Dopo un
tempo che mi sembrò
interminabile, finalmente, una preda fece la sua comparsa: un giovane
cervo,
solo. Come i ragazzi che, con le guance appena scurite da un primo
accenno di
barba, entrano a far parte della vita adulta, procedette, fiero e
baldanzoso
sempre più vicino al mio nascondiglio.
Mi
immobilizzai ancora di più,
nonostante i crampi alle gambe per essere stata così a lungo
accovacciata. Non
potevo mandare tutto a monte sul più bello.
Il vento mi
proteggeva, spirando
nella mia direzione, nascondendo al suo fiuto il mio odore. Rassicurato
dall’apparente assenza di pericolo, chinò la
testa, allungando il collo forte e
flessuoso, per brucare placidamente l’erba tenera sotto i
suoi zoccoli. Ecco
giunto il momento propizio, quello per cui quella stessa mattina,
all’alba,
avevo inneggiato alla dea e sacrificato una bianca capretta. Allungai
la mano
verso il mio fedele arco, incoccai la prima freccia e portai la mano
destra a
sfiorare le labbra, sentendo la tensione della corda lavorare contro i
miei
muscoli. Aguzzai la vista, stringendo le palpebre per metterlo meglio a
fuoco.
Trattenni per qualche attimo il fiato. E poi…
Un suono, un
sibilo seguito da
uno schiocco, come di un altro arco, spaventò il cervo, che
fuggì, balzando
elegantemente sulle sue agili zampe. La distrazione mi fece mollare il
dardo
che mandai a conficcarsi nel tronco di un albero. Chi osava disturbare
un’attività tanto degna e sacra, chi disturbava
una delle compagne di Artemide?
Il Parnaso era un monte sacro, in pochi avevano l’ardire di
avventurarvici:
vergini cacciatrici, poeti ispirati, Muse e divinità
popolavano questi boschi.
Poteva essere solo uno sventato, un folle. Mi volsi nella direzione da
cui era
provenuto il rumore molesto, furibonda.
Appoggiato
ad un tronco, tenendosi
il petto, stava un giovane. Era la perfezione dei canoni di bellezza
maschile.
Membra ben proporzionate, con gambe lunghe e atletiche, spalle larghe
senza
risultare imponenti coperte dalla veste purpurea, stretta dalla cinta
in
corrispondenza dei fianchi. Ma era il viso che, pur distorto da una
smorfia di
dolore, catturava immediatamente l’attenzione: aveva i
lineamenti di una
statua, forse più belli, perché mossi da
un’aura dorata che sembrava provenire
dalla sua pelle. Per un attimo mi parve di vedere circondata dalle sue
mani,
strette sul cuore, una freccia d’oro. Puntò i suoi
occhi, contornati da
riccioli di capelli, su di me e mi sentii come un agnellino di fronte
ad un
lupo. Per diversi secondi il cuore mi batté
all’impazzata, quasi volesse uscirmi
dal petto. Ero intrappolata dalle sue iridi dorate.
Poi venne il
colpo, così forte da
sentire il petto come se si accartocciasse, come colpito da un ariete,
facendomi piegare su me stessa . Sentii una fredda stilettata al centro
del
petto, come se fosse penetrato un lungo pugnale nelle mie carni. Mi
salì
dell’amaro in bocca, ma nulla di fisico mi aveva toccata.
Sollevai di
nuovo lo sguardo
verso il ragazzo e l’espressione dolce con cui mi guardava
acuì il dolore al
petto, facendo crescere dentro di me rabbia e repulsione. Il suo bel
viso era
più rivoltante di una carcassa divorata dai parassiti. Lo
vidi sollevare verso
di me la sua mano immonda e, come spinta da una forza esterna, scappai
nella
direzione opposta.
-Fermati,
non scappare! Non ti
sono nemico, lo
sentii urlare a gran
voce, inutilmente, cercando con il suo tono carezzevole di ammansirmi.
Non
sapeva che così si rendeva ancor meno tollerabile: le tenere
parole che mi
rivolgeva erano come pizzichi di un tafano fastidioso. Più
chiamava, meno
desideravo voltarmi. La sua voce melodiosa mi pareva stridula e
sgraziata come
le unghie sul vetro. Avrei preferito buttarmi tra le fiamme di un
incendio,
essere straziata da quattro cavalli in corsa, diventare il pasto di una
belva, piuttosto
che farmi raggiungere.
Correvo,
lanciata a perdifiato
tra i tronchi e i rami, con i capelli scarmigliati che mi volavano
davanti agli
occhi. La tunica corta mi si sollevava sui fianchi mentre slanciavo le
gambe in
avanti in quella corsa sfrenata.
Quando lo
sentivo più vicino,
quasi a ghermirmi, facevo più forza sulle gambe, battevo i
piedi contro il
suolo ad un ritmo più veloce.
-Non sai chi
sono io… Lo sentii
dire. Non mi importava chi fosse, quel che davvero volevo era che
smettesse una
volta per tutte di inseguirmi. Sapevo già abbastanza: volevo
solo mettere
quanta più distanza tra me e lui, era un bisogno dettato da
qualcosa al di là
della ragione, il sentimento di disgusto dentro di me era talmente
forte da
riempirmi totalmente e sopraffare qualsiasi altra cosa.
I rami mi
graffiavano le gambe,
la dura corteccia mi scorticava la pelle, i sassi sul terreno erano un
tortura
per i miei poveri piedi, ma nonostante ciò, non appena
sentivo il mio
inseguitore farsi più vicino di
anche un
solo passo, balzavo in avanti sospinta da una nuova forza, che andava
però via
via affievolendosi.
Le lacrime
cominciavano a rigarmi
le gote, a inondare il mio viso e ad accecare la mia vista.
Cominciai a
maledire il giovane,
che inspiegabilmente mi seguiva, me, che seguitavo a scappare, quel
giorno
infausto, il sole, la luce.
Volevo solo
sparire, smettere di
correre, fermarmi.
Il pensiero
andò a mio padre che
numerose volte mi aveva chiesto di prendere marito, di dargli dei
nipoti. Come
potevo anche solo pensare di dargli retta, soddisfare il suo desiderio,
se la
sola di vista di quest’uomo provocava in me
quest’istinto di fuga, una
necessità fisica di allontanarmi il più possibile.
Allungai il
passo ancora una
volta, formulando una preghiera a fior di labbra. La frustrazione per
la mia
incapacità di distanziare a sufficienza l’odiato
inseguitore, faceva scorrere
ancora più copiose le mie lacrime. Singhiozzavo
rumorosamente, l’aria che
entrava nei polmoni era una fitta dolorosa e non placava il fuoco che
avevo nel
petto.
Le mie
falcate si facevano più
corte, sentivo un senso di gravità bloccarmi al suolo che
cresceva sempre più.
Sentii un
brivido percorrere
interamente il mio corpo, dalla punta dei piedi alla radice dei
capelli. Mi
ritrovai ferma al centro di una radura. Provai a spostarmi, ma non ci
riuscii.
Dei sottili filamenti si erano ancorati dal suolo a partire dalle dita
dei miei
piedi. Le mie estremità cominciavano a scurirsi e a
diventare insensibili.
Terrorizzata, guardai nella direzione del giovane. Stava arrivando, mi
avrebbe
presa.
Guardando a
terra mi accorsi di
non avere più le gambe dal ginocchio in giù:
sulle mie membra brune cresceva
uno strato di corteccia che saliva gradualmente, circondandomi.
Portai le
mani al viso,
disperata. Dalle mie unghie nascevano ramoscelli verdi, su cui
spuntavano le
prime foglioline. La mia chioma, la mia bella chioma, il mio vanto si
era
trasformata in fronde verdi.
Chiusi gli
occhi, attendendo la
fine.
Poco prima
che tutto diventasse
nulla, sentii delle braccia cingermi i fianchi, in gran parte coperti
dalla
scorza legnosa. E percepii un bacio sulla corteccia, dove una volta
stava il
mio viso.
N.d.A.
Ciao a tutti!
Spero che questa ff vi piaccia, sono sempre stata legata alla mitologia
greca e
finalmente ho trovato un’idea per renderla un pochino
più personale.
Fatemi
sapere cosa ne pensate J
SaraDubhe