nine .
n i n t h t a l e
Il
sangue proprio non voleva fermarsi. Il dolore quasi non lo sentiva più, Maeve,
e nemmeno le era rimasta sensibilità al braccio sinistro. Con la vista velata e
un ronzìo cupo nelle orecchie, simile a quello che ricordava di aver avvertito
dieci anni prima quando le avevano inferto la ferita alla schiena, cercava di
dare un senso a quello che stava accadendo intorno a lei – con ben miseri
risultati: desiderava soltanto lasciarsi andare e dormire, magari.
A prua,
il piccolo Sparrow non si muoveva, la Bussola ancora alzata sopra la testa.
Teague, Hector e Davy lo fissavano con una sorta di terrore immobile e
infastidito, le ciurme tacevano, e il solo ad apparire a proprio agio era
Greedy Dalma. Superato lo sconcerto iniziale, difatti, l’uomo dalla pelle scura
aveva squadrato il bambino con aria sorniona. E adesso gli si era avvicinato,
parandoglisi di fronte.
Maeve
cercò di risollevarsi sulle ginocchia, ma tremava troppo per resistere in
quella posizione, e ricadde vinta.
- Mi stai
offrendo il mio premio su un piatto d’argento, moccioso?
La voce
dell’Avido si levò nell’aria ancora fumosa, accompagnandosi agli scricchiolii
delle navi.
Jackie
tirò su col naso: - Io non ho detto che te la offro – rispose.
- E cos’hai
in mente? – incalzò il capitano dalle vele nere. Stava evidentemente giocando.
- Tu
vuoi la Bussola, vecchio, e io la butto in mare se voi non ve ne andate! – urlò
il ragazzino.
Suo
malgrado, Dalma dovette riconoscere che il mormorìo ammirato che si levò a
quell’affermazione avventata non era del tutto immeritato. Certo, quello sputo
di mozzo non doveva avere idea del guaio in cui si era cacciato, e questo lo
divertiva il doppio. Prese allora a camminargli lentamente intorno, una mano ad
accarezzarsi il mento, gli stivali che scandivano inesorabili il tempo battendo
sul legno scivoloso del ponte. Ah, che motivi aveva di preoccuparsi? Il suo
minuscolo nemico avrebbe pure potuto scagliare l’oggetto a metri e metri di
distanza, nelle acque color cobalto del Mediterraneo, ma non gli sarebbe
servito a nulla. Tra tutti i presenti, soltanto lui, il capitano del galeone
dalle vele nere, aveva ogni diritto di non temere il mare. E il mare non lo
avrebbe mai fermato.
Adesso
scorgeva con chiarezza la paura negli occhi sgranati del figlio di Sparrow. Si
beava del suo pallore e della linea ostinata della sua bocca serrata, e
dell’ansia che percepiva nell’equipaggio della Scarlatta, nelle dita degli
uomini strette sulle impugnature delle armi.
Avrebbe
vinto Greedy, ancora una volta.
- Bene, giovane
impavido – lo canzonò – Buttala in mare, se lo desideri.
Fulmineo,
e tuttavia senza scomporsi, estrasse una pistola a canna lunga dal pastrano e
la puntò contro la fronte di Jackie, cinta dal fazzoletto rosso. Il bambino
trasalì come se già gli avesse sparato, e nonostante ciò non mosse un muscolo
né distolse lo sguardo. Teague fece un passo avanti.
-
Buttala in mare, se una pallottola t’incuriosisce.
Jack
deglutì: - E se non m’incuriosisce? – s’informò con una buffa voce gracchiante.
- In tal
caso puoi lasciare la Bussola in mano mia, com’è giusto che sia – sorrise
l’uomo, in un tono che non ammetteva repliche.
- No che
non è giusto – lo rimbeccò il suo piccolo interlocutore, più deciso.
Suo
padre, qualche metro più indietro, emise un ruggito rabbioso: - Taci, Jackie!
Era
furioso perché non poteva fare alcunchè per cambiare quella situazione. Se
avesse sparato a Dalma, cosa peraltro quasi impossibile a causa dei numerosi
moschetti che i nemici tenevano puntati dritti su di lui, su Hector e Davy e
sui loro uomini – se lo avesse fatto, dunque, la ciurma del comandante nero
avrebbe forse ucciso Jack per vendetta o per dispetto, e comunque si sarebbero
presi la Bussola. Ci sarebbe voluto uno sparo che cogliesse di sorpresa e che
ammazzasse l’Avido sul colpo, affinchè loro potessero riguadagnarsi una
possibilità di vittoria. Ci sarebbe voluta la mira infallibile della Lince.
Ma la
Lince era sparita, e nessuno l’aveva vista accasciarsi vicino alla murata,
nemmeno Barbossa. E Tia Dalma, dove si era nascosta?
- Il mio
braccio comincia a stancarsi, moccioso. Il tuo no? – avvertì Greedy facendo
scattare il cane.
- Non
ancora – sussurrò il ragazzino.
-
Jackie, basta!
Il
metallo della pistola premette con maggior forza sulla stoffa rossa della
fascia: - Ascolta tuo padre, Jackie.
- Mai
fatto in vita mia – concluse Jack serrando le palpebre, e riluttante schiaffò
la Bussola nel palmo aperto dell’uomo.
- Un
vero pirata – ghignò quest’ultimo. Ritrasse l’arma e sparò un colpo in basso, a
un pollice di distanza dai piedi del bambino. Poi, mentre un filo di fumo si
alzava rovente dal buco nelle assi, Dalma si girò verso il proprio equipaggio e
annunciò: - Signori, qui abbiamo finito!
Un
soddisfatto boato si levò dalla massa compatta di bucanieri che avevano
assistito divertiti alla scena. Qualcuno domandò se era nececessario fare fuori
quei topi di sentina sconfitti, di modo che non creassero problemi in futuro, e
a mo’ di esempio passò la lama della sciabola sul collo di mastro Wyvern.
- No,
Mog, non ce n’è bisogno – rispose il capitano dalle vele nere – Senza la
Bussola non potranno neanche raggiungerci.
Il
marinaio annuì, bofonchiando con notevole delusione, e ben presto gli
assalitori se ne tornarono sul vascello scuro, scalpicciando, vociando,
sputando, ridacchiando e lasciando i compagni morti sul ponte della Scarlatta,
impiastricciato di sangue, acqua, schegge e polvere da sparo. I tre comandanti
osservarono in silenzio la sagoma eretta dell’Avido che si allontanava, fermo
al timone come una statua di bronzo. E soltanto quando la nave avversaria fu
scomparsa nella caligine dell’orizzonte qualcuno osò riaprire bocca. Josh, per
la precisione, che aveva scorto una familiare punta di stivale sbucare tra
botti e cordàmi.
- Maeve,
maledizione! Che cavolo stavi facendo? – sbraitò precipitandosi da lei.
Nel
sentirlo gridare, anche gli altri si riscossero. Teague corse da Jackie per
accertarsi che stesse bene e per dargli l’ennesima strigliata; Davy scagliò la
spada a terra e imprecò sonoramente, accorgendosi dello stato pietoso in cui
erano ridotte buona parte delle vele, delle sartìe e del parapetto; Wyvern,
Cotton e Barrett, benchè feriti, andarono a soccorrere i compagni che avevano
ricevuto ingiurie peggiori. Hector e Bill raggiunsero Gibbs, non appena questi
si rivolse a loro gesticolando con frenesia e con un’espressione angosciata: -
Venite a darmi una mano! Mia sorella… è…!
La
ragazza giaceva con la schiena poggiata alla murata. Pallidissima e sudata,
aveva la camicia e il farsetto inzuppati di rosso, e una mano ancora
mollemente, inutilmente premuta nell’incavo della propria spalla sinistra,
sopra il cuore. Respirava a malapena.
- Come
ho fatto a non accorgermene? – stava ripetendo piano Josh. Sembrava stravolto.
- Cos’è,
pensavi che fosse andata a nascondersi in un angolo? – disse il biondo con voce
dura.
Il
giovane fece un cenno di diniego: - So che non sarebbe stato da lei. Però
neppure immaginavo che le avessero…
-
Piantala di piagnucolare, Basetta – lo sedò Turner – Portiamola giù e vediamo
in che condizioni è la ferita.
-
Portatela nella mia cabina. Non è il caso di farla stendere sull’amaca o sul
pavimento – li redarguì Hector.
I due si
accinsero a sollevare Maeve, ma non sapevano come fare per non toccarle la
spalla rovinata. A quel punto, a Barbossa non restò altro modo per toglierla di
lì: se la caricò tra le braccia, ricordandosi di averla presa nella medesima
maniera quando era una bambina. Si sentiva agitato, voleva fare in fretta.
L’emorragia non si era fermata del tutto, e di sangue la Lince ne aveva già perso
fin troppo. Dovevano tamponarle lo squarcio con dell’alcol, ripulirlo e
fasciarlo, e stare bene attenti che la ragazza non cadesse preda di una forte
febbre. Purtroppo non era la sola ad aver bisogno di cure, e la Scarlatta
stessa era in brutte condizioni: questo significava che lui non avrebbe potuto
vegliare su Maeve fino al suo risveglio. I suoi doveri di capitano lo
reclamavano in coperta.
Una
volta adagiatala sulla cuccetta, nella frescura della sua stretta cabina,
Hector lasciò a Josh e Bill il compito di occuparsi di lei. Di malavoglia,
attraversò la zona degli alloggi della ciurma, ora brulicante di gente nervosa
e di lamenti e odori forti, e risalì sul ponte.
- Siamo
nella merda.
-
Brillante intuizione, Sparrow – grugnì Davy.
I tre
capitani e i tre primi ufficiali si erano riuniti nel quadrato di poppa. Ormai
era giorno pieno, e la calura esterna non facilitava né le azioni né i
pensieri. Inoltre, l’olezzo di sangue e legno bruciato davano la nausea. Per
fortuna, gli uomini avevano fatto piazza pulita di cadaveri e del grosso delle
scorie.
-
Abbiamo da riparare un terzo della murata di tribordo – prese ad elencare
Wyvern – Gli alberi non sono stati danneggiati, ma abbiamo perso le vele di
mezzana e alcuni sartiami. Nemmeno le vele di maestra sono messe granchè bene.
- Siate
più preciso, mastro Wyvern – interloquì Hector, asciutto.
L’altro
scrollò le spalle: - Trevo bucato e gabbia sfilacciata, comandante. Quelli ci
sapevano fare.
- Il che
vuol dire che siamo fottuti.
-
Sparrow, stai diventando monotono.
Barbossa
si passò una mano tra i capelli arruffati: - Purtroppo ha ragione. Con lo scafo
pieno e i velàmi in queste condizioni non possiamo permetterci di inseguire
quel bastardo di Dalma. E prima dovremo comunque metterci alla fonda e riparare
il riparabile.
- Con
quali materiali? – lo interruppe il rosso Jones – Non possiamo lavorare senza
legno.
- Per
non parlare delle vele di riserva. Quelle buone le abbiamo esaurite – specificò
Cotton con rammarico.
Teague
si alzò, andando ad appoggiarsi alla cornice dell’ampia vetrata che chiudeva la
sala: - Dobbiamo far porto.
- In
questo stato pietoso? Non dire idiozie – commentò Davy.
-
Abbiamo ancora abbastanza vele intatte per arrivare in tempi decenti sulle
coste del Marocco – replicò il moro – Lì useremo parte del bottino che ci
appesantisce lo scafo e ci pagheremo legno, stoffa e corda per rimettere in
sesto la Scarlatta. Compreremo provviste in abbondanza e munizioni, e per un
paio di giorni lasceremo gli uomini liberi di sbronzarsi e andare a donne e giocare
d’azzardo come meglio credono.
Il volto
di Hector si increspò in un vago sorriso di approvazione: - Così ci
alleggeriremo, pure. E dopo…
- Dopo
saremo di nuovo in grado di dare la caccia al nostro comune amico – concluse
Teague, incrociando gli occhi accesi del collega.
Barrett
si grattò pensoso la mascella rasata male: - Senza la Bussola di Morgan come lo
ritroviamo? Insomma, dove diamine è diretto?
- Io so
cos’è che sta cercando – mormorò Jones.
Tutti lo
fissarono. Il capitano scozzese teneva lo sguardo puntato sul mare oltre i
vetri, un’immensa gravità inchiodata nelle iridi color ghiaccio.
- So
cosa sta cercando – riprese a voce più alta e con evidente sforzo – perché è
quel che cerco anche io. Ma mi serviva la Bussola per arrivarci, dacchè non conosco
la rotta, né il punto esatto. Eppure, una via alternativa la avremmo.
Gli
ufficiali trattennero a stento un moto di eccitazione. Hector e Teague, invece,
si scambiarono un’occhiata, un pensiero identico nella mente stanca: era forse lei, la ‘via alternativa’? La donna
dalla pelle di cannella che pareva capire le onde così bene?
- Ve ne
riparlerò una volta riparata la nave. Per il momento, ricordatevi ciò che vi ho
detto – finì di dire il rosso – E, Sparrow. Alla prossima che combina tuo
figlio, giuro che lo appendo al bompresso. Se non avesse avuto quella splendida
pensata avremmo ancora la Bussola.
L’interpellato
non battè ciglio: - Voleva darci una mano, a modo suo. Sbagliare è normale.
- Non
parafrasare proverbi inutili. Che ci aiuti quando sarà cresciuto, se proprio ci
tiene – e con tali parole Davy girò i tacchi e lasciò la stanza a passi grandi
e irritati, uscendo sul ponte e mettendosi a gridare ordini. Gli altri attesero
un po’ nel quadrato, senza fiatare e senza un reale motivo di restarsene lì, se
non l’ombra e l’aria respirabile. Si godevano l’idea di avere di nuovo un
piano, un obbiettivo, una preda da cacciare.
I ruoli
si erano invertiti. E per pirati come loro, quella era la prospettiva più
allettante.
Quando
infine Cotton, Wyvern e Barrett si decisero a seguire il rosso, lasciando soli
Hector e Teague, questi ammiccò al compagno:
- La
Lince come sta?
- Non lo
so. L’ho affidata a suo fratello e a quel pazzo di Turner – borbottò il biondo.
-
Decisione discutibile – rise Sparrow – Pensi di tornare da lei, adesso?
Barbossa
lo fulminò: - Per chi mi hai preso? Sono un capitano. E dobbiamo condurre in
porto questo catorcio di galeone.
- Non
essere scortese. La Scarlatta resta sempre una signora nave – lo rimproverò il
moro, accingendosi ad andarsene.
Strano
che avesse lasciato cadere l’argomento con siffatta naturalezza, si disse
Hector mentre lo osservava aprire la porta. Di solito lo avrebbe preso in giro
fino alla morte, lo avrebbe punzecchiato e provocato, così come aveva sempre
fatto da dieci anni a quella parte. Doveva essere seriamente inquieto.
Soprattutto
dopo aver assistito alla piazzata suicida di quel caso umano di Jackie,
sogghignò il biondo tra sé. Non sapeva che tipo di uomo sarebbe divenuto col
passare degli anni, ma di una cosa era certo: non avrebbe voluto Jack Sparrow
come suo capitano per niente al mondo.
Le ore
si snocciolarono via con metodica lentezza, sotto i raggi cocenti del sole.
Furono stesi teli di cotone pesante sui boccaporti di coperta, in maniera da
preservare un po’ di fresco laddove riposavano i feriti, e sul ponte si lavorò
instancabilmente per eliminare almeno un minimo i danni che non potevano
attendere le coste marocchine per essere sistemati. Persino i tre capitani, per
dare ordini, si misero in maniche di camicia e corsero da prua a poppa
elargendo istruzioni e, a turno, tenendo il timone. Il vento e le acque erano
placidi, rilassati, e la Scarlatta vi scivolava sopra beccheggiando appena.
Finalmente
scese il crepuscolo, portando sollievo agli uomini sudati. Il cielo era di poco
più chiaro del mare, tinteggiato di verde-oro nel tratto in cui sfiorava
l’orizzonte, e su isole lontante brillavano, visibili solo ad occhi attenti,
piccole luci.
L’aria
profumava di sale e di qualcosa di simile al gelsomino. Era perfetta per
dimenticare la durezza di quel giorno.
Hector
se ne stava appoggiato alla base del bompresso a guardare le onde. Josh gli si
avvicinò con due boccali di rum tra le mani:
- Se
gradisci, capitano, ho portato qualcosa di dissetante – esordì. Non sorrideva,
ma pareva tranquillo.
Il
biondo accettò l’offerta con piacere: - Strano che ci sia ancora rum a bordo.
- In
realtà sta finendo. Quello avanzato serve per disinfettare, purtroppo. Ce n’è
una bottiglia nella tua cuccetta, se vuoi.
- Mi
stai suggerendo di sbrigarmi a prenderla, Gibbs? – ghignò Hector. Gli piacevano
i messaggi subliminali.
Josh
fece spallucce: - Magari. Mia sorella stava dormendo, quando ho controllato
l’ultima volta. Attento a non svegliarla, capitano.
Non si
capiva se il tono del giovane fosse sornione o meno, ma Barbossa lo avrebbe
preso per tale a prescindere. Che a Joshamee desse fastidio il suo interesse
per lei non lo disturbava. Quello era affar suo.
Sollevando
il boccale per un ironico brindisi col ragazzo, Hector si avviò ai boccaporti e
si calò giù per la scala stretta. Dagli ombrinali nelle fiancate filtrava la
brezza pulita, e l’odore negli alloggi era meno opprimente di prima. La porta
della sua cabina era chiusa, e da dietro di essa provenivano lievi fruscii: una
lama sottile di luce aranciata gli rivelò, assieme a quei rumori, che la Lince
si era probabilmente alzata e che stava muovendosi nella stanza.
In
effetti, Maeve aveva smesso di dormire già da un bel pezzo. Aveva continuato a
tenere le palpebre serrate per evitare che suo fratello o chiunque altro si
mettesse a parlarle, a farle domande, a compatirla e consolarla per la brutta
ferita. Le bruciava, quella ferita, e non solo fisicamente. Odiava il fatto di
essere stata tanto stupida e distratta da lasciarsi colpire alla sprovvista e
all’improvviso, e all’inizio della battaglia. Non era servita a nulla, non era
stata utile. Si era afflosciata come un sacco di patate bucato, incapace di
trovare la forza di reagire al dolore e allo sfinimento.
E, per
aggiungere la beffa al danno, nessuno si era accorto di quel che le era
accaduto. Comprensibile, considerata la situazione. Eppure la cosa la stizziva,
la innervosiva, le metteva voglia di prendersela con i suoi ignari compagni,
con Josh. Con Hector.
Non era
venuto a vedere come stava, constatò nuovamente, frattanto che si cambiava con
cautela la fasciatura sulla ferita. Chissà, forse la considerava una donna
debole, fondamentalmente indifesa, inadatta all’azione. Una donna normale.
Era
talmente immersa in questi ragionamenti, Maeve, che non udì la porta cigolare,
aprirsi e richiudersi, e un paio di suole strusciare sul legno.
- Mi
sembra che tu ti sia rimessa alla svelta, Lince.
Lei
sussultò, conscia di essere a petto nudo, benchè di spalle al visitatore:
-
Dannazione, Hector. Bussa prima di entrare! – lo aggredì, afferrando rapida la
camicia per coprirsi. Ma non la indossò.
- Io ho bussato. Quando ero già dentro – si
difese l’uomo. Si coglieva il suo sorriso sfrontato, nella sua voce.
Maeve
voltò il capo per guardarlo: - Sempre la risposta pronta, tu. Ora però vattene.
Sto bene.
No, non
c’era la minima convinzione in quell’ordine che avrebbe voluto essere secco e
acido. Non la minima sfumatura. Il lume a olio dondolava al suo gancio sulla
parete opposta a quella in cui era incassata la cuccetta, facendo della cabina
angusta un bozzolo accogliente, difficile da abbandonare. La finestrella era
socchiusa per lasciar passare il fresco della sera, e il soffio scompigliava
con gentilezza i capelli raccolti della ragazza.
Hector
non riusciva a staccare gli occhi dal contorno morbido delle spalle e dei
fianchi di Maeve, dal suo collo scoperto e un po’ piegato in avanti, dalla
garza bianca che spiccava sulla sua pelle abbronzata, dai suoi piedi magri e
dalle caviglie che spuntavano dall’orlo dei calzoni.
E dalla
grande cicatrice che le attraversava, in diagonale, la schiena intera,
perlacea, lunare.
La
giovane Gibbs avvertì le sue occhiate e lo fissò in tralice: - Non guardarla.
Non è piacevole da vedere – lo pregò quasi.
- Io la
trovo bella – disse placidamente Hector, osservando anche il profilo, il naso
dritto, la bocca fiera, gli occhi taglienti e brucianti.
-
Smettila e vattene – tentò ancora Maeve. Per partito preso, più che altro.
Barbossa
le fu accanto in un attimo. Le posò una mano alla base del collo e cominciò,
piano, a far scorrere le proprie dita ruvide lungo la cicatrice, seguendone le
irregolarità e la linea con esasperante lentezza. La ragazza inghiottì un
grosso sospiro e si morse le labbra.
- Non me
ne vado, Lince.
La mano
terminò il suo percorso e lo risalì al contrario, senza accelerare. Hector si
spostò, in modo da esserle di fronte, carezzandole le spalle e ubriacandosi di
quella vista: il viso di Maeve era appena arrossato, gli occhi violetti
tradivano un sorriso. Era timorosa. E trepidava.
Lasciò
che fosse lei a baciarlo per prima, vincendo l’orgoglio che di norma la
guidava. Sentì quella bocca riscaldarsi sulla sua e non si trattenne oltre,
catturandola completamente, stringendola a sé e baciandola come quella notte di
tempesta sul pennone di prua.
Non
erano più in bilico sui marosi roboanti, ma la vertigine era addirittura più
forte.
E più i
baci si facevano intesi più le braccia e le mani di Hector sembravano non
volerla lasciar scappare via, trattenendola con una sorta di frenesia che in un
uomo diverso si sarebbe detta disperazione. Invece non c’era disperazione in
loro. Non c’era fretta. Era tutta una danza lenta e ritmata, come le onde che
cullavano la Scarlatta, silenziosa come la camicia di Maeve che planò sul
pavimento, sfuggendo dalla sua già svogliata presa.
Era
rovente come le lenzuola e le coperte smosse su cui Hector la adagiò tenendola
per i fianchi, era vellutata come la semioscurità in cui piombò la stanza dopo
che la fiamma si spense sullo stoppino consumato della lampada. Era stellata
come il cielo blu cupo incorniciato dalla finestra quadrata, quella finestra
che Maeve intravedeva al di là delle ampie spalle e dei capelli spettinati di
Hector. La finestra che scorse fin quando non chiuse gli occhi.
Allora
non pensò più a niente. Il dolore alla spalla si era ridotto ad un
insignificante bruscolo nel mare caldo in cui Hector Barbossa la stava
guidando. Lui, l’uomo che da anni la canzonava bonariamente e la guardava con
quello sguardo impertinente e impenetrabile.
Eppure
quelle stesse iridi color dell’acqua calma ora ardevano con la stessa intesità
dei loro corpi.
E Maeve
Gibbs pensò, prima di smarrirsi completamente, che non avrebbe desiderato
bottino più prezioso di quello.
ninth tale : end
piccole
note (volendo trascurabili):
chiedo
umilmente, UMILMENTISSIMENTE perdono.
Sono secoli che
non aggiorno, causa ispirazione vacante, e non sapevo come fare.
Ma ecco che,
oggi, sono riuscita a buttare giù il capitolo per intero.
Oh, non è molto
lungo, lo so, però c’è. È qui, tutto per voi, finalmente.
Spero che questo
ritardo non vi abbia fatto passar la voglia di leggere!
Passo subito a
ringraziare chi di dovere:
le mie compari Laura, Acchan, Sparriku e Peeves;
la collega Kairi; la solita Sesshy; e Narah, in particolare,
a cui do anche il ‘benvenuto’.
Prometto che non
vi farò aspettare più così tanto.
Alla prossima, dunque, se vorrete essere inclini ad ottemperare alla mia richiesta ♥ Black ~