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Autore: rosa_bianca    27/09/2013    2 recensioni
E se la madre del temuto Fantasma dell'Opera, invece di consegnarlo ad un circo di zingari, avesse deciso di affidarlo ad un convento parigino?
E se, il caso volesse, quest'ultimo fosse proprio il Petit Picpus, rifugio di Valjean e Cosette?
Cosa succederebbe se, quello che sarebbe in un'altra vita un futuro Fantasma, venisse accudito dal nostro ladro di pane preferito?
Come si evolverebbero i fatti? Cosa accadrebbe nel noto 1832, anno della Ribellione di Giugno?
Leggete e scoprirete.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Cosette, Jean Valjean, Marius Pontmercy
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1 Giugno 1832
 
 
 
 
 
È passato solo un anno, pensò Cosette, mentre curava i fiori in giardino, eppure è tutto così cambiato…!
Erano trascorsi precisamente dodici mesi da quando Cosette aveva dovuto salutare lo zio e le compagne del collegio per andare a vivere in una nuova casa con Valjean ed Erik.
Ora abitavano, insieme con una domestica, Toussaint, in una modesta –anche se alla fanciulla sembrava immensa- villetta in rue Plumet. Si trattava di una casa di un piano e la mansarda, che però aveva tre bellissimi giardinetti: quello frontale; uno interno, nell’ala della casa abitata da Valjean; e l’ultimo, quello al lato destro della casa, che era completamente di Cosette.
Lei l’aveva adornato con moltissimi fiori colorati: girasoli, tulipani, gigli… l’ultimo tipo di seme arrivato, che stava piantando proprio in quel momento, era quello di diverse rose rosse.
D’altronde, si disse, arrossendo, maggio è il mese delle rose…
L’odore dei fiori la inebriava e, ogniqualvolta che era triste, andava nel suo giardino e le tornava il buon umore. D’inverno, ovviamente, era coperto di neve, ma lei continuava a vedere i suoi fiori colorati spuntare da sotto il manto bianco.
Cosette osservò compiaciuta il lavoro a cui si era dedicata quel giorno: proprio il nuovo cespuglio di rose. Sospirò, contenta di aver faticato per un motivo  che la rendeva così felice, e si appoggiò stancamente all’altalena di corda che aveva costruito lei stessa.
Si dondolò, pensando alla sua ultima passeggiata ai Giardini del Lussemburgo, svoltasi proprio quella mattina.
Valjean non amava uscire di casa, per paura di poter essere arrestato dal poliziotto che in quegli ultimi anni gli aveva continuamente dato la caccia. Però capiva l’esigenza di una giovane come sua figlia di passar del tempo all’aria aperta, tra la gente; dunque la portava quasi ogni giorno a passeggio ai Giardini. Oltre ciò, non usciva più, tranne la sera, talvolta, quando c’era bisogno urgente.
Dunque, anche quella mattina i due avevano varcato i cancelli dell’enorme parco, a braccetto come al solito, lei vestita con un lungo abito grigio, con un cappello dello stesso colore ed in mano un ombrellino bianco, mentre lui aveva la sua solita palandrana color verde scuro, e l’usuale fazzoletto da taschino bianco.
Gli alberi dei Giardini erano tutti in fiore, e i prati si coloravano di rosso, arancione, azzurro, viola e giallo. Cosette ammirava il paesaggio come se lo avesse veduto per la prima volta, incantata da tanta bellezza.
Ad un certo momento, si voltò perché le parve di aver sentito un rumore: non era nulla, solo il fischio leggero del venticello primaverile; però, girandosi, incrociò lo sguardo di un giovane.
Era alto e magro, ed aveva i capelli corti color della sabbia bagnata. Cosette osservò che indossava un bell’abito nero, a dirsi nuovo. Ma notò soprattutto che quel ragazzo la stava guardando da prima, lo si intuiva dai suoi occhi sognanti. Lei gli rivolse un sorriso timido e, per non destare sospetti, si voltò di nuovo verso il padre, cercando di capire di cosa stesse parlando.
“…Vedi, anche a me piacevano molto i fiori, da giovane, io…”
Chissà come si chiama…
“…Bhe, poi, lo sai, facendo il giardiniere, con accanto un esperto come tuo zio…”
Chissà se mi sta guardando anche ora…
“…E tu cosa ne pensi, Cosette?”
La giovane scosse il capo, come per ridestarsi.
“Oh, io… non saprei dire, padre.” sorrise innocentemente, come solo lei sapeva fare.
Il resto della passeggiata si era svolto tranquillamente, senza che Cosette avesse più visto il giovane. Così era tornata a casa, piena di speranze ma anche un poco delusa, ed aveva cercato dei semi per le rose rosse. Sapeva che non era quello il periodo per piantarle, ma non se ne preoccupò minimamente.
“Se non lo rivedrò prima che sboccino,” si disse “vuol dire che non ci incontreremo mai più.”
Cosette era ancora seduta sulla sua altalena, quando udì un richiamo.
“Cosette!”
Si voltò di scatto, come se l’avesse punta un’ape, e vide Erik, davanti alla porta che conduceva all’interno della casa.
Gli sorrise, e lo invitò a venire vicino a lei.
“Non ti paiono bellissimi questi fiori?” gli chiese, soddisfatta.
“Sì, bellissimi, ma sono sempre gli stessi di ieri.” ribatté lui, rimanendo in piedi accanto all’altalena.
“Non è vero. Ho piantato dei nuovi fiori, delle rose rosse.” le sfuggì, colpita nell’orgoglio.
“Oh… quelle mi piacciono molto. Sono dei fiori passionai e tragici.” affermò il bambino, con l’aria di chi la sa lunga.
Cosette gli rivolse uno sguardo interrogativo per circa due secondi e poi, non potendosi trattenere, scoppiò a ridere. “Si può sapere dove le senti dire queste cose?”
“Non le sento dire da nessuno!” sbottò, offeso a sua volta “E’ una cosa che penso io…” concluse, a voce più bassa. Cosette, col rumore delle sue stesse risate, non lo sentì.
Quando si ricompose, chiese al fratello: “Comunque, dimmi, come mai sei venuto da me?”
Spesso Erik ‘invadeva’ il giardino di Cosette. Sentendosi a disagio ad andare in quello del padre, preferiva sedersi sul prato curato dalla sorella, a pensare. Pensava molto, a dire la verità, per un bambino di sette anni. Principalmente si scervellava sul perché fosse diverso. Così diverso, che non aveva mai visto qualcuno come lui. Fantasticava segretamente di essere il figlio di un imperatore di un paese lontano e sconosciuto*, di cui non si poteva varcare la soglia se non si aveva almeno una metà del viso sfregiato.
Non si era mai chiesto perché non gli fosse permesso uscire, tranne la sera, con Valjean, e sempre a patto che indossasse un mantello con il cappuccio. No, questo lo aveva già capito: non si era dimenticato del volto terrorizzato e allo stesso tempo disgustato della Madre Superiora quando lo aveva sorpreso a suonare l’organo. Era un incubo che sognava spesso: in più, il senso di colpa per essere stato la causa del trasferimento tanto immediato della famiglia. Era colpa sua, ne era certo; e il ricordo di Valjean che faceva i bagagli e di Cosette che salutava, con le lacrime agli occhi  le sue compagne per l’ultima volta, lo tormentavano, e non solo di notte.
“Sono venuto perché… ecco… vorrei che mi aiutassi a scappare.” spiegò, con un po’ di vergogna.
Cosette lo fissò intensamente negli occhi.
“Erik… cosa significa?” gli domandò “Ti sei già scordato dell’ultima volta che sei scappato, un anno fa?”
Il bambino abbassò lo sguardo, per poi, subito dopo, rialzare la testa, con gli occhi tristi ed un’espressione decisa.
“Non ho dimenticato, proprio per questo…” iniziò lui “vorrei smettere di essere un peso per te e papà.” confessò infine.
Cosette gli accarezzò il volto con la mano. “Non dire queste cose, Erik, neanche a scherzare…non sei mai stato un peso per noi!”
Lui non rispose per circa un minuto. Dal suo volto concentrato, Cosette capì che stava pensando. Assumeva spesso quell’espressione, ed aveva imparato, dopo tempo, ormai, che significava soltanto una cosa: bisognava stare zitti finché non fosse uscito da quella specie di meditazione.
Dunque la giovane attese, pazientemente; e, soprattutto, in silenzio.
“Ascolta: so già dove andare, starei bene, tu e papà potreste essere totalmente tranquilli. Non correrei rischi, questo ve lo posso assicurare.” si espresse infine, con aria seria e matura.
 “Sai già dove andare? Erik, per favore… non sei che un bambino, il tuo posto è qui a casa con noi due!” ribatté preoccupata la sorella maggiore, cercando di convincerlo a restare.
“Ti sbagli! Il mio posto è in strada, dove mi troverei se mia madre non mi avesse affidato a papà…” il suo tono aveva una durezza che non ci si poteva aspettare da un settenne.
Cosette lo guardò con un’espressione tragica sul volto. “Tu…” balbettò, non trovando le parole “Papà ha fatto grandi sacrifici per tenerti con lui, sai? Io mi ricordo bene, avevo dodici anni quando t’iniziò ad accudire. Ora… andartene, significherebbe dimostrare che tutti questi suoi immensi sacrifici non sono serviti a nulla, ci avevi pensato?”
Erik non disse niente, limitandosi a fissarla dritto nei suoi occhi azzurri.
“Inoltre,” continuò Cosette “come faresti, in strada, davanti a tutta la gente fuori, a mostrare il tuo volto?”. Un gemito di dolore uscì involontariamente dalle labbra del fanciullo.
“Sai bene che io e tuo padre adoriamo il tuo viso, te ne abbiamo sempre dato prova;” proseguì lei, con un sorriso materno “ma ci sono persone, al di là di questo cancello, ignoranti, per lo più, che direbbero cose brutte su di te. Cose che, per quanto tu sia molto difficile da scalfire, ti farebbero del male. Ti urterebbero molto, Erik. E io non voglio, per nessuna ragione, che questo succeda.”
In uno slancio di dolcezza, Cosette prese le spalle del bambino e lo strinse in un abbraccio.
“Soffoco!” ansimò lui, con il viso affondato nel suo petto florido.
Quando si fu liberato dalla morsa, Erik prese un gran respiro. “Capisco quello che intendi.” affermò.
Lei gli prese una mano e, guardandolo negli occhi, disse solennemente: “Prometti. Prometti che non scapperai, Erik.”
Il bambino si morse un labbro, incerto sul da farsi. Ma si disse che non poteva negare questo sollievo alla sorella.
“Prometto” pronunciò, altrettanto solennemente, mentre la sua mano destra scivolava lesta dietro la schiena, per incrociare le dita.
Cosette osservò con dolcezza il fratello che attraversava il giardino per tornare in casa, e si lasciò sfuggire un pensiero.
Ma sì…le rose fioriranno.
 
 
 
 
2 giugno 1832
 
Erik si guardò intorno, furtivo. Aveva appena lasciato il salone, e voleva essere certo di non avere nessuno al suo seguito. Quella sera, fortunatamente per i suoi piani, Valjean aveva un poco di febbre primaverile, e dunque era già stanco alle sei di sera. Cosette, neanche a dirlo, l’aveva amorevolmente seguito nella sua camera, per leggergli ad alta voce un libro, come faceva ad ogni malattia del padre.
Erik aveva colto l’occasione per augurare la buonanotte a tutti e due, e si era fatto portare, come al solito, in camera sua da Toussaint. Appena aveva sentito la porta chiudersi, tirò fuori da sotto il letto una specie di sacchetto di tela. Lo contemplò per qualche secondo, prima di aprirlo. Conteneva una giacca spessa, una piccola fionda, del pane bigio e del formaggio. Erik guardò con tristezza la custodia del suo violino, posata accanto alla porta. Era stato un regalo di Valjean, qualche giorno dopo del trasferimento in Rue Plumet.
“Io non me ne intendo molto, e non saprei che farmene di un violino…” gli aveva detto “ma ho capito che hai davvero una grande passione per la musica; e dunque questo è per te, figliolo.”
Gli diede un ultimo sguardo malinconico, costringendosi a pensare ad altro.
Ecco, mancava ancora un cosa… si diresse lentamente verso il cassetto della sua piccola scrivania, invasa da fogli pentagrammati. Lo aprì e scorse un’esile figura bianca al suo interno.
Era quello a cui aveva lavorato da mesi, in completa segretezza. Il suo passaporto verso il mondo esterno, fuori dalle noiose recinzioni di Rue Plumet.
Una maschera di color perlaceo brillò nel buio della stanza. Erik l’accarezzò e la portò, tutt’altro che rapidamente, verso il suo volto. L’adagiò sulla parte destra del viso, la parte martoriata, deformata, piagata…
Avrebbe voluto uno specchio. Ma sicuramente entrare nella stanza di Cosette e prendere quello piccolino, sulla sua toletta, sarebbe stato troppo rischioso. Quindi si limitò a toccarla diverse volte, con un sorriso soddisfatto.
Era finalmente pronto.
 
Dunque, aveva già passato il salone. Aprì con lentezza la porta di casa, di un legno massiccio, forse ciliegio.
Assaporò il vento fresco che gli scombinava i capelli e gli carezzava il volto. Metà del volto, per la precisione.
Strinse il bastone del suo fagotto fino ad avere le nocche bianche. Respirò, a pieni polmoni. Salutò con un  cenno della testa il giardino di Cosette.
Infine, spinse il cancelletto di ferro.
Sono fuori.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*Perdonate la semi-citazione a Cime Tempestose (libro che amo). Nel momento in cui Heatcliff, ormai diventato schivo in casa propria, fugge dai suoi doveri per passare del tempo con Cathy, insieme di domandano quali siano le origini di Heathcliff, e lei dice che, probabilmente, si tratta di un imperatore di un regno molto lontano.
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice
Eccoci al terzo capitolo!
Che cos’abbiamo qui? Be’, direi un interessante Erik fuggiasco. Non ve lo aspettavate, eh?
Aggiungerei all’elenco anche una Cosette innamorata (e un Marius perso).
Che altro dire? Ah, sì. Le Rose Fioriranno.
Un enorme grazie a tutti coloro che hanno letto, preferito, ecc... ed un grazie speciale a Saitou Catcher, mia assidua recensitrice (?) u.u
Al prossimo capitolo,
rosa_bianca
   
 
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