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Autore: Vorarephilia    28/09/2013    1 recensioni
Soleil aveva sedici anni e una vita che a molti potrebbe apparire semplice.
Amelie aveva sedici anni e un'esistenza priva di significato.
Soleil aveva un'amica immaginaria, una volta.
Amelie aveva qualcuno con cui passare il tempo, una volta.
Soleil amava guardarsi allo specchio.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 5

Usare la Voce

 

Amelie

 

Erano trascorsi alcuni giorni da quella sera in cui Soleil era arrivata a casa triste.
Non avevamo passato tanto tempo insieme.
A sua madre aveva detto che andava in “ospedale” per vedere un'amica.
Quell'amica che era più importante di me.
Nonostante le mie preghiere, non mi aveva permesso di uscire dalla sua abitazione.
Non voleva che corressi pericoli.
E intanto, il tempo che potevo trascorrere in quel mondo era agli sgoccioli.

 

Avevo un piano.
 

Sarei andata al campanile e poi nel mondo specchio.
Solo il tempo necessario per recuperare le forze. Poi sarei tornata indietro e avrei completato la mia missione.
Con Soleil fuori dai giochi, avrei potuto rimanere nel mondo giusto senza che le mie energie vitali fossero prosciugate.

Partii di notte, per non doverle dare spiegazioni.

Mi sentivo una brutta persona.

Sapevo di star facendo la cosa migliore per me, e che ne avevo il diritto dopo dieci anni passati nell'ombra, ma mi sentivo un'egoista, mi sentivo sporca dentro, immeritevole di stare dinnanzi a questa ragazza, così simile a me eppure così diversa.

 

Salii la scalinata, entrai nella stanzetta dalle pareti colorate e poi dentro lo specchio, scesi la stessa scalinata.

 

Arrivata a terra, a mala pena riuscivo a respirare. Avevo fatto talmente tanta fatica che non mi sentivo più i muscoli delle gambe.

Di sicuro era un buon modo per scoraggiare i ribelli che volevano entrare nel mondo giusto.

Il mio corpo fu felice di essere tornato alla sua normalità.

La temperatura sempre stabile del mondo specchio era un toccasana per guarire dalle emozioni troppo forti provate in quei pochi giorni.

Il grigio e la statica confusione delle strade, ancora macchiate di rosso, non stancavano i miei sensi come i colori ed i dettagli del mondo di Soleil.

Il Silenzio mi dava pace al cervello, ancora confuso per la troppa quantità di informazioni incamerate.

Mi sentivo talmente stanca.

Avevo voglia di dormire.

A passo lento mi avviai verso la prima abitazione disponibile.

Non era nulla di diverso dalle altre, se non fosse stato per una scritta nera su una parete.

Usate la Voce

Solo quello, ripetuto molte volte, in tanti stili e dimensioni differenti.

Usate la Voce.

Era un buon consiglio, senza dubbio.

Con troppo silenzio si rischiava di impazzire.

Tuttavia, solo i diversi “usavano la Voce”. Solo quelli come me, che io non avevo mai incontrato, sapevano parlare.

Spesso mi ero chiesta, crescendo, se anche per loro fosse stato così difficile, o se, invece, avessero trovato degli alleati. Degli amici. Qualcuno con cui “usare la Voce”.

Io l'avrei voluto.

Se avessi avuto anche solo un amico con il dono della parola, probabilmente non mi sarei sentita così incline all'uccidere Soleil, così pienamente giustificata.

Trovai un letto scomodo e dalle coperte ruvide, ma era molto meglio di niente.

Mi ci accasciai sopra, davvero sfinita, e mi addormentai in fretta.

 

Quando riaprii gli occhi, scoprii di non essere sola.

Erano in quattro.

Portavano delle sciarpe di cotone pesante, nere, che coprivano loro il viso.

Indossavano abiti scuri, che si mimetizzavano perfettamente con l'ambiente.

Se non fosse stato per l'atteggiamento bellicoso, il volto coperto e i cappucci alzati, avrei pensato che fossero semplici abitanti sopravvissuti alla dipintura in rosso.

La più vicina a me si scoprì la testa, lasciando ricadere sulle spalle fluenti onde color luna. Avevano anche la stessa luminescenza di quel disco colorato che stava in cielo.

Erano bellissimi.

La sua pelle era di un grigio soffuso, come il tratto sfumato di una grafite.

I suoi occhi, neri come la notte, riuscirono a mettermi in soggezione.

-Come ti chiami?- chiese in tono perentorio.

La sua voce era poco più di un rauco sussurro, ma aveva parlato.

Era la prima volta in sedici anni di vita che sentivo un Riflesso, che non fossi io, usare la voce.

Una voce bellissima, per di più.

Sembrava voler essere dolce come miele, nonostante il poco utilizzo l'avesse resa un po' gracchiante e bassa.

-Amelie.- risposi.

-Usi la Voce, come noi!- esclamò lei, sorpresa.

-Sì. Da che mi ricordo.- dissi, mettendomi a sedere.

Vidi che le altre tre figure avevano delle armi in mano.

Dovevano essere delle Ribelli.

Proprio come me.

Persone che non sopportavano le condizioni in cui eravamo costretti a vivere. Persone che non accettavano l'idea di dover esistere in quel modo.

-A cosa servono?- chiesi, indicando le canne scure dei fucili.

-Protezione. Qualcuno ha ucciso tutti quanti. Siamo rimaste solo noi e l'assassino.- mi spiegò la ragazza con il volto scoperto.

Non le dissi che ero stata io.

Non le spiegai che il mondo doveva essere ridipinto.

Non le spiegai nulla.

Non ero obbligata a farlo e non volevo. Preferivo tenere per me quell'informazione.

Mi era comodo.

Loro avevano tre fucili, io ero disarmata.

Di certo non mi conveniva dichiararmi colpevole.

Avevamo anche noi le nostre leggi e io ne avevo infranta una piuttosto importante.

-Sono Corvine. Loro sono Laureth, Valkhari e Gleam. Usano la Voce, come noi.- disse lei, tendendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi.

-Perchè non andate via?- chiesi ingenuamente.

-Via dove!? Non c'è un altro posto!- tuonò Corvine, frustrata.

-In realtà c'è...- mormorai.

 

Spiegai loro del mondo giusto, di come non fosse soltanto una leggenda in uno stupido libro di fiabe, la maggior parte delle quali incomprensibili.

Dissi loro che potevamo raggiungerlo insieme, in poche ore.

Le avvertii di tutti i rischi, di come avrebbero dovuto tornare al campanile e superare lo specchio ogni tre o quattro giorni.

Raccontai loro dei colori, del sole, della luna, dei suoni e di tutte le meraviglie che facevano parte di quel luogo.

Laureth, la ragazza più bassa e carina delle quattro, che aveva la pelle di un grigio scuro, occhi color del fango e capelli tendenti al verde palude, sembrò poco convinta.

Mi squadrò a lungo, cercando di capire se fossi totalmente fuori di testa o se, in parte, ciò che avevo detto fosse vero.

-Quale motivo avrei di mentire?- domandai nel tono più conciliante che potei trovare.

Mi piaceva l'idea di affiancarmi a loro, soprattutto a Corvine, in quel viaggio.

Per la prima volta non sarei stata da sola a soffrire, ad aver paura, a sentire l'inquietudine.

Per la prima volta avrei avuto dei compagni veri, gente uguale a me, che mi avrebbe sempre capita. Che aveva una chiara idea del mio disagio, del disagio che provano i Diversi.

-Magari non menti. Può essere che tu ci creda davvero, ma questo non lo rende meno folle.- borbottò Gleam.

La sua pelle era bianca, anche più bianca della mia, ed era addolcita da capelli color noce. I suoi occhi erano però duri come pietra e avevano il colore del ferro.

Appena l'avevo vista a volto scoperto avevo capito che era una persona feroce.

Lei non si sarebbe fatta problemi ad uccidere.

Proprio come me.

L'ultima delle quattro, Valkhari, mi affiancò.

-Io ti credo.- mi disse.

Sentii il petto che si scaldava.

Era una sensazione così strana.

Non l'avevo mai provata prima di allora, nemmeno in presenza di Soleil.

-Stare qui non è la soluzione. Abbiamo delle armi, e quindi? Chi stiamo combattendo? Sono tutti morti! È giunto il momento di trasferirci.- esclamò a voce alta.

La sua era meno rauca delle altre, segno che probabilmente parlava più di tutte loro.

Mi piaceva Valkhari. Mi piacevano i suoi capelli, erano di un colore intenso, un viola che avevo visto poche volte anche nel mondo giusto, ed i suoi occhi erano come ghiaccio, seppure sapessero guardare con dolcezza.

Era amichevole e sapeva farsi ascoltare. Fu lei a convincere le altre, soprattutto Laureth e Gleam, ad attraversare lo specchio.

Corvine, già dall'inizio, non sembrava troppo reticente ad assecondarmi.
Le vedevo negli occhi la stessa esasperazione che sentivo nel cuore.
Né io né lei potevamo sopportare un altro giorno in quella desolazione.
Nemmeno il rosso bastava più a farmi sentire meglio.
Era come se fossi dipendente dal mondo giusto.

Null'altro mi avrebbe resa felice o serena o tranquilla.
-Va bene. Lo faremo. Tutte insieme.- disse. Era il capo e nessuna di loro avrebbe voluto mai stare nel mondo specchio senza di lei.

 

 

Soleil

 

Una mattina, così com'era arrivata, Amelie scomparve. Non una parola, non un biglietto.
Non gliene facevo una colpa, davvero, ma di sicuro mi aveva rattristata.
Ne parlai con la dottoressa Hewett.

Lei lo interpretò come un miglioramento.
Corvette era stata dimessa dall'ospedale e passavo praticamente ogni pomeriggio a casa sua, in compagnia di Lauren, Valkirya e Glimmer.
Secondo Fannie, l'avvicinamento a persone reali mi aveva fatto perdere il bisogno di un'amica immaginaria che colmasse i vuoti.
Ma io sapevo che c'era più di questo.

Amelie se n'era andata perchè non le avevo prestato attenzione. L'avevo ignorata in favore di un gruppo di amiche del mio mondo.
Non le avevo permesso di fare nulla, avevo preteso che stesse chiusa in casa come un uccellino in gabbia.
Ero stata crudele e insensibile.
Dopo tanto che eravamo state lontane, avrei dovuto, per lo meno, dedicarle più tempo.
Ne avevo parlato anche con Valkirya.

Era tempo di rendere la cosa ufficiale.
Tra una cosa e l'altra, tutte le ragazze lo vennero a sapere.
Corvette non fece alcun commento, si limitò a sorridere e fingere di essere gelosa.
Lauren ridacchiò a lungo, scusandosi ogni cinque minuti e Glimmer liquidò la faccenda come "una delle mie tante stranezze", ma lo fece in modo amichevole.
Per loro, Amelie non era niente di più di una fantasia.
Valkirya fu l'unica a preoccuparsi, forse perchè eravamo amiche da una vita e conosceva i miei precedenti.
Alla fine, tutto era stato meno peggio di quanto avessi temuto.
Eppure, nemmeno il loro calore mi fece sentire meglio.
Il pensiero di aver abbandonato, di nuovo, la mia metà mi dilaniava ogni volta che mi coricavo sul letto per dormire.
Anzi, ogni volta che ero da sola.
Cosa che non accedeva poi così spesso.
In pochi giorni la mia vita era cambiata drasticamente.
Avevo la ragazza dei miei sogni, una compagnia di amiche e una vita sociale decente, molto più attiva di quella precedente.
Avrei dovuto esserne felice, ma una parte di me sapeva.

Sapeva che tutto quello non era ciò che desideravo davvero.

Avevo passato dieci anni pensando costantemente ad Amelie.

Ero stata in coma per un mese, e tutto per starle vicino.

Perchè io volevo starle vicino.

Tutte quelle notti che speravo di poterla rivedere, tutte le superfici riflettenti che avevo evitato, per non dover vedere le sue pupille bianche, per non dover rimpiangere, ancora una volta, di aver preferito mia madre, il mio mondo, il Paradiso.

Poi Amelie era tornata e io non ero stata in grado di esprimere tutta la gioia di riaverla con me, tutto il dolore che avevo provato.

Mi ero distratta.

Avevo preferito fare amicizia con Glimmer e Lauren, stare vicina a Corvette, dimostrare a Valkirya ed ai miei genitori che ero normale, quando invece avrei dovuto tenermi stretto ciò che avevo di più caro al mondo, ciò che per dieci anni mi era mancato come la pioggia in periodo di siccità.

Il sole, da solo, poteva risultare davvero odioso, doveva avere qualcuno che lo oscurasse, di tanto in tanto.

-Va tutto bene?- mi chiese mia madre, appoggiandomi davanti il piatto della cena.

Con la forchetta infilzai la bistecca di manzo, poco convinta.

-Cosa ne pensi dei gay?- le chiesi, cercando di dirottare il discorso sull'altra grande faccenda che mi assillava.

Avrei voluto presentare loro Corvette, prima o poi. Nei panni della mia ragazza.

-Nulla. Cosa dovrei pensarne?- ribatté lei, un po' confusa dalla mia domanda.

-Non lo so... E papà?-

-Papà non pensa nulla di nessuno, purchè siano decenti esseri umani.- rispose lei, sorridendo.

Era la classica frase che usava sempre mio padre quando gli veniva presentato qualcuno di nuovo.

-Sto vedendo una persona.- confessai.

-Bene. Com'è?- mi domandò, mettendosi in bocca una forchettata di purè di patate.

-Fantastica...- mormorai.

Ero un po' in imbarazzo perchè sapevo che lei aveva capito.

Non fece nessun commento, proprio come Fannie Hewett.

Forse a nessuno interessava poi così tanto come temevo.

Prima o poi le avrei parlato anche di Amelie.

Forse durante la prossima serata tra di noi, mentre papà era costretto a presenziare a qualche evento importante.

Di sicuro non quella sera.

Una confessione per volta era abbastanza.

Ci guardammo un film, sedute scompostamente sul divano.

Lei appoggiava la testa alla mia spalla e di tanto in tanto allungava una mano nella grande ciotola piena di caramelle gommose che avevo in grembo.

Andava pazza per le caramelle gommose.

-Domani esco.- la avvertii.

Non era necessario che glielo dicessi nei giorni settimanali, a meno che io non stessi fuori per i pasti o per la notte, ma siccome l'indomani era una domenica, mi sembrava cortese farle sapere che non sarei stata in casa.

-A che ora?- chiese, rigirandosi una gelatina al limone tra le dita.

-Nel pomeriggio. Verso le quattro.- risposi.

-Ok. Se a casa per cena? Tuo padre voleva portarci al ristorante.-

-Sì, sono a casa.- la rassicurai.

Quando il film fu finito, nessuna delle due aveva ancora voglia di andare a dormire. Restammo lì, praticamente abbracciate, a parlare del più e del meno.

-Ho parlato con Fannie qualche giorno fa. Dice che stai meglio.- borbottò ad un certo punto, obbligandomi a lasciare a metà il mio racconto del professor Victor Marshall che rispondeva a Valkirya con la perfetta dose di sarcasmo e ironia necessaria a farla stare zitta.

Non sapevo cosa dire di fronte a quell'affermazione.

Sapeva che avevo tutto il diritto di arrabbiarmi.

Più volte le avevo chiesto di non intromettersi, per lo meno non durante il periodo di sedute, eppure lei continuava a farlo, imperterrita e, ancor più grave, sempre convinta di averne il diritto ed il dovere di madre.

-Scusami.- disse per colmare il silenzio.

-Non fa niente. Me ne vado a letto.- appoggiai la zuppiera di gelatine e caramelle sul tavolino da caffè e, senza nemmeno aspettare che si spostasse, mi alzai.

-Non fare così! Ero preoccupata...- provò a giustificarsi.

-È una cosa privata, ok!? Quello che ci diciamo deve restare tra di noi, eccetto in casi specifici. Perchè devi sempre intrometterti?- sbottai.

-Non lo faccio certo per indispettirti, Sole, lo faccio perchè mi interessa la tua salute.- mi rispose, sedendosi in modo più composto.

-Io sto benissimo. Sono passati dieci anni da quando sono stata in coma, passa oltre, superalo!- esclamai, allargando le braccia per l'esasperazione.

Era sempre stato così, lei non riusciva a farmi fare più di tre sedute che subito doveva chiamare Fannie Hewett per scucirle a forza qualche informazione.

-Intendevo la salute mentale.- sussurrò.

Lo vidi perfettamente l'esatto momento in cui si pentii di quella frase.

E nonostante lo avessi visto, non potevo fargliela passare così.

Mi aveva dato della pazza, in modo sottile e crudele.

Sapeva quanto mi stesse a cuore che tutti pensassero che io ero normale.

Le conosceva bene le mie preoccupazioni, le conosceva eppure aveva detto quella frase.

Lei pensava, o peggio ancora temeva, che io non fossi sana di mente.

Che senso aveva averle nascosto la verità su Amelie per tutti quegli anni se non mi portava ad apparire normale ai suoi occhi.

Dopotutto, lo avevo fatto per lei.

L'avevo abbandonata perchè mia madre ne aveva paura.

La avevo lasciata all'Inferno perchè mia madre non piangesse più, non si sentisse sola.

-Scusa tanto se non sono normale, Mary.- sibilai velenosa, prima di rifugiarmi in camera mia e chiudere a chiave la porta.

La sentii avvicinarsi a piccoli, silenziosi, passi, ed appoggiare la mano contro il legno spesso e lucido.

-Scusami.- disse ancora.

La ignorai, ero troppo impegnata ad asciugarmi le lacrime e a sciogliere il nodo che avevo in gola.

Se le avessi parlato ancora, anche solo una parola, sapevo che i freni che mi ero imposta di mantenere si sarebbero allentati e sarei scoppiata in un pianto disperato.

Perchè avevo fatto davvero troppo male a quella creaturina, e tutto per colpa di mia madre, della sua incapacità di lasciarmi libera.

Lei non si era mai accorta di quanto io fossi felice con Amelie.

Mai.

Aveva preferito averne paura, aveva preferito non ascoltare, non vedere, chiudere gli occhi, la mente, il cuore.

Aveva preferito credermi pazza, sottopormi ad esami, farmi osservare da equipe di psicologi, da cosiddetti specialisti e, per finire, dalla dottoressa Hewett, che, senza dubbio, era sempre stata il male minore.

Il nome di Amelie era stato proibito, parlare con lei assolutamente vietato e se anche la guardavo e basta, mia madre andava in paranoia, convinta che avessi lo sguardo perso nel vuoto.

Ma dopotutto, una persona dovrebbe abituarcisi dopo dieci anni, no?

  
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