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Autore: ziogio    27/09/2013    0 recensioni
Un tema dato in classe, la traccia esplicitava di commentare quel che per noi è la sofferenza, come viene combattuta e il modo in cui "spremiamo la nostra arancia" (in commento ad un articolo su alcuni alunni che han fatto di tutto pur di evitare delle interrogazioni).
L'espressione "spremuto un'arancia" intende il modo in cui viviamo, intensamente o meno, la nostra vita, utilizzando la nostra intelligenza oppure vegetando.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Se avessimo “solo” paura di essere felici?

 

La risposta semplice e chiara: “Non voglio soffrire, neanche per un minuto: ma nessuno vuole più soffrire, non se n'è accorto professore?”
Questa è la frase che l'articolo recita a protesta, o meglio... commento, della risposta di una ragazza che rifiutò di essere interrogata dal professore perché “Non voleva soffrire”. Parla poi anche di alcuni ragazzi che hanno allagato la scuola pur di evitare un drastico compito di greco. Siamo però sicuri di star parlando di “sofferenza” e non “paura della sofferenza”? O meglio, paura del... dolore? Pensiamo un attimo.

La sofferenza è uno stato d'animo che può significare diversi altri sentimenti: dolore, tristezza, depressione, ecc... Quindi, come possiamo generalizzare in “Paura della sofferenza” un qualcosa che si divide in altro? Prendiamo l'esempio maggiore: il dolore. Nessuno, penso, vuole provare dolore. Però nessuno si è mai chiesto cosa volesse davvero dire soffrire. Cosa volesse dire “provare dolore”. Possiamo provare dolore per un pugno, per una gamba rotta... ma possiamo soffrire ancor di più per un amico che ci abbandona, un/a fidanzato/a che ci lascia, una famiglia che ci viene contro.
Il testo cita anche che la nostra sofferenza è stata alleviata da chi ci ha preceduto, che ha pensato che sarebbe stato meglio vivere in un mondo utopico, perfetto, senza limiti derivati dal soffrire, dallo stare male, o dal tacere di fronte ad un mondo che continua ad andare avanti ininterrottamente.
E' davvero vero? Non mi risulta. Viviamo con meno sofferenza dei nostri predecessori, che addirittura non usavano neanche l'anestesia: è vero.
Viviamo meglio, con la salute agevolata e le relazioni sociali migliorate... ma a volte basta andare un po' più a fondo, per capire che la soluzione non è arrivata e che, purtroppo, nemmeno arriverà.
Viviamo più salutari, ma ci roviniamo la salute con alimenti o prodotti che vanno ad arricchire i potenti, per lasciare i poveri a giacere in un cimitero, con le lacrime versate inutilmente dei loro cari che pregano Dio per una sorta di miracolo divino.
Viviamo con agevolazioni a livello sociale, in quanto non esiste più una monarchia, non c'è più una sfida al più potente. In ogni caso però continuano le discriminazioni, i disagi, le classificazioni di “figo” e “non figo”. Quel che ci identifica, che ci rende qualcuno in una società sempre più malata.
Facilitata? Io trovo invece che anche Pericle, nel suo discorso agli Ateniesi, sia riuscito a dire cose più sensate di quanto la nostra società dica al giorno d'oggi.
Privilegiamo ed idolatriamo un ipotetico “diritto d'opinione”, associandolo alla “libertà di parola”, e questo ci permette di insultare, sottomettere, classificare, discriminare. Di giustificarci, dicendo “E' la mia opinione”.
Viviamo in una società che più che vivere muore. Muore perché ci rende uguali, tutti schiavi allo stesso modo, pecore che seguono il pastore, che non hanno il coraggio e/o la possibilità di uscire da quegli schemi.
Noi non è vero che non vogliamo soffrire, come le pecore che abbandonerebbero tutto della loro vita scappando dal gregge, noi abbiamo paura di soffrire. I significati non sono uguali, così come il modo in cui percepiamo queste diverse sensazioni.
Puoi dire di non voler morire. Questo è non “voler” soffrire... ma dirai mai “Non voglio vivere”? La paura della sofferenza, non nasce dalla vita?
Se non vivessimo, soffriremmo? No, e allora perché vogliamo soffrire? Ma perché abbiamo paura di soffrire di più! La paura ci stimola ancora, ci rende più vivi, più volenterosi, ma anche più monotoni.
Sappiamo come finiranno certe cose, ed evitiamo di cominciarle.
Facciamo l'esempio della scuola, così come l'articolo letto in classe.
Tutti abbiamo sofferto per un'interrogazione, pregato per non uscire dall'elenco dei professori. Tutti abbiamo imprecato, pregato, cercato nello zaino, siamo usciti... pur di non essere chiamati alla cattedra. Però c'è differenza fra questo e il soffrire.
La sofferenza deve essere affrontata, e ognuno la capta, la usa, in modo differente. Una persona non abituata a soffrire, sicuramente rifiuterà quell'interrogazione... ma una persona che ha già sofferto, la accetterà, perché sarà pronto a prendersi le conseguenze della sua scelta. Perché di questo si tratta.
Sono d'accordo con l'articolo, ma non sono tanto sicuro sulla sua completezza. Noi possiamo errare la prima volta, la seconda lo scegliamo. Quegli studenti che hanno allagato la scuola per saltare una verifica, hanno scelto di essere puniti, hanno scelto di soffrire ancora, hanno scelto di evitare un dolore per provocarsene uno più forte. Hanno deciso di mettersi in mostra, hanno deciso di “diversificarsi”. Esatto, diversificarsi.
Una pecora, pur di uscire dal gregge, fa di tutto, e se il pastore (i potenti) non permette che lei esca, allora troverà degli stratagemmi violenti e disumani pur di soddisfare i suoi desideri, i suoi sogni.
Viviamo in un Paese, in una comunità, dove i nostri sogni vengono ammazzati, vengono distrutti, vengono classificati di “serie b” se non corrispondono agli interessi dei forti, di chi detiene il potere, di chi continua a sfruttarci su basi antiquate, false e criminali. Veniamo messi in fila, per essere creati con lo stampino: Nasciamo, andiamo a scuola, impariamo solo quello che ci viene insegnato lì, lavoriamo come ci viene insegnato ed ordinato, muoriamo nel modo che decidono i nostri familiari. Le nostre scelte, i nostri sogni, stanno svanendo. Per questo, tutti soffriamo. Soffriamo da matti. Soffriamo perché stanno distruggendo lo stesso senso di vivere. Ecco perché il suicidio.
Quando arriva il momento in cui vedi la tua vita, e paragoni questa con quello che ne hai fatto, puoi renderti conto se la sofferenza sarà maggiore prima o dopo la morte, se la tua vita vale ancora la pena di essere vissuta, o meno.
E questo causa un burrone, perché spesso è la seconda opzione. Ragazzi, anche giovanissimi, si suicidano per paura di vivere... per paura di soffrire ancora. Quando si rendono conto che quel momento che li separa dal nulla è meno doloroso che una vita di stenti, immagazzinati insieme, decidono di metter fine a tutto ciò, soffrendo per un'ultima e terribile volta.
E' un ragionamento macabro, che sconvolge l'opinione sociale e, soprattutto, familiare. Una morte causa sofferenza, e una sofferenza è dolore. Siamo racchiusi in un circolo che non finirà mai, che continuiamo a seguire, che non possiamo evitare. Esiste, tuttavia, una via di fuga... forse.

Da questo momento, immaginiamo un mondo utopico.
Un mondo dove tutto è concesso, purché non violi la libertà e la felicità altrui, dove ogni persona è disposta a sacrificare un suo bene per donarlo alla comunità, dove tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, dove la legge funziona, dove i politici fanno il loro lavoro, dove la vita è... bella.
Perché dovremmo vivere, se non lo fosse?
Dove i sogni vengono ascoltati e realizzati, dove tutto è possibile con determinazione, coraggio e aspettativa nel futuro. Dove i giovani vengono ascoltati ed i vecchi aiutati, dove si smetta di considerare un minorenne “minorato” e dove i lavoratori possano esistere.
Dove la guerra non ci sia, dove la pace regni incondizionatamente.
Questo è un mondo in cui vale la pena di vivere, in cui non si soffre.

Questo potrà mai accadere? No.
No per l'egoismo umano, per la voglia di far soffrire gli altri, per la voglia di imporre qualcosa agli altri in modo che a te non venga imposta. Insomma, quello che succede oggi.
Conosco un ragazzo che vuole fare l'astronauta. I suoi professori, i suoi compagni, lo deridono perché non lo potrà mai fare, perché è troppo ignorante, perché ce la fanno in pochi. I suoi sogni sono distrutti dalle stesse persone che dovrebbero permettergli di coltivarli, dagli adulti.
Gli adulti continuano a pensare che i ragazzi siano un mondo a parte, e c'è gente che dopo i 17 anni si dimentica com'era averne 16.
La realtà è che il mondo funziona male perché siamo noi a farlo funzionare male. Non è colpa di un certo “Dio”, non è colpa di un'entità misteriosa, è colpa nostra, che per la nostra paura di soffrire, facciamo cose che ci fanno soffrire ancora di più. Ci rendiamo fissi quando tutto cambia, continuiamo a stare fermi mentre la Terra gira. Un moto che, prima o poi, deve avere una fine.

Siamo destinati a diventare ciò che, grazie alle sfide affrontate, grazie alle sofferenze superate, grazie al dolore affrontato... quello che vogliamo. Perché siamo noi a contare, siamo noi che dobbiamo capire che siamo persone, non stampini. Che siamo reali, non finzioni. Che non siamo carte e che non siamo numeri. Che dobbiamo continuare a credere nei nostri ideali e nei nostri sogni, perché è questo a formarci.
Non sarà una sofferenza evitata per un'invenzione ad aiutarci, sarà il nostro coraggio nell'affrontarla a farlo. Sarà la nostra determinazione a farlo, sarà un globale eco nel coro “Io ce la farò”.
A volte non è necessario che succeda... a volte abbiamo solo bisogno che qualcuno ce lo dica. “Ce la farai, supererai tutto questo”.

La nostra paura di soffrire, come dicevo prima, ci rende apatici... e vieta quindi alle persone di pronunciarci frasi di questo tipo. Perché evitiamo l'affetto.
Cos'è la sofferenza se non la “malaria” dell'affetto? Cos'è, se non lo scudo che affittiamo per un periodo dall'affetto? Siamo sicuri di aver paura di soffrire, e non di amare?
Evitiamo a noi stessi di essere felici, evitando il nostro affetto... soffriamo per causa nostra. Evitiamo agli altri di aiutarci nei momenti difficili... soffriamo perché non vogliamo l'affetto altrui, la loro compassione, i loro “ridicoli” (è quel che si pensa al momento) pensieri di umanità stampata.
Evitiamo tutto, pur di non essere felici. Allora, sarà che la reale sofferenza sia essere felici? A me basta pensarci un attimo per rispondermi di sì.
Noi abbiamo il terrore di sentirci bene, di sentirci apprezzati. E' per questo che ci conformiamo alla società, ci rendiamo uguali, accettiamo quel che ci viene imposto... perché abbiamo paura di provare altro, di riuscire, provando nuove vie alternative, ad essere felici.

Noi siamo la causa della sofferenza. Noi siamo coloro che possono evitarcela. Noi possiamo essere felici. Noi possiamo fidarci delle persone, possiamo credere nei loro “Ce la farai”, possiamo arrenderci all'affetto. Possiamo arrenderci al fatto che non viviamo da soli, e come parte di comunità... è normale chiedere aiuto, chiedere compassione, chiedere di essere ascoltati, amati. Chiedere di essere vivi, di vivere e non sopravvivere.
Di smettere di vegetare, alzarsi in piedi, e dire “Io sono vivo, e nessuno potrà cancellarmi quest'idea dalla testa. Sarò diverso, e lo sarò perché amo esserlo”.

- Giorgio
  
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