. Sul mio solito genere da dementi.
Questo è una parentesi depressa nella mia totale idiozia quotidiana.
È piuttosto breve, ed è scritta abbastanza maluccio -scusate gli errori, ho riletto ma potrei aver tralasciato qualcosa...
Bhe, niente. Se avete voglia di farmi sapere cosa ne pensate, mi fareste davvero molto felice (:
A presto!

 
  
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