L’Uomo Neve
Nessuno sapeva chi fosse.
Tutti, però, sapevano chi fosse l’Uomo Neve.
Si dice che fosse apparso
dopo poche settimane dall’inizio dalle scuole. Si può affermare con una certa
sicurezza, in quanto i primi ad accorgersi del suo arrivo furono i ragazzi che
lo incontravano all’uscita dalle scuole del centro e che si trovavano a
viaggiare sull’autobus insieme a lui.
Non apparve in perfetta contemporaneità con l’inizio delle
scuole, però, bisogna precisarlo. Cosa facesse nella vita, proprio non si sapeva,
ma era chiaro che il suo lavoro doveva essere prevalentemente estivo. Un uomo
che vagabondava – sebbene il suo fosse un vagabondaggio proselita e altezzoso-
a tutte le ore del giorno, non poteva certo lavorare, a meno che non fosse uno
scrittore o un letterato. Proprio a questo proposito, alcuni giuravano di aver
partecipato alla presentazione di un suo libro. Ma, si sa, di uomini neve ce ne
sono tanti e non ce n’è nessuno, come si poteva dare credito a quelle voci così
incostanti?
L’uomo neve, freddo di nome, pupazzo ghiacciato a sangue
caldo di fatto.
Fu un gruppo di ragazzi a coniare questo appellativo, e a
tutti sembrò calzare così bene, che nessuno sentì più il bisogno di indagare
sulla sua identità. Era per tutti – forse anche per l’anagrafe – l’Uomo Neve.
Tutto e niente risiedeva in quel nome, e se qualcuno avesse dovuto esporre
denuncia nei suoi confronti o render conto di una sua eventuale malefatta,
avrebbe detto di riferirsi all’Uomo Neve, e tutti avrebbero capito. E si
sarebbero sorpresi.
Certo, perché era davvero di difficile concezione il
pensiero che potesse nuocere ad anima viva.
Per spiegare meglio questa difficoltà irrazionale, è giusto
spendere qualche parola riguardo l’apparizione dell’uomo Neve e il suo aspetto
fisico.
Si è già detto che apparve dopo l’inizio delle scuole. Si
era circa alla fine del mese di Settembre dell’anno xxxx, e furono certo le
condizioni metereologiche a favorire
l’incontro.
Non è raro, infatti, che la fine di settembre inneggi
ingannevolmente al gran freddo, esibendosi in mattine brinate e in pomeriggi
scuri e ventosi. I ragazzi, mattinieri obbligati, assistevano in quei giorni a
quelle evoluzioni ventose e gelide, tanto da doversi munire di cappotto talune
mattine. Era quello il periodo in cui le mani iniziano a diventare lente e
pesanti, e timbrare il biglietto dell’autobus si trasforma in un vero sentiero
della passione. I pomeriggi, poi, un vento ammantato e calcolatore si
distendeva sulla città, facendo impennare le vendite delle collezioni
invernali. La fine di settembre,
quell’anno più di altri, appariva come un chiaro e preciso annuncio di inverno
prematuro che di lì a poco avrebbe sfondato anche le porte dell’ultimo
anticiclone e sarebbe piombato impietoso sulla città.
Fu proprio nella più fredda di queste giornate che lo
videro. I ragazzi rimasero colpiti innanzitutto dal suo aspetto fisico.
Parlavano tutti di un uomo sulla sessantina, basso e tarchiato, leggermente
incurvato sul peso della sua testa. Era completamente calvo, e la sua
carnagione era talmente pallida che la sua testa rotondissima poteva essere
scambiata per una maschera carnevalesca. Aveva occhi piccoli e chiari, qualche
rado filo di barba ben rasata, e un naso dalla forma piuttosto schiacciata. Se
già le sue sembianze potevano suscitare l’ilarità di coloro che ne sentivano
un’accurata descrizione, l’abbigliamento era decisamente la sua peculiarità più
incomprensibile e curiosa.
Vestiva infatti un pesante cappotto nero, munito di una
cintura che teneva sempre ben stretta sulla sua vita rotonda. Per completare il
corredo, il suo collo era avvolto nella morsa ringhiante e lanosa di una
sciarpa a scacchi rossi, neri e gialli; non fu mai visto sprovvisto di guanti
di lana.
Il lettore ci scuserà se
questo tragicomico climax non è ancora terminato… Difatti, come se il suo
aspetto e il suo corredo non fossero abbastanza stravaganti, bisogna precisare
che sotto quel pesantissimo cappotto l’Uomo Neve tremava. I ragazzi
raccontarono di averlo visto stringersi nel cappotto sempre più stretto, quasi
fino a togliersi il respiro, e tremare come in preda ai brividi più selvaggi.
Il che non era oggettivamente possibile, anche considerata la temperatura più
bassa del solito – che non era sufficiente a ridurre un uomo in quello stato.
La visione di quell’uomo così agghindato stonava, nello stesso modo in cui
avrebbe stonato un bagnante in costume nell’inverno antartico. Tuttavia, si
tentò di trovare una spiegazione a quella visione, perché, si sa, per la gente
è oggi importante spiegare ciò che appare inopportuno o irrazionale, ciò che
nessuno ha mai mostrato prima, un comportamento che non rientra nella media
stagionale.
Si disse che l’uomo era in preda alle febbri più terribili,
e che non potendo rimandare un suo importante ufficio, era stato costretto a uscire
di casa coperto più che poteva per dare sollievo alle membra scosse dai
brividi. Questa spiegazione poteva ragionevolmente essere accettata, e di fatto
lo fu. Almeno fino a quando la temperatura si alzò improvvisamente, toccando
livelli estivi, e l’uomo continuò a comportarsi in quel modo. Era visto dai
ragazzi ogni giorno, e ogni giorno l’abbigliamento e l’atteggiamento erano i
medesimi. Sempre infreddolito e tremante,
sempre coperto, sempre incredibilmente frettoloso nei movimenti. Mentre
i ragazzi, vittime dell’illusione del freddo settembrino, si affrettavano a
correre al .. riparo… delle maniche corte e del più leggero cotone, l’uomo Neve
continuava a tremare e a spolverare i sedili dell’autobus col suo lungo
cappotto nero.
Se quella era febbre, doveva essere una gran febbre, e il
suo lavoro doveva essere davvero molto importante… decisamente troppo, per
essere vero.
Quell’uomo stava iniziando a far parlare di sé e ad attirare
lo sguardo della gente, che se nel periodo di gelo effimero non aveva fatto
troppo caso ad uno dei soliti esagerati, passata alle maniche di camicia aveva
iniziato a considerare quel nuovo pazzo fuori stagione.
Da una conoscenza marginale e sommaria, basata solo su
un’osservazione preliminare e poco accurata, spesso l’uomo desidera passare ad
un’esperienza più diretta e approfondita. Spesso, si desidera fare propria una
realtà molto distante. E forse fu per questo che i ragazzi iniziarono ad
osservare meglio quell’uomo, e a dire il vero iniziarono tutti a prestare più
attenzione alla presenza di quella figura così stonata e cinerea.
Tuttavia, non fu allora che io ebbi occasione di parlarci.
Ottobre incalzava senza pietà, e sembrava riecheggiare
un’estate incompiuta. I bottoni delle sporadiche camicie bianche si aprirono
fin quasi al petto, i maglioni che erano timidamente comparsi per saggiare il
terreno si dileguarono, proprio come era accaduto per le giacche inizialmente.
Questa tendenza – e alcuni già l’avevano sospettato- non fu accolta dall’ormai
nazionale Uomo neve, o uomo di Neve. Continuò, come se per lui fosse
assolutamente naturale, a vestire i suoi pesanti indumenti, e anzi, si fece
ancora più insistente nel mostrarsi infreddolito e in preda ai brividi.
Questo nuovo rinforzo a quella tendenza non passò
inosservato, e l’uomo di neve dovette rassegnarsi a viaggiare seduto
nell’ultima fila dell’autobus. E dovette rassegnarsi perché quella fila era
stata “cortesemente” lasciata completamente a lui dalla gente che dovendo far
spesso uso di quella linea, lo avevano ormai inquadrato. Ricordo che a noi non
parve giusto, tant’è che qualche volta ci sedemmo volontariamente accanto a
lui, sperando che la gente si decidesse a fare lo stesso. Chi ci conosce sa
bene che non siamo solitamente dediti ad atti di solidarietà e di beneficenza,
ma credo che in cuor nostro, in quel particolare momento della vita, ci
sentissimo più uomini neve di quanto si sentisse lui in persona. E così, noi piccoli pupazzetti di neve
iniziammo ad avvicinarci a lui, mantenendo un rigoroso silenzio, un patto di
non interferenza. Questo tacito accordo prevedeva che lui potesse tremare in
santa pace, e che noi potessimo avvicinarci, e magari osservarlo di soppiatto.
Il nostro patto fece lo stesso rumore che una tigre produce mentre, nascosta
tra l’erba alta, aspetta il momento propizio per assaltare la preda. Il suo
tremore era lo stesso di un vulcano nei momenti che precedono l’eruzione.
Talvolta mi chiedevo se le scosse sotto di me fossero da imputarsi al motore
dell’autobus o al tremore del buffo ometto rotondo che sedeva accanto a me.
Lo ammetto, il nostro sentirci in pace con noi stessi e con
lui non servì neppure lontanamente a imprimere una svolta significativa alla
vicenda. Anzi. La gente iniziò a non dirigere più gli sguardi falsamente
indignati solo a lui, ma permise anche a noi di beneficiarne. Questo
sicuramente ci spinse a tornare sui nostri passi, e dai posti accanto a lui ci
spostammo indietro di una fila, quanto bastava per poterlo vedere ugualmente.
In realtà, credo che non avessimo ben realizzato la
stranezza i ciò che vedevamo, un uomo in abbigliamento invernale che trema su
un autobus mentre la temperatura esterna è di quasi trenta gradi. Una cosa ben
strana, in effetti. Inutile dire che
ognuno di noi se n’era accorto e si era chiesto il significato di una tale
curiosità similmente coadiuvata da un adeguamento alla strana novità. Come ho
già detto, è probabile che fossimo tutti uomini di neve.
Mi tornarono in mente certi momenti della mia vita nei quali
mi era sembrato di provare freddo. Ma non un freddo che scuote le membra, bensì
un gelo che fa tremare l’anima e serra le mandibole. Non ero sicuro che fosse
proprio quello il freddo che provava il nostro buffo amico, avevo qualche
nozione di psichiatria e non credevo possibile che un’anima – anche
estremamente infreddolita- fosse capace di somatizzare tutto il proprio
sconforto. Avevo letto, certo, di persone che dopo aver lungamente desiderato –
per chissà quale ragione- di essere colpite da un tumore, avevano ottenuto
esattamente il tipo di tumore che desideravano. Ma a differenza dei giornali
più divulgativi che scientifici, io ero sempre stato convinto che – diamine- il
caso e la sfortuna fossero nostri invisibili vicini di casa, e che se così non
fosse stato, tanto peggio per chi fosse così folle da attirare su di sé ogni
male. In fondo, il disprezzo del mondo del fraticello di Todi è cosa lontana.
La svolta decisiva e
maledetta della vicenda arrivò,
come in ogni umana vicenda mossa dalla curiosità. Decisiva perché permise a noi
di capire qualcosa di più , e al freddo di raggiungere chi tanto a lui anelava.
Maledetta, perché fu troppo il nostro coinvolgimento, e perché non fummo capaci
di capire dove finisse la nostra curiosità, dove lasciasse il passo alla
tragedia.
Mi trovavo un giorno a parlare con un mio amico, e il
discorso era casualmente caduto sull’uomo neve.
“ Hai notato che non si ascolta più, in generale?” mi disse
lui.
“ cioè, la gente non fa più attenzione a quello che sente?”
chiesi io, non capendo dove volesse arrivare.
“ Sì, ecco. Mi sembra che oggi la prima cosa che si fa è il
guardare” disse lui. Era vero.
“ Effettivamente… guarda per esempio che succede con la
musica…” mi sembrava attinente.
“ Sì, ma anche con quell’uomo, l’uomo neve.” Disse lui. Non
afferrai subito.
“ Cosa?”
“ Lo guardiamo sempre, ma
l’abbiamo mai ascoltato? Secondo me, sarebbe più utile” disse. E fui
profondamente colpito. Era vero, benché
si vedesse chiaramente il movimento del suo labiale, non avevamo mai
tentato di ascoltare quello che diceva.
E allora l’avremmo ascoltato.
Penso, col senno di poi, che ci fosse stata una scelta
implicita nella nostra mancanza di attenzione uditiva. La normale paura di
venire a conoscenza di cose troppo grandi e dolorose da essere pensate, o così
piccole e ridicole da rendere difficile il contegno del riso. Quali dei due
casi avessimo fino a quel momento aggirato, l’avremmo scoperto una mattina
verso le due, all’uscita di scuola.
Non c’era speranza di una
tregua da parte dell’alone di soffocante pressione che avvolgeva quei giorni
dall’alto del cielo bianco, e avevamo finito per sudare copiosamente durante
l’ora dei educazione fisica. Ci eravamo lanciati – un po’ per scherzo e un po’
sul serio- in una partita a pallacanestro all’ultimo sangue, nella quale non
avevamo risparmiato proprio nulla.
Non facemmo in tempo ad
asciugarci il sudore dalle tempie, giacché fummo costretti a lanciarci nella
serra della strada e affrontare il fuoco nebulizzato per salire sull’autobus in
tempo. Se l’avessimo perso, infatti,
non avremmo potuto ascoltare l’uomo di neve. Istantaneamente gettammo uno
sguardo famelico nei posti a sedere sul retro. Come accadeva da ormai un mese
abbondante, scorgemmo un ometto basso e tozzo totalmente cacciato sotto il suo
cappotto nero. Sembrava avere, quel giorno, particolarmente freddo. Osservai
una goccia di sudore rigare la guancia di un mio compagno e morire sul collo.
Fu probabilmente in quel momento che mi resi conto dell’assurdità della figura
che avevamo strenuamente difeso per così tanto tempo, arrivando persino a non
curarci delle maldicenze altrui. E altrettanto probabilmente fu quello uno
strano senso di colpa e vergogna che mi spinse ad offrirmi per andare a sentire
cosa mormorasse il nostro osservato. Nessuno infatti, d’un tratto, se la sentiva
più di avvicinarsi. Sarà stata colpa delle tute da ginnastica sintetiche e del
sudore, ma nessuno riteneva più di avere la giusta disposizione per
avvicinarsi. Lo feci dunque io.
A tratti ricordo di aver
temuto che il mio stesso sudore potesse congelarsi man mano che mi avvicinavo
all’uomo. Mi avvicinai a passi molto lenti, quasi come se l’uomo fosse
diventato oggetto di una mia particolare deferenza, ed ebbi occasione di
osservarlo meglio nei suoi particolari. Nel mese che era passato – e ne ero
sicuro – si era fatto più magro, ed il suo viso appariva dello stesso colore
della neve quando inizia a sporcarsi. Appariva nel complesso malaticcio,
rispetto all’apparenza paciosa e buffa dei primi tempi. Osservai anche che le
sue mani, parzialmente nascoste sotto il cappotto, stringevano febbrilmente un
oggetto difficilmente identificabile, ma terribilmente simile ad una croce.
Tremava dalla testa ai piedi, ma le sue braccia e le sue mani restavano
estremamente ferme e composte, in una posizione salda e tenace, quasi come una
lupa che protegge i suoi cuccioli. Quell’oggetto doveva essere il fulcro della
sua stabilità, evidentemente prossima all’attacco di una tempesta.
Effettivamente stava
mormorando. Per sentirlo, avrei dovuto avvicinarmi, sedermi vicino a lui. Come
ho già detto, esisteva il rischio di venire a sapere cose troppo dolorose e
remote per essere sopportate, o di capire di aver miseramente sprecato il
proprio tempo tentando di capire la
storia di un pazzo qualunque. Diedi una rapida occhiata ai miei amici dietro di
me, i quali timidamente mi fecero cenni d’incoraggiamento in realtà molto
blandi e sbrigativi.
Così, mi sedetti.
La maledizione si librò
nell’aria col mormorio sommesso del buffo ometto, che adesso appariva chiaro e
distinto. Mi perforò i timpani senza chiedere permesso, mi sembrò di non
potermi sottrarre a quelle parole.
“ Freddo freddo… non vedi
che fa tanto freddo?”
“ Freddo, tanto freddo…
tanto, tanto.”
“ Torna, perché fa tanto
tanto freddo “
“ Freddo…”
“Tanto…”
Non capimmo il significato
di quelle frasi, e sebbene fossimo attratti da tanto mistero, ci rendemmo conto
che dovesse essere qualcosa di strettamente legato a lui. Non indagammo oltre,
ma continuammo ad osservarlo con non minore curiosità.
Passarono i mesi, tra
sprazzi di freddo e rivincite calde.
Tutto sommato però, verso
gennaio il freddo fu universalmente tra noi, e verso la metà del mese ci regalò
diverse nevicate insperate.
Se il freddo era diventato
onnipresente nelle nostre vite invernali, la stessa cosa non si poteva dire
dell’uomo neve.
Si presentava sull’autobus
sempre meno spesso, e non tremava più. Nel clima invernale, un uomo vestito
come lui era certamente normale, niente di speciale. La gente ormai si era
dimenticata delle stranezze autunnali, e sedeva accanto a lui senza problemi.
Il vero cambiamento, però, era avvenuto proprio nel nostro uomo neve. Non
vedendolo più tremare, fu per noi intuitivo pensare che qualcosa non andasse.
Smise di mormorare, e i suoi occhi si fecero fissi e spenti. La sua testa pareva
divenire ogni giorno più pesante. Non aveva più nulla di quel buffo ometto che
avevamo conosciuto all’inizio di tutto. Nulla, tranne quelle mani chiuse
intorno allo strano oggetto. C’era sempre, e arrivammo a pensare che
separandolo da quello, sarebbe definitivamente morto.
Di motivi per stupirsi, ce
n’erano a bizzeffe. L’uomo pareva desiderare ardentemente il freddo. Adesso che
era finalmente arrivato, avrebbe dovuto essere contento, giusto? Pareva invece
svanita tutta la magia congelata che lo teneva stretto nel suo cappotto. Sì,
pareva quasi che avesse perso una certa speranza, un certo motore, la sua
ragione di tanti tremori.
Quando iniziò a nevicare,
sparì. Non se n’ebbe più notizia.
La giornata più fredda di
quel periodo fu il 17 gennaio. Una spessa coltre nevosa ricoprì chiese,
palazzi, villette e parchi. Ci trovavamo appunto in un parco situato nel centro
storico della nostra città, circondato da case antiche e quasi monumentali.
Sebbene la giornata fosse ideale per giocare a palle di neve, eravamo gli unici
nel parco. Ci parve strano che la gente si fosse chiusa in casa invece di
scendere per godersi una spettacolo ormai rarissimo.
Anche l’ultima coppia se
ne andò, piuttosto di fretta, tanto che ci sembrò che fosse stata infastidita
da qualcosa di preciso. Qualche albero ci parava la vista, così ci spostammo
leggermente.
Sembrerà strano, ma non
fummo sorpresi nel vedere l’uomo neve inginocchiato sulla coltre fresca e
soffice. Osservava con gli occhi sbarrati i fiocchi di neve che morbidi e
silenziosi si posano dovunque, senza fare distinzioni e onori. Si posavano sul
suo naso nello stesso modo in cui si sarebbero posati sul nostro. Restammo a
guardarlo, un po’ spaventati, ma in cuore rassegnati.
Nella figura che
inginocchiata nella neve si preparava, probabilmente, alla sua ultima ora,
avevamo trovato tutti un punto di interesse. La sua stravaganza e il suo
mistero avevano ricordato a tutti quanti l’avessero visto la varietà in ciò che
si vede. Aveva impegnato qualche cuore e qualche mente, aveva popolato qualche
pensiero.
Passarono probabilmente le
ore, e si era ormai fatta notte.
Lui non si muoveva.
Raccolto un ranuncolo, mi avvicinai e glielo depositai accanto, e così fecero
anche i miei amici.
L’uomo neve era morto.
Non so perché non
chiamammo nessuno. Non ci passò neppure per la testa, lui era l’uomo neve e
nessuno avrebbe potuto aiutarlo.
Il resto della notte fu
dedicato alle congetture. La più gettonata fu la mia.
Sua moglie doveva essere
morta un anno prima, di stenti o per un incidente in montagna. Doveva essere
una donna di animo generoso e innamorata del marito. Probabilmente, sul letto
di morte, aveva detto che quando sarebbero tornato il freddo, lei sarebbe
tornata a fargli visita. Lui, in preda al dolore doveva aver preso alla lettera
quelle parole. Da allora aveva cercato in tutti i modi di provare freddo per
far sì che sua moglie tornasse da lui. Il suo freddo era infine arrivato, e
probabilmente gli aveva fatto il regalo più bello.
Ma, ancora una volta, la
mia congettura poteva semplicemente essere il tentativo di giustificare la
sciocca morte di un pazzo ed il nostro inutile interessamento.
Sul posto, non fu
costruita una statua.
E non si dice che il suo
fantasma torni ogni 17 gennaio.
L’uomo neve è morto.